sabato 30 gennaio 2010

Noi che siamo un grumo di sogni


"Quando hai terminato l'analisi, quel che ti resta in mente sono soprattutto i sogni e le loro interpretazioni. In analisi ripeti infinite volte lo stesso problema senza non dico risolverlo ma nemmeno impostarlo, poi càpita che sogni un personaggio o una scena (naturalmente mascherati, quindi irriconoscibili), e l'analisi spicca un volo. Io credo che Zanzotto, Bertolucci, Bellocchio, la Lamarque, insomma tutti i fratelli di analisi, abbiano (abbiamo) nella memoria un grumo di sogni: noi siamo in quel grumo. Lì è la nostra storia, la nostra denuncia, protesta e redenzione. Una nostra biografia, che non includa i nostri sogni, è falsa. Un uomo, una donna non è quello che è quando scrive, mangia, discute, fa l'amore: un uomo, una donna lo conosci quando ne conosci i sogni.
Entrando nei suoi sogni, entri in uno spazio che neanche lui conosce. Quando ti racconta un sogno, ti dice di sé qualcosa che non sa. Perciò è sincero. L'uomo che dice quel che sa, o che sa quel che dice, mente. Se unirsi in matrimonio vuol dire spartire la vita, in realtà una moglie in analisi è unita all'analista molto più che al marito. L'analista è l'unico destinatario dei sogni. Qualunque cosa lei sogni, anche di fare sesso, lo sogna per raccontarlo all'analista: vive in funzione dell'analisi.
Sto semplicemente prolungando le teorie esposte nell'Interpretazione dei sogni di Freud, che Bollati Boringhieri ripropone nel settantesimo anniversario della sua morte. È un libro epocale. Per questo, uscendo nel 1899, portava in copertina la data del 1900: per annunciare un nuovo secolo. È il testo-base dell'analisi freudiana. La traduzione di tutte le opere di Freud in Italia è stata diretta da Cesare Musatti che degli psicoanalisti italiani era il presidente. Ha sempre applicato con rigore il metodo freudiano con tutti coloro che ha avuto in analisi (lui li chiamava «pazienti», termine assurdo). Compresi Pasolini e Ottieri.
E chi scrive questo articolo. La sua tesi era che l'analisi è un cibo: se hai fame devi mangiare, leggere menù non serve a niente. Questo vale anche per i sogni. Puoi leggere e rileggere L'Interpretazione dei sogni, e non capire come funziona. Ma se la sperimenti per anni, ne conservi una traccia indelebile.
Naturalmente il sogno dev'essere il sogno sognato. Qualche anno fa è uscito Il libro dei sogni di Fellini, dove i sogni non sono quelli sognati. Fellini al risveglio scriveva il sogno, mezza giornata dopo lo correggeva, poi lo batteva a macchina, infine correggeva anche il testo dattiloscritto: e portava in analisi l'ultima stesura. Grottesco. Il sogno non c'era più, l'inconscio era sostituito dal conscio, lo sgradito dal gradevole, la vergogna dall'onore. Dire un sogno non urta contro il dolore o l'angoscia o il rimorso: urta contro la vergogna. Sul sogno tu butti qualche associazione, così come viene, per quanto conturbante (per te o per l'analista) possa sembrare. Lui conferma o rettifica o sta zitto. La verità è quel che vien fuori dal racconto più la conferma o la rettifica o il silenzio. Tu devi imparare a dire tutto. Non ce la farai mai, ma quel che è terapeutico non è che tu dica tutto, ma che tu raggiunga la disponibilità a dirlo.
L'interpretazione dei sogni è un allenamento all'espressione, che è l'esatto contrario della repressione: tutto, nella società, reprime (scuola, religione, famiglia, ufficio ...), tutto, in analisi, libera. Il sogno è il materiale che vuole esser liberato, l'interpretazione è la tecnica per liberarlo. Perciò l'ora trascorsa insieme fra analista e analizzando intorno a un sogno è un'ora di educazione anti-stato. Musatti diceva: «A volte ho paura che i carabinieri facciano irruzione e ci portino via, me e il mio cliente, per associazione a delinquere». Se la società reprime e l'interpretazione dei sogni esprime, l'una è criminale per l'altra. È questa la scoperta di Freud." (da Ferdinando Camon, Noi che siamo un grumo di sogni, "TuttoLibri", "La Stampa", 30/01/'10)

venerdì 29 gennaio 2010

Quel libro che si è fatto da sé


"La storia di J. D. Salinger è in fondo la storia di una sparizione perfetta. Un libro, al massimo due, un'opera irripetibile e generaizonale come Il giovane Holden (The catcher in the Rye). E poi leggende, incontri segreti, rincorse, misteri. La vita nascosta dell'uomo di Manhattan, Jerome David Salinger, che aveva esordito sul New Yorker con un 'racconto perfetto', Bananafish. Quindi viene la vicenda davevro epocale del giovane Holden Caulfield, il Bildungsroman di un newyorkese inquieto, giovane per definizione epe rontologia, di cui oggi resta soltanto l'aura da anni Cinquanta, il profumo di un'epoca. La storia breve e intensa, seppure senza inizio e senza fine, di un diciassettenne che vagabonda in un'America che deve ancora modernizzarsi ma sta cercando di farlo, a fatica. Ed è per questo che il giovane Holden trasmette una sensazione di provvisorio, se non di inutile. Gli è morto di leucemia un fratello, ha una sorella più piccola, è decisamente un outsider del circuito scolastico, che frequenta con risultati più o meno catastrofici. [...] La trama si svolge sullo sfondo di una New York grigia, Holden frequenta locali discutibili, amiche un po' affrante. Il romanzo apparirebbe coem una storia solo di parole, se non ci fosse il profilo della città a fare da protagonista, e soprattutto il modo in cui i ragazzi della metropoli giocano la loro vita. Nel tempo, regalare il romanzo di Salinger è diventato un gesto riconoscibile, che rappresentava, e ancora rappresenta, un modo per dimostrarsi eccentrici, fuori dai conformismi. Ma si può ancora cercare in Salinger una verità sulle generazioni e sull'America? Oppure il romanzo è diventato un oggetto di archeologia, che racconta storie e Americhe che non ci sono più? Non è facile dirlo con sicurezza, anche se a rileggere oggi Il giovane Holden sembra di avvertire qualcosa di invecchiato. Il che, forse, è anche la ragione del suo fascino perdurante. Volendo, si legge il romanzo di Salinger come un autentico classico, una storia senza nessuna sbavatura, in cui ogni parola è essenziale, ogni battuta è perfetta, ogni piccola storia interna è di precisione memorabile. Si legge ancora, The Catcher in the Rye? Oppure si contempla, e si adora, come un oggetto a cui rivolgere il tributo dell'età adulta verso l'età dell'adolescenza? L'unica certezza, dopo la scomparsa di Salinger, è che il mondo di Salinger non scompare: rimane qui, in un libro, in un piccolo mondo." (da Edmondo Berselli, Quel libro che si è fatto da sé, "La Repubblica", 29/01/'10)

Addio Salinger, il suo «Giovane Holden»
è un simbolo e un'icona da generazioni
(Corriere della Sera)

La lenta fine di Luciana B. di Guillermo Martinez


"'In un romanzo poliziesco cosa conta di più, in fondo? Non certo i fatti né la sequenza dei cadaveri, ma piuttosto le congetture, le possibili spiegazioni, ciò che va letto tra le righe'. La chiave per decifrare (forse) il nuovo romanzo dell'argentino Guillermo Martinez esce dalla bocca di uno dei suoi protagonisti, l'inquietante Kloster. Non è molto importante quello che si vede, insomma, ma ciò che resta nellì'ombra e che il lettore deve svelare a colpi di immaginazione. Il romanzo si intitola La lenta fine di Luciana B. e, come il precedente successo internazionale La serie di Oxford, in Italia è pubblicato da Mondadori. Il suo autore è un matematico nato nella ventosa e portuale Bahia Blanca, città universitaria del Sud Argentina [...]. Lui Martinez, 47 anni, è uno dei più prolifici e tradotti scrittori argentini, collaboratore del New Yorker, saggista, romanziere. Ha lasciato da poco la carriera universitaria per dedicarsi solo alla scrittura. Nel romanzo, due scrittori, uno famoso la'ltro no, sono coinvolti nellas toria tenebrosa della loro ex dattilografa, la bellissima Luciana B. del titolo. E con lei arrivano una scia di morti apparentemente naturali e un mistero che sfuma i confini fra letteratura e filosofia.
Lei lo ha definito un poliziesco astratto: cosa significa? 'Che non mi interessano i parafernalia del genere: polizia, avvocati, medici legali, ma sono attratto dai crimini e dalle congetture che scatenano, cioè dall'aspetto teorico. Il passato che resiste nel presente, per esempio il rapporto tra la riparazione della giustizia e il dolore della vittima. La giustizia che guarda avanti e la vittima che invece guarda al passato. Una specie di impossibilità tra quello che può fare la società per rpeservarsi e quello che reclamano le vittime'. [...]
Jorge Luis Borges ha ancora un peso rilevante nella cultura argentina? 'Più che letto, Borges è stato un maestro di letture: la sua biblioteca, che è universale, è la biblioteca ideale degli scrittori argentini, che in generale leggono poco i loro conterranei, anzi c'è una certa invidia e competizione. Sono pochi i nostri maestri, Borges è uno di quelli. Ma anche Cortàzar e Roberto Arlt. E tra i miei contemporanei considero eccellenti Pablo de Santis e Ricardo Piglia'. [...]" (da Alberto Riva, I miei noir astratti, nella Baires di Borges, "Il Venerdì di Repubblica", 29/01/'10)

mercoledì 27 gennaio 2010

Ci vediamo a casa, subito dopo la guerra di Tami Shem - Tov


"Nell'orrore dell'Olocausto, Ci vediamo a casa, subito dopo la guerra (Piemme), la storia raccontata da Tami Shem-Tov ha un miracoloso lieto fine proprio come lo ebbe, nella realtà, la vicenda di Jacqueline, una bambina ebrea di dieci anni sfuggita alla Shoah grazie alla rete della Resistenza e al coraggio di una famiglia cristiana che la tenne nascosta sotto la falsa identità di Lieneke. Suo padre, veterinario e uomo di scienza dall'innato talento artistico, riuscì in quel periodo buio e traumatico a dialogare con sua figlia attraverso lettere costellate di disegni colorati e d'amore. Si firmava zio Jaap e, con quella corrispondenza segreta, ossigeno e viatico per la bambina, riuscì a farle sentire sempre il suo amore aiutandola a superare il freddo, la paura e la lontananza da casa.
1943, nell'Olanda occupata vigono da tempo le leggi razziali e si va verso la tragedia. Chi può fugge e a Jacqueline e a sua sorella Rachel i genitori spiegano che è necessario separarsi e che, da allora, si dovrà fare "il gioco dei nomi". Lei lascerà il suo, andrà a stare in un'altra famiglia, lontano da Utrecht e non dovrà mai rivelare chi è veramente. Né che suo padre è il vero autore delle lettere che le riempiono il cuore e che lei si beve al riparo da tutti gli sguardi. Nella casa che la ospita, in un villaggio remoto, la piccola Leneke passa il tempo aiutando il dottor Kohly e sua moglie a preparare le medicine nel retro della loro farmacia, ma spesso si sente triste e sola. Manda a memoria le lettere di papà; è l'unico modo per tenerle con sé visto che poi le deve consegnare a "zio" Kohly che è costretto a distruggerle. Nessuno le deve trovare, nessuno si deve insospettire. Chi nasconde un ebreo, viene passato per le armi, senza se e senza ma. Allora lei le legge e rilegge per, infine, mormorare un tenero e consolatorio: "Ci vediamo a, casa, subito dopo la guerra." E così accade davvero. Scampata all'Olocausto, la famiglia si trasferisce in Israele. E, dopo oltre sessant'anni, Tami Shen-Tov, israeliana, giornalista e scrittrice affermata, raccoglie la testimonianza di Jacqueline-Lieneke, vola con lei in Olanda a caccia di memoria e ci regala un romanzo struggente che ricorda la vena poetica di La vita è bella.
La storia di Lieneke è vera, chi era quella bambina?
'Naturalmente ci sono delle differenze tra la protagonista del libro e la ragazzina della vita vera. Ci vediamo a casa subito dopo la guerra è un romanzo e non una biografia ma, quando ho incontrato Lieneke, ho ascoltato le sue memorie e il modo in cui rievocava le sue vicende e ho parlato di lei con altre persone. Ho capito molto velocemente che tipo di ragazzina fosse perché in qualche modo, da ragazza, anch'io ero come lei. E infatti dopo aver letto il libro, Lieneke mi ha detto che io ero stata la prima persona al mondo ad avere davvero capito chi lei fosse stata. Era una "goody goody", una bambina che voleva piacere, con moltissima immaginazione (nella vita come nel libro, tanto che a volte raccontava le storie ai cassetti del comodino e la sorella le diceva "Smettila di parlare con i mobili!") e comunque era una bambina molto riflessiva. Quindi mi sono potuta ritrovare profondamente in lei. Lieneke è molto vicina a come poteva essere Jacqueline ma, ovviamente, il mio è un romanzo e dentro c'è anche un po' di me. E' davvero come se la Lieneke del libro fosse un'emanazione delle nostre due esperienze di vita'.
Quanti bambini/bambine vennero all'epoca esiliati e nascosti all'estero sotto falsa identità?
'Per me è difficile azzardare dati precisi sul fenomeno, non sono una storica né una ricercatrice e ho scelto di affrontare il tema della Shoah partendo da una piccola storia che sta dentro alla "Grande Storia". Tuttavia il fenomeno era piuttosto diffuso in Europa, in Olanda in particolare sono stati migliaia i bambini nascosti sotto falsa identità da famiglie del luogo, prevalentemente di religione cattolica. Queste famiglie correvano peraltro rischi altissimi in quanto la parte del Reich che occupava l'Olanda offriva ricompense economiche a chi denunciava le persone che ospitavano fuggiaschi e, inoltre, se veniva scoperto un ebreo nascosto all'interno di una famiglia, tutti gli abitanti della casa venivano immediatamente e pubblicamente uccisi. Chi decideva di correre questo rischio lo faceva soprattutto per spirito di solidarietà cristiana e accadeva spesso che si creassero legami fortissimi con i piccoli protetti. In alcuni casi è perfino successo che, dopo la guerra, gli ospitanti si rifiutassero di aiutare il bambino a ricongiungersi con le proprie famiglie di origine'.
Nella tragedia della Shoah, un lieto fine ... Perché questa scelta?
'Questa è una storia vera e fortunatamente la vicenda di Lieneke si è davvero risolta positivamente. E sono stata molto felice di poter scrivere un libro sul tema della Shoah che potesse prestarsi a un messaggio positivo. Per me era importante enfatizzare l'eroismo, la solidarietà e la bontà dell'animo umano anche in un periodo buio come quello del regime nazista. Non ho voluto, infatti, affrontare l'argomento attraverso l'orrore dei campi di sterminio, il dolore, le torture. Inoltre io tendo a identificarmi molto con i miei personaggi e non credo sarebbe stato possibile immergermi nella realtà di un campo di concentramento; sarebbe stato un coinvolgimento emotivo troppo forte, per quanto sia stato spesso duro identificarmi nella stessa Lieneke in certi passaggi molto delicati del libro ...'." (da Silvana Mazzocchi, Sogno di una bimba nell'orrore. A casa, dopo l'Olocausto, "La Repubblica", 27/01/'10

Ascoltare la luce. Vita e pedagogia di Janusz Korczak


"Musica Kletzmer, la musica degli ebrei dell’Europa centro-orientale, ad accompagnare la storia di Janusz Korczak. Note allegre e tristi insieme, la colonna sonora di una tragedia che oggi, 27 gennaio, l’Italia e l’Europa ricordano solennemente, ma che di fronte alla biografia di un «eroe qualunque» come Korczak, si trasformano nel respiro sincopato di milioni di anime perse nel gorgo dell’Olocausto. Anime di un’Europa che non c’è più. Anime che chiedono di non essere dimenticate. Anime come quella dell’educatore ebreo-polacco che rivive nel bel saggio di Dario Arkel: Ascoltare la luce. Vita e pedagogia di Janusz Korczak (Atì editore). Alla Fondazione Minguzzi, Arkel, introdotto da Armando Torno, ricrea — almeno verbalmente — il fantastico mondo di Korczak, nome d’arte di Henryk Goldszmit, nato a Varsavia nel 1878. «Korczak — spiega Dario Arkel — aveva assunto il nome di un eroe dei libri di avventura per ragazzi di fine Ottocento». Celebre pediatra, collaboratore delle maggiori università e centri di ricerca d’Europa, il pedagogo polacco più noto della sua epoca si era inventato un modo per «parlare» ai bambini «con il linguaggio dei bambini». Non voleva essere un eroe. Voleva solo riuscire a dialogare con profitto «entrando», forse meglio dire «abbassandosi» al livello dei piccini. «C’era riuscito egregiamente — conferma Arkel — inventandosi una pedagogia all’avanguardia per intelligenza ed efficacia».
ORFANOTROFIO MODELLO - Il suo orfanotrofio era un modello. Poteva diventare qualcosa di più. Ma la barbarie nazista distrusse alla radice l’opera di Korczak. Nell’agosto 1942, quando arrivò l’ordine di deportazione, nel rifugio vivevano 203 bambini. Il pedagogo, per i suoi meriti e per la sua celebrità (aveva insegnato, lui che parlava il tedesco perfettamente. anche all’Università di Berlino), avrebbe potuto salvarsi. Per lui, solo per lui, era pronto un salvacondotto. Ma Korczak non esitò nemmeno un istante. «Una madre non abbandonerebbe mai suo figlio — disse a chi gli proponeva di fuggire —. Io non sono una madre: ma ho 203 figli e non li lascerò mai soli».
MITE MA NON PAVIDO - Korczak era un uomo mite, ma non era un pavido. Il suo unico pensiero, in quel tragico giorno, era rivolto ai «suoi» orfani, ad evitare loro traumi, la paura. Perciò li fece vestire con gli abiti migliori, il grembiule pulito, una sacca per la merenda: come se si preparassero a una gita. Poi scese in strada e diede ordine secchi, in tedesco, alle SS che avevano circondato il palazzo, manco fosse il nascondiglio di pericolosi partigiani: «Allontanate immediatamente i cani! I bambini hanno paura!». Gli orfani e Korczak marciarono fino all’uscita del Ghetto di Varsavia. Il 6 agosto 1942 arrivarono a Treblinka e lì si spensero le loro vite.
«NON VOLEVA SENTIR PIANGERE I BAMBINI» - Insieme a Korczak, ai suoi orfani, fu distrutta un’esperienza unica nel suo genere. L’orfanotrofio, infatti, era stato costruito come una sorta di «repubblica indipendente», spiega Dario Arkel, in cui ogni bambino aveva un ruolo: «C’era persino un tribunale, che serviva a far rispettare le leggi che gli orfani stessi scrivevano. Un giorno, Korczak finì dietro il banco degli accusati per essere processato: aveva alzato la voce con uno dei suoi piccoli». Talento multiforme, genio, letterato, autore di libri per l’infanzia, Janusz Korczak era un uomo semplice, non sarebbe mai diventato un eroe se gli eventi non avessero travolto il suo mondo, cancellandolo fino alle radici. Era una luce nel buio per i suoi bambini. «Non voleva sentirli piangere — conclude Arkel —. Sapeva che il tramonto era il momento più duro per loro». Per questo non li ha lasciati mai soli. Soprattutto quando il giorno si è fatto notte, per sempre." (da Paolo Salom, Korczak, «eroe qualunque» finito nel gorgo dell'Olocausto, "Corriere della Sera", 27/01/'10)

Wiesel: "L'eterna battaglia contro i negazionisti"


"'Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento. Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire'. Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l'Olocausto. Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano. Ascoltiamolo.
Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi? 'Rivedo ancora oggi ogni episodio. L'arresto in massa, la deportazione. Il viaggio atroce nei carri-bestiame fino ad Auschwitz. Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come 'Untermenschen', come subumani da eliminare. Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz. Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più. Perché eri insieme a migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte. Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte'.
Com'era possibile sopravvivere a questo sentimento? 'Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un'altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa. Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri. Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di 'to kill and to die', di chi uccide e di chi muore'. [...]" (da Andrea Tarquini, Wiesel: 'L'eterna battaglia contro i negazionisti', "La Repubblica", 27/01/'10)

Io sono l'ultimo ebreo di Chil Rajchman (Bompiani)

La poesia e i numeri


"Siamo in una strada dell'antica Grecia, quando un viandante si imbatte in una tomba. La scena è raccontata in una poesia di Alceo di Messene, autore vissuto tra il III e il II secolo a. C. Genere letterario fra i più noti, l'arte delle epigrafi conosce infinite varianti, ma la storia che segue riserva una sorpresa, e fa pensare piuttosto alla tradizione, altrettanto longeva, degli indovinelli. Infatti il nostro eroe, fermatosi a guardare, non trova scritto nulla, salvo una cifra: 'Io mi domando perché, sulla pietra che c'è lungo la via, / non c'è altro che un fi, che lo scalpellino incise due volte'. In greco, fi significa 'cinquecento', il che porta il passante a ipotizzare che la donna sepolta si chiamasse Chiliade, ovvero mille, equivalente a due volte cinquecento. Ma c'è una congettura più attendibile: probabilmente, spiega Alceo, chi sta nella tomba si chiamò Fidìs, cioè 'due volte fi'. L'esultanza per la soluzione trovata fa esplodere la voce narrante in un grido di gioia: 'Ho risolto come Edipo il rebus della Sfinge. / Lode sia data a chi trasse da duplice segno l'enigma - / luce agli astuti, agli imbecilli il buio'. Eccoci di fronte a uno strano e significativo esempio dell'incontro fra numeri e poesia. In questi versi, lo scambio fra i due tipi di codice viene infatti portato alle estreme conseguenze: la scrittura 'alfabetica' tende ad annettere al proprio interno elementi desunti da quella 'matematica', al punto che una cifra finisce per essere interpretata alla stregua di un nome proprio, anzi, di due. Ma di chi è questo sepolcro? Chi vi è seppellito? Un uomo, una donna o un numero? Domande del genere sorgono spontanee di fronte al convegno organizzato dall'Associazione Sigismondo Malatesta con il titolo La poesia e i numeri (Roma, Castello di Torre in Pietra, 29-30 gennaio). Siamo ovviamente alle prese con un terreno vastissimo, che investe un campo già di per sé sconfinato come quello della numerologia. Quest'ultimo tipo di preoccupazioni, tuttavia, può essere messo da parte: qui non si tratterà di analizzare 'il mistico intervento del numero' di cui parla Dante nella Vita Nuova, né di esaminare la vertigine delle cifre in Petrarca (il quale, secondo lo studioso tedesco Wilhelm Potters, avrebbe addirittura alluso al pi greco attraverso l'immagine di Laura). Nulla di tutto questo. Scopo dell'incontro sarà piutosto quello di studiare, nelle sue diverse, forme, l'attrazione della scrittura verso il numero, in quella assimilazione della cifra all'interno del dettato poetico corrispondente a un'estetizzazione del linguaggio matematico. Perché la domanda, in effetti, attraversa oltre due millenni di letteratura, dall'epoca classica a William Blake, da Novalis a Paul Valéry (con le sue ricerche sulla nozione di sezione aurea, o 'numero d'oro'), dal Raymond Queneau di Centomila miliardi di poesie (libro composto da dieci sonetti i cui rispettivi 14 versi, aventi le stesse rime e la stessa costruzione sintattica, possono essere combinati così da offrire il numero di poesie indicato nel titolo) al Leonardo Sinisgalli di Furor mathematicus, da Iosif Brodskij al Mago dei numeri (Einaudi) di Hans Magnus Enzensberger. [...]" (da Valerio Magrelli, Le equazioni della poesia, "La Repubblica", 26/01/'10)

martedì 26 gennaio 2010

La contraddizione di Primo Levi


"Che cos’è Se questo è un uomo? «Uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano»", è scritto nella sua prima pagina. Nella prefazione che apre l’edizione De Silva del 1947, prima pubblicazione del libro rifiutato da Einaudi nel 1946, si spiega che il volume, scritto a caldo da un giovane dottorino torinese, all’epoca ventottenne, non è stato redatto «allo scopo di formulare nuovi capi d’accusa», quanto piuttosto per fornire ulteriori «documenti» a quello studio. L’aggettivo «pacato» è essenziale, così come la parola con cui Primo Levi apre il libro stesso, «fortuna»: «Per mia fortuna».
Dunque, una delle più importanti, se non la più importante, opera testimoniale sui campi di sterminio nazisti non è solo un racconto veritiero dei fatti; è anche, e soprattutto, un documento-referto di tipo antropologico, e persino etologico, dal momento che nel suo capitolo-cuore, «I sommersi e i salvati» - lo stesso titolo dell’ultimo fondamentale testo di Levi, il suo più importante, pubblicato un anno prima della scomparsa - si parla espressamente dell’«animale uomo», e del Lager come di una «gigantesca esperienza biologica e sociale». Il lettore che apre il volume De Silva nel 1947, o che lo apre ora, dopo 63 anni, dopo che Levi stesso l’ha integrato con numerose altre pagine nell’edizione del 1958, ora da Einaudi, ristampata sempre identica, potrebbe pensare che si tratti dell’opera di un uomo pacato, tranquillo, sereno, che ha messo a distanza la propria terribile esperienza dello sterminio - degli ebrei, dei soldati russi, delle donne ucraine, degli omosessuali, dei partigiani, dei prigionieri politici.
E invece, girando pagina, c’è subito quella poesia, da cui, scorciato, viene il titolo stesso del libro: «Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case ...». Gli ultimi tre versi contengono un’invettiva, meglio: una maledizione. Pronunciata con tono biblico, la poesia condanna coloro che non scolpiranno le parole dell’autore nel loro cuore, che non le ripeteranno ai propri figli. Proprio su loro cali la maledizione: «O vi si sfaccia la casa / La malattia vi impedisca / I vostri nati torcano il viso da voi».
Sono parole durissime che Levi pronuncia sulla soglia del volume e che sembrano contraddire la pacatezza di quell’inizio. In effetti, come ha notato Mario Barenghi, c’è in Levi una contraddizione fortissima, una sorta di doppia tensione che percorre Se questo un uomo, come il resto della sua intera opera testimoniale e letteraria: la pacatezza e la durezza. Sono due poli della sua stessa personalità di scrittore. Una tensione che arriva a punti molto forti, sia qui nella prima prova, sia nell’ultima, la sua più alta: I sommersi e i salvati (1986). Una contraddizione che ci permette di entrare con un doppio sguardo nel libro, che è uno dei capolavori della stessa lingua italiana, un’opera insieme etica ed etologica, un documento altissimo di un uomo che possedeva lo sguardo leggero dell’osservatore e insieme la tempra durissima del profeta biblico, pur non volendo esserlo in alcun modo. Un’opera capace di penetrare come una percolazione progressiva e inarrestabile sia nelle nostre emozioni sia nella nostra intelligenza: giudica aiutandoci a capire. " (da Marco Belpoliti, La contraddizione di Primo Levi, "La Stampa", 26/01/'10)

lunedì 25 gennaio 2010

Shoah: l'infanzia rubata

SHOAH: L'INFANZIA RUBATA
dal 22 al 30 GENNAIO 2010
presso BIBLIOTECA DI GARLASCO Sala mostre - Via SS. Trinità 6 – Garlasco

Orario di apertura: LUNEDI’ / MERCOLEDI’ / VENERDI’ h. 15,00 – 18,00, MARTEDI’ / SABATO h. 9,00 – 12,00

MOSTRA realizzata da Associazione Figli della Shoah con il contributo di Fondo Internazionale di Assistenza alle Vittime del Nazismo, Legge 249/2000 e Conference on Jewish Material Claims Against Germany


La mostra ripercorre idealmente la negazione dei diritti fondamentali dei bambini ebrei durante gli anni della persecuzione nazifascista. Le piccole vittime innocenti della Shoah furono un milione e mezzo. Attraverso la negazione dei diritti fondamentali dell’infanzia, quali il diritto al gioco, alla dignità, alla salute, all’identità, all’istruzione, alla libertà, alla tutela e, per ultimo, alla vita, la mostra mette in evidenza le dure condizioni e le terribili costrizioni alle quali erano sottoposti i bambini e i ragazzi di religione ebraica durante quegli anni. Si contrappone a tale orrore la grande figura del pedagogo polacco Janusz Korczak, ispiratore dell’attuale Convenzione Internazionale dei Diritti dei Bambini, che lottò fino all’ultimo per alleviare le sofferenze dei bambini del suo orfanotrofio, situato nel Ghetto di Varsavia. Diversi pannelli della mostra sono corredati da estratti delle sue pubblicazioni e ripercorrono le fasi del suo impegno morale e pedagogico.

sabato 23 gennaio 2010

Primo Levi salvato dall'alluvione


"Se questo è un uomo. Un libro memorabile quello di Primo Levi, «nato fin dai giorni di lager per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi», della terribile esperienza sofferta dall'autore ad Auschwitz. Scritto tra il dicembre del '45 e il gennaio del '47, alcuni capitoli vennero pubblicati in pre-edizione, tra marzo e maggio, sul settimanale della Federazione Comunista Vercellese L'Amico del Popolo.
Natalia Ginzburg, che non ne intuì l'importanza, non lo fece pubblicare da Einaudi, così che fu la piccola casa editrice De Silva (Francesco Silva era un editore- stampatore del '400) di Torino, fondata e diretta da Antonicelli, ad avere l'onore di stamparlo nell'ottobre del '47 in 2500 esemplari impressi dalla Stamperia Artistica Nazionale (n. 3 delle collana «Biblioteca Leone Ginzburg»). Il libro passò inosservato tanto che 1100 copie invendute furono depositate nel magazzino de La Nuova Italia di Firenze; finirono nel fango nell'alluvione del '66.
L'opera non fece rumore alla sua uscita, ma ebbe, invece, grande eco internazionale pochi anni dopo, con l'edizione Einaudi del '58, quando il libro cominciò a essere riconosciuto come una delle massime testimonianze letterarie su Auschwitz. Ma è la prima edizione che emoziona tenere in mano, anche a causa della sua fragilità. Spesso il libro si trova privo della sovraccoperta bianca (ma attenzione che non sia sostituita da una fotocopia, come a volte è accaduto), con titolo e autore in rosso e il disegno di Carlo Levi di un uomo prono a terra. Elemento capitale dell'edizione, la sovraccoperta merita la non indifferente spesa da sostenere in più rispetto a una copia che ne è priva. Il libro, raro, non è comunque introvabile; l'antiquario ne stabilisce il prezzo in base alla conservazione e, soprattutto, alla completezza. La libreria irlandese Old Head Books & Collections lo propone all'esorbitante cifra di 5.250 euro, un prezzo che può far sembrare un affare le copie proposte da 1.400 ai 2.000 euro, dalla Libreria Pontremoli di Milano e dalla Galleria Gilibert di Torino". (da Santo Alligo, Primo Levi salvato dall'alluvione, "TuttoLibri", "La Stampa", 23/01/'10)

Sei milioni di accusatori


"La memoria non è sempre stataun imperativo categorico. Ricordare non ha sempre rappresentato un esercizio civile, anzi morale. Fino ai primi Anni Sessanta - cioè mezzo secolo fa - quel passato prossimo che si chiamava Shoah abitava dentro silenzi carichi, sguardi muti, volti che si giravano dall’altra parte. Fino a quel tempo, in Israele la Shoah prendeva voce «soltanto» negli incubi notturni di cui il paese aveva (e forse ha ancora) il triste primato. Il comando di tacere, rimuovere, provare (invano, ovviamente) a dimenticare era una necessità di sopravvivenza, sembrava l’unico modo per tornare all’esistenza e garantirla ai propri figli. I morti, la sofferenza patita, il dramma di una tragedia inenarrabile, dovevano occupare meno spazio possibile. Sia perché tutto pesava troppo, sia anche per quella vergogna a un tempo di vittime e di sopravvissuti: l’umiliazione di aver subito e quella di essere stati più «fortunati» di quegli altri, di quei sei milioni.
Oggi questa consegna del silenzio pare impossibile, eppure fino a che Adolf Eichmann non ricomparve sulla scena del mondo, dopo quindici anni di beata clandestinità in Argentina, la Shoah era stata in Israele soprattutto un abisso muto e i bambini non avevano idea di che cosa significasse quel numero blu tatuato sul braccio di tanti genitori. Poi i servizi segreti lo rintracciarono e lo presero. All’inizio di aprile Adolf Eichmann fu trasportato nella «Casa del Popolo» di Gerusalemme, di notte, dentro un’autoambulanza a sirene spente. L’11 di quel mese il processo iniziò. Si concluse a metà dicembre. Il 30 maggio del 1962 Eichmann venne giustiziato. In quei mesi, Israele e il mondo intero «scoprirono» la Shoah: la storia prese a gridare nelle voci dei testimoni, nei numeri scanditi, nel volto impassibile di quell’ometto diabolico.
Il processo Eichmann fu una terribile rivoluzione della memoria. Fu un processo pubblico, perché non solo Israele, il mondo intero ebbe a sentire, via radio, molte udienze e deposizioni. Fu lo spartiacque nel nostro misurarci con quella storia. Se fino ad allora sembrava avverata l’incubotica profezia che i nazisti gridavano a Primo Levi - «Prova a sopravvivere! Vedrai che nessuno crederà a quello che hai da raccontare!» - il processo sbatté la verità in faccia a tutti. A quel paese di sopravvissuti che era allora Israele spiegò che il silenzio era forse più insopportabile dei ricordi. Maè bene precisare che il processo Eichmann non ebbe in sé nulla di simbolico. Rappresentò un momento storico fondamentale del nostro comune dopoguerra, e fu qualcosa di autentico di per sé. Ineccepibile dal punto di vista giuridico, come spiega Alessandro Galante Garrone nel saggio apposto all'edizione italiana della relazione introduttiva tenuta dal procuratore generale Gideon Hausner.
Il testo uscì in italiano il 15 dicembre del 1961, a pochi mesi dall’esecuzione
di Eichmann, sotto il titolo Sei milioni di accusatori: ora viene opportunamente ripubblicato da Einaudi, con un’introduzione di Simon Levis Sullam. In quei mesi, dentro quell’aula, si affrontano questioni storiche e giuridiche fondamentali. L’avvocato di Eichmann, Servatius, cercò di delegittimare il luogo e la corte: come spiega mirabilmente Galante Garrone, tutto si smonta di fronte all’evidenza che Eichmann aveva sterminato gli ebrei in quanto popolo, e non come tedeschi, polacchi, italiani, greci. Quel popolo ora aveva un posto, uno stato, dov’era giusto che quell’uomo venisse processato. Inoltre, come (non certo «se») condannare per un omicidio ripetuto sei milioni di volte un Eichmann che non si era mai sporcato le mani di sangue? Di fronte a un crimine di quelle proporzioni, qualunque pena risultava inadeguata: l’istanza di giustizia non poteva restituire nulla, né alle vittimené ai sopravvissuti.
Questo libro, storia e testimonianza a un tempo, è un’opera fondamentale - e lo è forse più che mai oggi, a cinquant’anni di distanza - nel nostro rapportarci alla Shoah, nel misurarci con quel passato e la nostra labile memoria. Hausner detta qui la prima storia della Shoah,una cronaca tanto misurata quanto precisa nei dettagli, che racconta come funzionava il meccanismo dello sterminio, come si espanse in tutta l’Europa occupata dai tedeschi. Il responsabile di questa immensa macchina da distruzione era lui: quell’ometto squallido che restava sempre impassibile dentro la sua gabbia, di fronte alle accuse, ai testimoni, allo strazio tangibile.
Se le ore, i giorni, i mesi trascorsi in quel luogo ispirarono ad Hanna Arendt il principio della banalità che il male porta in sé - in altre parole, Eichmann non è diverso da tutti noi - tanto in questa introduzione quanto nella requisitoria finale, Hausner pone l’accento su quel principio di responsabilità che rimbombava ogni volta che Eichmann ripeteva - con la voce e con il silenzio - il suo ritornello: «Mi sono limitato ad eseguire gli ordini»: «E’ lecito supporre che, se per caso la bandiera con la svastica sventolasse di nuovo, salutata da frenetici “Heil”, se di nuovo si sentissero le grida isteriche del Führer, se il filo spinato segnasse ancora il recinto dei campi di sterminio, noi rivedremmo quest’uomo sull’attenti, pronto a riprendere il suo triste mestiere di boia»." (da Elena Loewenthal, Allora il mondo scoprì la Shoah, "TuttoLibri", "La Stampa", 23/01/'10)

venerdì 22 gennaio 2010

La strada di Levi


"Soltanto scrittori stranieri hanno affrontato la prova di una biografia di Primo Levi, in particolare l’inglese Ian Thomson con un volume del 2002 non tradotto in italiano, ricostruzione straordinaria per l’acume delle ricerche, e Carol Angier, che vive a Oxford, con Il doppio legame, tradotto nel 2004 (Mondadori), lettura dell’autore di Se questo è un uomo in chiave psicoanalitica. Probabilmente in Italia i tempi non sono ancora maturi, per cui si privilegiano o la biografia di Levi attraverso i libri e gli articoli che ci ha lasciati, come l’Introduzione di Cesare Cases alla prima edizione einaudiana delle Opere (1987) in cui il critico rivaleggia con l’amico, oppure l’avvicinamento tra approcci laterali com’è lo stile di Marco Belpoliti, curatore della seconda edizione delle Opere (1998) e considerato oggi il miglior conoscitore di Levi.
Proprio Belpoliti e l’italianista Andrea Cortellessa dell’Università di Roma sono gli autori di un prezioso volumetto che vede la luce da Chiarelettere, Da una tregua all’altra, Auschwitz-Torino 60 anni dopo, e che sarà presentato domani a Torino, ore 17, alla libreria Coop di piazza Castello (con gli autori, il vicedirettore della Stampa Cesare Martinetti). Un testo che raccoglie materiali singolari tutti editi ma spesso introvabili.
Il cuore del libro sono cinque testi di Belpoliti apparsi in varie miscellanee o frutto di relazioni a convegni che mettono a nudo i nodi delle esperienze di Primo Levi come testimone e come scrittore. Innanzitutto il tema del «zona grigia», cioè dell’informe bacino di responsabilità e coscienze che sta a metà strada tra le vittime e i persecutori, idea poi ripresa negli studi su fascismo e antifascismo. Altri due temi forti scandagliati da Belpoliti sono la ritrosia o il pudore di Levi nel definirsi scrittore, e poi il posto occupato dai sogni e dagli incubi, dalla vita onirica nei suoi scritti.
La ragione del libro è invece un viaggio che Belpoliti ha fatto per La Stampa nei luoghi della Tregua, l’opera del 1963 vincitrice del Campiello, che impose Levi non solo come icona ebrea della Shoah ma anche come scrittore, narratore limpido e fantastico creatore di tipi picareschi e novellatore di memorie classiche. Viaggio fatto con il regista Davide Ferrario che ne ha tratto il film La strada di Levi venduto in dvd insieme al libro, un film di storia perché si vede il confronto tra immagini opposte del Grande Est e del socialismo reale: quelle dell’accidentato ritorno a casa di Levi e quelle del cammino di Belpoliti e Ferrario sulle sue tracce.
Fondamentali all’inizio del libro due deposizioni giurate rese da Primo Levi nel 1960 e nel 1971, fatte conoscere da Belpoliti attraverso le pagine dell’Espresso e della Stampa. Documenti importanti perché toccano questioni capitali come il valore della prova nei processi contro gli aguzzini dei Lager e perché affrontano un punto complesso e ambiguo nella persecuzione degli ebrei italiani, il campo di concentramento di Fossoli da cui il 22 febbraio 1944 partì il treno che portò Primo a Auschwitz. Quel treno spaccava in due una vita, tagliava un confine tragico nella storia, era l’ultima fuga dall’umanità. In un’intervista raccolta nel libro Levi confessa l’effetto violento che gli faceva la semplice visita di un treno merci." (da Alberto Papuzzi, La strada di Primo Levi
tra i sogni e gli incubi
, "La Stampa", 22/01/'10)

martedì 19 gennaio 2010

Il reato di scrivere di Juan Rodolfo Wilcock


"Solitario e seducente. Disincantato e ammaliante. Appassionato e snob. Un’armonia degli opposti fa l’appeal del poeta italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock, che nacque nel 1919 a Buenos Aires e morì nel 1978 a Landriano (Viterbo) dove visse da cittadino elettivo del Belpaese e figlio adottivo della lingua italiana. Gli avrà fatto gioco, nel comporre in amalgama tanta eterogeneità, la varietà delle esperienze da cui proveniva: la formazione giovanile da ingegnere che in madrepatria sovrintese alle ferrovie transandine; la vocazione precoce di traduttore che, nella madrelingua spagnola, riscrisse le opere di Marlowe, Aubrey, Joyce; la vicinanza della «luminosa trinità», Borges, Bioy Casares e Silvina Ocampo, dai quali aveva imparato l’ozio pensoso, l’intelligenza attiva, la stranezza dell’universo.
Accompagnato da quei tre numi tutelari approdò in Italia nel 1951, e si persuase poi a restarvi: sedotto dalla lingua di Dante che aveva scelto come proprio idioma e riconosciuto come codice della poesia tout-court. Oltre all’amore per il verso, furono la curiosità per le scienze e la passione per la filosofia di Wittgenstein, coltivati come antidoti alle certezze della ragione, a formare la sua «eccentrica saggezza», il suo «sottofondo di felicità» - scrisse il suo editore Roberto Calasso - e a consolidare il suo spirito critico e il suo temperamento ruvido, scostante, charmant.
Era «sprezzante» per talento di «sprezzatura», la virtù inventata da Baldassar Castiglione e celebrata da Cristina Campo, dice di lui Edoardo Camurri curatore degli scritti che Wilcock pubblicò sulla stampa italiana negli anni 60 e 70, raccolti nel libricino Adelphi Il reato di scrivere (da domani in libreria) di cui in questa pagina anticipiamo un brano.
Su quotidiani e periodici - Il Mondo di Pannunzio, Tempo presente di Chiaromonte, La voce repubblicana - Wilcock scrisse di caste intellettuali, conventicole accademiche, scuderie editoriali. Delle «confraternite» dei letterati, del «racket dei premi letterari»: così definiti, più che con risentita intenzione di denuncia, con l’innocenza stralunata di chi nota la nudità dei potenti. Scriveva dell’onestà scoraggiata nei giovani artisti e delle prevaricazioni esercitate dai loro (re)censori. Della tirannia della cultura al potere e del suo asservimento alle «aspirazioni più bestiali» dei sudditi. Delle mistificazioni dei letterati, dell’arrivismo degli scrittori. E poi del perbenismo culturale, della smania distruttiva di stroncare, di egotismo permaloso spacciato per originalità e di valutazioni omertose distribuite con l’etichetta del «buon gusto». Per risollevare lo spirito e alzare lo sguardo scriveva del «suo» Dante. Ovvero di poesia: della quale Wilcock - «poeta di cultura europea», disse di sé, e autore, oltre che di giornalistici pezzi di bravura, di varie raccolte di versi - proclamò l’esaurimento e la morte. Salvo annunciarne la rinascita nelle forme e nei ritmi della prosa italiana.
I promotori di un’inchiesta mi hanno domandato: «Che cosa significa per Lei, oggi, Dante?». Poiché Dante fu il poeta massimo della letteratura europea, per me è come se mi domandassero: «Che cosa significa per Lei, oggi, la poesia?». Ciò non mi provoca il fastidio che mi provocano certe inchieste, da critici-portinai, come per esempio: «1. Che pensa Lei del romanzo sovietico contemporaneo? 2. Che pensa Lei del nouveau roman?». E così via. Perché il romanzo sovietico contemporaneo e il nouveau roman mi riguardano quanto la temperatura minima dell’altro ieri a Manila; invece la domanda su Dante, cioè sulla poesia, non solo mi riguarda, ma mi coinvolge.
Allo stesso modo coinvolge migliaia di persone che scrivono o hanno scritto poesie, che si occupano o si sono occupate di poesia. Non è una domanda locale, italiana: è una domanda intorno a una grande cosa finita, compiuta, senza seguito: la poesia in Europa, nelle due Americhe e in tutte quelle parti del mondo che si servono delle lingue europee. Non si tratta di Leopardi o di Torquato Tasso, si tratta del miglior poeta che ebbero le nostre lingue. Ossia il più grosso produttore di un prodotto che non si produce più. La domanda interessa quasi tutti noi, perché fino a poco tempo fa quasi tutti noi partecipavamo, sia pure come consumatori, a questa produzione, o al suo simulacro, e l’abbiamo vista scomparire sotto i nostri occhi. Scomparire come mestiere per diventare vizio. [...] Il mestiere consisteva nello scrivere «Dolce color d’oriental zaffiro» e consegnare al linguaggio quest’alba nuova e memorabile; il vizio sta nello scrivere di nuovo «Dolce color d’oriental zaffiro» e infilarcelo nel taschino, o legarlo alla coda del gatto; perché, dove altro possiamo metterlo? Dante si serviva della poesia per attestare la sua convinzione, gloriosa ma scaduta, che non siamo nati per vivere come bruti. Scaduta, dico: adesso sappiamo, o sospettiamo, di essere nati per vivere come bruti. [...]
Vorrei però che tutto questo fosse un’ipotesi sbagliata (non si può essere pessimisti e desiderare inoltre di aver ragione). Ho parlato finora a nome dei letterati; ho considerato l’insieme enorme di prodotti poetici di questo ciclo concluso e l’impossibilità, per loro, di aggiungerci qualcosa: non perché non lo sappiano fare, bensì per la mancanza sia di movente che di scopo nel farlo. [...]
Credo che «quell’insieme enorme di prodotti poetici» sta a condizionare ancora le nostre possibilità di espressione, ossia di pensiero, e che ciò non sia sempre un bene. Quante volte non vediamo la realtà attraverso un verso che, pur esprimendo un pensiero questionabile, riesce magicamente a presentarsi come pensiero delicato. I più ovvi, anche se i più rozzi esempi, sono i proverbi in versi, feccia dell’insipienza, eppure magicamente accettati: «Moglie e buoi [...] dei paesi tuoi», «Tra moglie e marito [...] non mettere il dito», o peggio ancora: «Al contadino non far sapere [...] quant’è buono il cacio con le pere».
Sul piano più dignitoso possibile, lo stesso vale purtroppo per la Divina Commedia. Fin dall’inizio: «Nel mezzo del cammin di nostra vita»; e subito tutti a supporre che la vita sia un cammino, senza alcun motivo. E una volta storta la mente in quella direzione, e con tanta forza - con tanta forza, soprattutto -, nessuno la raddrizza più. Un altro grande poeta scrive che «la vita è sogno», dunque bisogna credere che la vita sia un cammino e un sogno contemporaneamente; è strano che ciò non comporti per noi alcuna difficoltà. «Quell’insieme enorme di prodotti poetici» è un gran dono e un gran pericolo. [...]
Il pericolo peggiore (ma perché pericolo? Semplicemente prospettiva) è questo: che una miliardaria proliferazione di esseri umani, come dice Morante: «soprannumerari conciati, televisati e lustrati per la bomba atomica», estenda il nominalismo delle ideologie puerili a oggetti sempre più complessi, fino a mummificarli e convertirli in puri nomi, semmai connessi a piccoli riti: «San Marco», un posto dove si entra e dopo un quarto d’ora si esce; «Golfo di Napoli», golfo bello da guardare; «Debussy», musica che faceva la borghesia mentre decadeva; «Cechov», attività dei teatri sovvenzionati; «Shakespeare», varietà di dialoghi e vestiti del Seicento con delitti; «Picasso», disegni storti per appartamenti; «Tiziano», quadri per musei; «Leonardo», «Michelangelo» e «Raffaello», navi e geni; «Dante», poeta nazionale. E una volta svuotati di ogni senso, al contrario del Geova ebraico, di loro non sia permesso dire o sapere altro che il nome." (da Alessandra Iadicicco, Wilcock, se scrivere è un reato, "La Stampa", 12/01/'10)

sabato 16 gennaio 2010

«Tutti parliamo allo stesso modo». L'italiano perde efficacia e vivacità


"«Diciamo parolacce che non offendono più», e «non siamo più capaci di senso tragico». Riflessioni diverse, quelle suscitate tra scrittori e linguisti dall’articolo di Cesare Segre pubblicato ieri dal "Corriere della Sera", sul degrado della lingua e la sua volgarità. Segre ricordava il disuso dei registri diversi, dall’alto al basso, dall’aulico al colloquiale, nel linguaggio giovanile, e in quello televisivo, a partire da una classe politica che «tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso»; per arrivare a chi dà del tu agli immigrati e a chi fa del turpiloquio «indifferenziato» un’abitudine. Commenta il professor Pietro Trifone, ordinario di linguistica all’Università di Tor Vergata: «Ha ragione Segre quando dice che è importante l’appropriatezza d’uso di registri diversi. Anche i registri bassi possono essere utilizzati in certi ambiti: per esempio, se nel corso di una lezione io dico "vi state abbioccando" invece che "addormentando", lo faccio perché proprio il cambio di registro può essere efficace. Il fatto che la nostra lingua degradi è spiegabile: si tratta di un patrimonio comune, ma il confronto con il passato ci dice che c’è stato un progresso rispetto a 30-40 anni fa, quando usavamo molto di più il dialetto, o rispetto al periodo postunitario, quando era circa il 10 per cento della popolazione a usare l’italiano; mentre ora che tutti lo parlano (fondandosi peraltro sul modello televisivo) qualche colpo all’eleganza è spiegabile.
D’accordo anche sul fatto che il turpiloquio, diffondendosi ovunque, toglie vivacità alla lingua e perde efficacia. Anche Dante ha scritto parolacce, ha chiamato l’Italia "bordello", ma è stato il primo a usare questa parola. Pesava». «Non butterei tutta la responsabilità sui giovani — precisa Silvia Ballestra — perché il turpiloquio non è più appannaggio dei giovani. Però è vero: la parolaccia è brutta da sentire ma se diventa un intercalare comune si depotenzia. E quando poi vogliamo usare una parolaccia vera, che facciamo? È una zona di eversione del linguaggio che dovrebbe continuare a esistere — mentre i giovanilismi sono come i brufoli, poi passano: la lingua è in movimento, è un organismo vivo che si evolve». Si evolve, anche nel dialetto, sostiene Vitaliano Trevisan: «Per quanto riguarda il dialetto: è vero che nel registro alto perde qualcosa» — Segre ricordava che «i dialettalismi, che insaporiscono la lingua, sono inopportuni ai livelli alti» — «mentre se è vivo, come dalle mie parti, è molto vivo in basso, e ha intatte le sue caratteristiche di inventiva. Anche sul contemporaneo, che è in grado di tradurre per immagini in modo efficace. Sono d’accordo con Segre su un’altra questione: negli uffici pubblici, per la strada, tra la gente comune, c’è questo dare del tu agli immigrati, che è molto fastidioso, non mi piace». Su questo, Ballestra aggiunge: «Segre ha scelto un esempio particolare, perché la parola "vu cumprà" è proprio brutta. E il lei al posto del tu è difficile sia da usare sia da capire. Ci sono lingue, come l’inglese e lo svedese, dove la seconda persona plurale assolve questa funzione». A proposito del 'tu', Tommaso Pincio fa notare un altro 'tu' indifferenziato: «In tv i politici sono soliti darsi del tu, poco il lei e solo per sottolineare la volontà di non scendere a patti, non per rispetto ma per disprezzo, con effetti devastanti».
E racconta un episodio: «Partecipavo a una trasmissione letteraria alla radio, Fahrenheit, in cui ci si dà del lei per statuto, proprio per senso di rispetto. A un certo punto l’intervistatrice mi ha dato inavvertitamente del tu. Subito gli ascoltatori hanno mandato sms che dicevano "non perdete le buona consuetudine di darvi del lei"». Un elemento, l’attenzione alla lingua, ai registri, che Trifone sottolinea: «La forte sensibilità intorno a questi temi è un bel sintomo, è sensibilità per un valore importante, la lingua italiana». E suggerisce su quali aspetti puntare: «Sulla scuola. Che è però anche la grande accusata (così poi diventa sempre più povera, riceve sempre meno finanziamenti). Ma è qui che si può avere un contatto con i livelli alti della lingua. Poi l’università. E i media: i giornali e la televisione, perché non è possibile ridurre tutto a rissa, a slogan. Su Internet direi che ci sono blog vivaci e molto ricchi linguisticamente, altri di segno opposto». Giulio Mozzi obietta invece: «Se Segre dice che c’è un’evoluzione nella lingua italiana, avrà certo le basi scientifiche per dirlo. Ma decidere che questa evoluzione è inopportuna, questa è un’opinione». Mentre secondo Antonio Scurati «una sorta di compulsione bassomimetica è la manifestazione più evidente del clima di basso impero in cui viviamo».
E continua: «Quella che al tempo di Pasolini era una scelta stilistica tra le altre, ora è una sorta di impossibilità di scelta, un unico orizzonte angusto. Anche in campo letterario, dove la lingua dovrebbe esprimersi al suo massimo, e dove invece abbiamo il predominio di una mimesi coatta del parlato. I registri alti sono sempre più penalizzati anche da una certa ricezione critica». Rincara la dose Pincio: «Il problema non è della lingua, è altrove. Un impoverimento etico e morale, di un Paese che non progetta più il proprio futuro, e che va subito al "sodo", nel senso del prevalere della quantità sulla qualità, del "sodo" a scapito della forma, che considera una scocciatura. Invece il rituale è anche una forma di rispetto ». «In questa restrizione — afferma Scurati — c’è una perdita secca di interi campi di possibilità umane. Non siamo più capaci di tragico, impedito dallo scomparire dei registri alti, sostituito dall’osceno, suo esatto opposto. L’umano si restringe, le nostre risate ci seppelliscono continuamente»." (da Ida Bozzi, «Tutti parliamo allo stesso modo». L'italiano perde efficacia e vivacità, "Corriere della Sera", 14/01/'10)

venerdì 15 gennaio 2010

La Rete alla prova della rivoluzione


"Lo scorso anno si è celebrato il ventesimo anniversario delle rivoluzioni che nell'Europa dell'Est fecero piazza pulita dei governi comunisti. Il 2009 è stato anche l'anno in cui centinaia di migliaia di iraniani sono scesi in strada per manifestare contro un'elezione presidenziale molto contestabile. La grande differenza tra queste due forme di protesta è stata il modo col quale sono circolati articoli e immagini. Nel 1989 le notizie viaggiarono per telefono, fax, telefax e radio a onde corte; nel 2009 informazioni e immagini sono arrivate in tempo reale, via cellulare e Internet. Discutiamo di questi sviluppi con Timothy Garton Ash, professore di Storia a Oxford, che ha assistito di persona a molte rivoluzioni del 1989 - il suo libro The Magic Lantern è considerato il miglior resoconto degli avvenimenti di quel periodo - ed Evan Williams, il creatore di Blogger e Twitter, del quale è presidente. Twitter, un servizio di social network che limita i messaggi a 140 caratteri, è stato molto usato durante le proteste in Iran.
Le nuove forme di comunicazione hanno mutato la natura delle rivoluzioni? Hanno reso più facile sfidare le autorità?
Garton Ash: «Penso che ne abbiano il potenziale, ma non vi è nulla di automatico. Ricordo di aver letto un articolo, una ventina di anni fa, intitolato più o meno "il fax vi renderà liberi". Il fax non può rendere libero nessuno, nessuna tecnologia di per sè può liberare qualcuno. È vero che le comunicazioni nel 1989 erano primitive rispetto agli standard odierni: non esisteva la posta elettronica, non c'erano telefoni cellulari, laptop, Internet, Facebook, YouTube e Twitter! Si comunicava soltanto con le macchine da scrivere, con le stazioni radio a onde corte come Radio Free Europe o Bbc, e grazie alla televisione, il mezzo di informazione allora più efficace. È risaputo che la notizia data dalla tv la sera del 9 novembre poco dopo le 22.30, quando il conduttore del telegiornale della Germania Ovest disse che i cancelli del Muro di Berlino erano aperti (il che non era vero), contribuì a far accadere proprio questo, perché una folla enorme di persone credette che la notizia fosse vera e si precipitò al muro. In molti Paesi la vera battaglia consistette nel far sì che la televisione di Stato riportasse ciò che stava realmente accadendo. Durante la Rivoluzione di Velluto di Praga mi trovavo in piazza San Venceslao. La gente gridava: «Vogliamo la diretta! Vogliamo la diretta!». Uno dei capi del partito comunista polacco disse al capo di Solidarnosc: «Senti, preferiamo consegnarvi la polizia antisommossa che la televisione di Stato».
Evan, durante i fatti in Iran deve essere stato entusiasmante vedere che qualcosa che aveva inventato era così utile ...
Williams: «Proprio così. Il nostro primo pensiero è andato con ammirazione e rispetto a coloro che in molti casi rischiavano la loro vita per mandare messaggi. Al tempo stesso la nostra maggiore preoccupazione è stata assicurarci che il servizio funzionasse al meglio e far sì da poterlo rendere ancora migliore. Constatare il potenziale di qualcosa che abbiamo creato ci esorta a escogitare nuovi modi per diffonderlo ancor più e per renderlo più facile nell'utilizzo. Non posso certo dire che avessimo in mente una rivoluzione quando abbiamo creato Twitter, ma ci rendemmo subito conto che rendeva più coraggiosi gli utenti, perché potevano vedere ciò che gli altri pensavano e constatare se gli altri erano d'accordo con quello che facevano. Io considero le nuove tecnologie un continuum che porterà a realizzare il pieno potenziale di Internet, lo stesso potenziale di cui la gente parlava nei primi tempi, ovvero la democratizzazione dell'informazione. Dieci anni fa ho dato vita anche a Blogger che è stata una delle prime e più popolari piattaforme di blogging. Neanche in quel caso potevo immaginare che potesse diventare qualcosa di utile e importante. Era solo un modo per consentire uno scambio agevole dei propri pensieri. So da chi vive sotto un regime oppressivo che i blog sono stati rivoluzionari, e hanno offerto loro per la prima volta un modo per esprimersi liberamente».
Garton Ash: «Secondo me il loro potenziale è immenso. Si pensi a quello che è accaduto in Birmania nel 2007, quando la gente è riuscita a diffondere le immagini delle dimostrazioni e delle cariche della polizia scattate con il cellulare, o a quello che è stato possibile in Iran grazie a Twitter, o Facebook o YouTube. Queste tecnologie di per sè non cambiano l'essenza di una rivoluzione, che per aver luogo necessita della forza di volontà concentrata di moltissime persone in un dato posto, persone che hanno il coraggio di scendere in piazza a protestare. Di per sè, però, le tecnologie non hanno la possibilità di liberare nessuno. Credo che rendano molto più difficile per i dittatori tenere i popoli tagliati fuori dal mondo e continuare a opprimerli. Noi dovremmo dare una mano perché tale liberazione abbia effettivamente luogo. Chi mette a punto queste tecnologie dovrebbe spiegare meglio come rendere questi servizi accessibili nei Paesi nei quali non c'è libertà».
Williams: «Siamo molto scettici quando si parla di "alimentare" le rivoluzioni. Non è così che la pensiamo. Tutto sta nel dare alle persone più potere per fare quello che intendono fare. Crediamo fortemente in questo. Certo, la nostra speranza è che la gente possa fare questo ovunque, senza ingerenze e interferenze. A mano a mano che Internet imparerà ad aggirare gli ostacoli, ci saranno sempre più accessi alla Rete. Se non riuscirai ad accedervi tramite una connessione telefonica, ci riuscirai con una connessione wireless, e sarà molto più difficile da fermare. Una volta che tutti saranno in grado di parlare con tutti, che l'informazione circolerà molto rapidamente, la gente inevitabilmente finirà con l'avere la meglio sui regimi dispotici».
Garton Ash: «Io non parlerei di "alimentare" una rivoluzione. Noi possiamo metterli in grado di farla, ma soltanto i popoli devono decidere quando mettere a repentaglio la propria vita. Una mia seconda obiezione riguarda l'efficacia dei nuovi media. L'Istituto Reuters per lo studio del giornalismo all'università di Oxford ha redatto uno studio su internet in Russia. Qui internet è incredibilmente attivo, ma ha un impatto politico prossimo allo zero perché gli organi di informazione mainstream e ogni altro aspetto della vita sono controllati. Tutto ciò è la conferma che qualsiasi mezzo, internet, Twitter o altri ancora, di per sé non può perseguire alcuna finalità di questo tipo. Sono necessari altri mezzi, compresi i mezzi di informazione mainstream. Io credo che una delle premesse basilari dell'ordine internazionale del XXI secolo sia che la gente deve avere accesso liberamente all'informazione. In realtà ci sono stati almeno un paio di casi inquietanti nei quali alcuni fornitori di servizi internet o di telefonia mobile hanno firmato accordi che permettono ai regimi di controllare e tenere costantemente sott'occhio Internet. Non sono solo gli oppressi che possono utilizzare le nuove tecnologie, ma anche gli oppressori, particolarmente se noi le vendiamo a loro».
Evan, Twitter limita i messaggi a 140 caratteri. Non crede che potrebbe impoverire la comunicazione?
Williams: «No. Twitter non si pone come un sostituto di forme più lunghe ed elaborate di comunicazione, come il giornalismo, i reportage o analisi dettagliate. Nel migliore dei casi i vincoli di Twitter accentuano le capacità di scrittura. Essere concisi può essere molto efficace».
Garton Ash: «Io non sono convinto che i tweet impoveriscano il linguaggio, ma che possano arricchirlo. Conosce la vecchia battuta, no? «Perché hai scritto un pezzo da 2000 parole? Perché non ho avuto il tempo di scriverne uno da 500». Penso che vi sia una vera crisi nel modo di fare giornalismo dall'estero. Ciò che i media internazionali stranieri mainstream riferirono all'epoca, fu di importanza cruciale per le Rivoluzioni di Velluto del 1989 e anche per la Rivoluzione delle Rose in Georgia nel 2003 o per la Rivoluzione Arancione in Ucraina nel 2004. Credo che se non si ha quel genere di reportage approfondito e analitico che io e altri abbiamo cercato di scrivere, è molto difficile per la gente comune capire che cosa stia realmente accadendo».
Williams: «Sono d'accordo. Nel migliore dei casi, questi media sono complementari. Twitter può rivelarsi molto utile perché può offrire molti più punti di vista, molte più informazioni sui fatti, riferiti in tempi sempre più rapidi. Un giornalista è quindi in grado di raccoglierli, esaminarli, separando il grano dal loglio. Questo è meraviglioso».
Garton Ash: «Sì, anche se il problema è proprio questo: come separare il grano dal loglio? I nuovi media sono efficientissimi nel diffondere voci solo per "sentito dire"».
Williams: «La gente lo ha sempre detto anche di internet, anche se in realtà non è così difficile distinguere la verità dalle frottole. Io la penso così. Poiché tutti possono parlare e farsi sentire, è normale che su internet circolino molte voci, molti "sentito dire", ma altrettanto rapidamente emergono le fonti attendibili, perché col passare del tempo la reputazione conta, anche su internet, come conta in altri ambiti che non siano Internet. La gente ha imparato: gli utenti che cercano informazioni su internet sono consapevoli che non devono credere a tutto quello che leggono».
Garton Ash: «Non sono poi così ottimista sulla capacità democratica di diffondere il sapere su Internet, né che gli utenti siano davvero in grado di separare il grano dal loglio. Nella maggior parte dei casi la gente su internet si affida a siti attendibili, come quello del New York Times e una mezza decina di altri. In conclusione, io credo che se smantellassimo tutto l'apparato del giornalismo più tradizionale e autorevole, avremmo un problema. E oltretutto avremmo posti dove si fanno circolare di proposito determinate voci, proprio come nel regime iraniano».
Williams: «Sappiamo tutti che non è un buon motivo ritenere vera una notizia soltanto perché proviene da una fonte di spicco o di alto grado. Anche i giornalisti commettono errori e il New York Times ha pubblicato notizie non vere. Lo dico anche perché in molti, moltissimi articoli scritti su di noi, di rado ho trovato una precisione e un'accuratezza del cento per cento nelle notizie riportate. Internet mi consente di porvi rimedio e di correggere queste informazioni. E le persone attente e che si fidano di me potranno ricavarne punti di vista diversi»." (trad. di Anna Bissanti, La Rete alla prova della rivoluzione, "Il Sole 24 Ore", 15/01/'10)

mercoledì 13 gennaio 2010

Cesare Segre: "Così degrada la nostra lingua. L'italiano e i registri violati"


"Ha avuto giusta risonanza il documento diffuso dalle accademie della Crusca e dei Lincei sull’insegnamento della lingua italiana, che i giovani conoscono malissimo. Ma uno dei fatti che denunciano la crisi mi pare la mancanza di selettività riguardo ai cosiddetti registri. Questa parola, che i linguisti moderni hanno tratto dalla terminologia musicale, indica tutte le varietà di una lingua, impiegate a seconda del livello culturale e sociale dell’interlocutore e del tipo di situazione.
Si parla di registro aulico, colto, medio, colloquiale, familiare, popolare, ecc. Sappiamo che ci si esprime diversamente parlando a un re o a uno straccivendolo, in un’assemblea o all’osteria, a un superiore o a un compagno di bisbocce; o anche a un vecchio o a un bambino. Cambia la scelta delle parole: sventurato, sfortunato, scalognato, iellato, sfigato hanno, più o meno, lo stesso significato, ma appartengono a registri diversi. Cambia la sintassi: nel Nord il passato remoto si usa solo nei registri più alti, e l’indicativo tende a sostituire il congiuntivo; gli per «a lei» è condannato, ma usato a livello colloquiale; i dialettalismi, che insaporiscono la lingua, sono inopportuni ai livelli alti. Chi non sa usare i registri crea situazioni d’imbarazzo, e può persino offendere, quasi ricusasse le differenze tra le categorie e le funzioni sociali. Certo, si può far violenza ai registri per polemica o per esibizionismo, ma anche in quel caso occorre conoscerli; non ci si può certo appellare allo stile postmoderno, che ha già portato più equivoci che chiarimenti. I giovani sono quelli che sembrano ignorare di più i registri, e con ciò stesso si mettono in condizione d’inferiorità, perché mostrano di non aver rilevato, nel parlare, che la scelta linguistica denota la loro attitudine a posizionarsi rispetto ai propri simili, e a riconoscere il ruolo o i meriti degli interlocutori.
Il rispetto dei registri è uno di quegli atti di cortesia che rendono più scorrevoli i rapporti umani. L’individuazione dei registri è particolarmente difficile per gli stranieri, che possono anche parlare bene la nostra lingua ma non si accorgono delle stonature prodotte da interferenze tra questi: per esempio usando termini del gergo giovanile in un discorso scientifico. Si dovrebbe dunque essere pazienti quando un «vu cumprà» ci interpella col tu, ma chi gl’insegna la lingua dovrebbe fargli rilevare l’imprecisione, e soprattutto evitare di interpellarlo allo stesso modo, denunciando il proprio senso di superiorità. La nostra classe politica, che in tempi lontani annoverava ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato. È la tentazione, strisciante, del populismo. Naturalmente questo implica il degrado anche delle argomentazioni, perché, ai livelli alti, il linguaggio è molto più ricco e duttile. Le conseguenze sono disastrose: da una parte si finisce per ridurre qualunque dibattito a uno scontro fra slogan contrapposti, dall’altra si favorisce la trasformazione di contrasti d’opinione in alterchi, nei quali le passioni, o i preconcetti, annullano il confronto delle idee.
Non si tiene conto del fatto che la capacità di usare il registro alto (pensiamo ai discorsi, perfetti per strategia argomentativa, dei Kennedy, dei Clinton e degli Obama) è uno degli elementi che contribuiscono alla «maestà», poca o tanta, di un personaggio politico. Il quale, mettendosi invece al livello dell’ascoltatore medio, sarà magari guardato con simpatia, ma perderà qualunque aura: cosa che alla lunga può provocare perdita di autorità. Uno degli elementi costitutivi dei registri più bassi è il turpiloquio. Purtroppo il pessimo costume di abbandonarsi al turpiloquio (a partire dal «me ne frego» fascista) si sta diffondendo ovunque, molto meno disapprovato della diffusione degli anglismi, che se non altro non feriscono il buon gusto. Forse si teme che questa disapprovazione sia considerata bacchettoneria; si dovrebbe invece formulare una condanna esclusivamente estetica. Anche qui, molti giovani si mettono alla testa del peggioramento. Pensiamo all’uso di punteggiare qualunque discorso con invocazioni al fallo maschile, naturalmente nel registro più basso, che inizia con la c. Un marziano giunto tra noi penserebbe che il fallo sia la nostra divinità, tanto ripetutamente viene nominato dai parlanti. Insomma, una vera fallolatria.
Ma la celebrazione del fallo viene poi alternata con quella dell’organo femminile, o con allusioni ad atti sessuali più o meno riprovati, con auguri agli avversari di subire trattamenti sessuali sgradevoli, e così via. È vero che la fantasia ormai scarseggia; ma se qualche utente del registro fallico, riscuotendosi da un uso meccanico delle espressioni, badasse al significato letterale delle parole, si accorgerebbe che il suo orizzonte è ormai dominato da organi sessuali maschili e femminili, da scene di stupro e di sodomia e simili. Un po’ di varietà, per favore! Anche questo malcostume è condiviso da molti nostri politici, vogliosi di celebrare la propria virilità; dovrebbero leggersi o rileggersi Eros e Priapo di Gadda. Non si può reagire col sorriso, quando si rifletta che richiamarsi ai fondamentali della nostra animalità, alla vitalità prepotente e incontrollabile del sesso, ci porta agli antipodi non solo della ragione e degli ideali, ma anche della razionalità e della capacità dialettica che dovrebbero contraddistinguere l’homo sapiens sapiens. E non dimentichiamo che i cosiddetti attributi, se da un lato vengono usati a designare vigore e potenza, dall’altro sono sinonimo di stupidità: una molteplicità di significati che ci porta nell’indifferenziato, là dove la parola non è ancora stata affilata per interpretare il mondo." (da Cesare Segre, Così degrada la nostra lingua. L'italiano e i registri violati, "Corriere della Sera", 13/01/'10)

martedì 12 gennaio 2010

Il reato di scrivere di Juan Rodolfo Wilcock

"Solitario e seducente. Disincantato e ammaliante. Appassionato e snob. Un’armonia degli opposti fa l’appeal del poeta italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock, che nacque nel 1919 a Buenos Aires e morì nel 1978 a Landriano (Viterbo) dove visse da cittadino elettivo del Belpaese e figlio adottivo della lingua italiana. Gli avrà fatto gioco, nel comporre in amalgama tanta eterogeneità, la varietà delle esperienze da cui proveniva: la formazione giovanile da ingegnere che in madrepatria sovrintese alle ferrovie transandine; la vocazione precoce di traduttore che, nella madrelingua spagnola, riscrisse le opere di Marlowe, Aubrey, Joyce; la vicinanza della «luminosa trinità», Borges, Bioy Casares e Silvina Ocampo, dai quali aveva imparato l’ozio pensoso, l’intelligenza attiva, la stranezza dell’universo.
Accompagnato da quei tre numi tutelari approdò in Italia nel 1951, e si persuase poi a restarvi: sedotto dalla lingua di Dante che aveva scelto come proprio idioma e riconosciuto come codice della poesia tout-court. Oltre all’amore per il verso, furono la curiosità per le scienze e la passione per la filosofia di Wittgenstein, coltivati come antidoti alle certezze della ragione, a formare la sua «eccentrica saggezza», il suo «sottofondo di felicità» - scrisse il suo editore Roberto Calasso - e a consolidare il suo spirito critico e il suo temperamento ruvido, scostante, charmant.
Era «sprezzante» per talento di «sprezzatura», la virtù inventata da Baldassar Castiglione e celebrata da Cristina Campo, dice di lui Edoardo Camurri curatore degli scritti che Wilcock pubblicò sulla stampa italiana negli anni 60 e 70, raccolti nel libricino Adelphi Il reato di scrivere (da domani in libreria) di cui in questa pagina anticipiamo un brano.
Su quotidiani e periodici - Il Mondo di Pannunzio, Tempo presente di Chiaromonte, La voce repubblicana - Wilcock scrisse di caste intellettuali, conventicole accademiche, scuderie editoriali. Delle «confraternite» dei letterati, del «racket dei premi letterari»: così definiti, più che con risentita intenzione di denuncia, con l’innocenza stralunata di chi nota la nudità dei potenti. Scriveva dell’onestà scoraggiata nei giovani artisti e delle prevaricazioni esercitate dai loro (re)censori. Della tirannia della cultura al potere e del suo asservimento alle «aspirazioni più bestiali» dei sudditi. Delle mistificazioni dei letterati, dell’arrivismo degli scrittori. E poi del perbenismo culturale, della smania distruttiva di stroncare, di egotismo permaloso spacciato per originalità e di valutazioni omertose distribuite con l’etichetta del «buon gusto». Per risollevare lo spirito e alzare lo sguardo scriveva del «suo» Dante. Ovvero di poesia: della quale Wilcock - «poeta di cultura europea», disse di sé, e autore, oltre che di giornalistici pezzi di bravura, di varie raccolte di versi - proclamò l’esaurimento e la morte. Salvo annunciarne la rinascita nelle forme e nei ritmi della prosa italiana.

I promotori di un’inchiesta mi hanno domandato: «Che cosa significa per Lei, oggi, Dante?». Poiché Dante fu il poeta massimo della letteratura europea, per me è come se mi domandassero: «Che cosa significa per Lei, oggi, la poesia?». Ciò non mi provoca il fastidio che mi provocano certe inchieste, da critici-portinai, come per esempio: «1. Che pensa Lei del romanzo sovietico contemporaneo? 2. Che pensa Lei del nouveau roman?». E così via. Perché il romanzo sovietico contemporaneo e il nouveau roman mi riguardano quanto la temperatura minima dell’altro ieri a Manila; invece la domanda su Dante, cioè sulla poesia, non solo mi riguarda, ma mi coinvolge.
Allo stesso modo coinvolge migliaia di persone che scrivono o hanno scritto poesie, che si occupano o si sono occupate di poesia. Non è una domanda locale, italiana: è una domanda intorno a una grande cosa finita, compiuta, senza seguito: la poesia in Europa, nelle due Americhe e in tutte quelle parti del mondo che si servono delle lingue europee. Non si tratta di Leopardi o di Torquato Tasso, si tratta del miglior poeta che ebbero le nostre lingue. Ossia il più grosso produttore di un prodotto che non si produce più. La domanda interessa quasi tutti noi, perché fino a poco tempo fa quasi tutti noi partecipavamo, sia pure come consumatori, a questa produzione, o al suo simulacro, e l’abbiamo vista scomparire sotto i nostri occhi. Scomparire come mestiere per diventare vizio. [...] Il mestiere consisteva nello scrivere «Dolce color d’oriental zaffiro» e consegnare al linguaggio quest’alba nuova e memorabile; il vizio sta nello scrivere di nuovo «Dolce color d’oriental zaffiro» e infilarcelo nel taschino, o legarlo alla coda del gatto; perché, dove altro possiamo metterlo? Dante si serviva della poesia per attestare la sua convinzione, gloriosa ma scaduta, che non siamo nati per vivere come bruti. Scaduta, dico: adesso sappiamo, o sospettiamo, di essere nati per vivere come bruti. [...]
Vorrei però che tutto questo fosse un’ipotesi sbagliata (non si può essere pessimisti e desiderare inoltre di aver ragione). Ho parlato finora a nome dei letterati; ho considerato l’insieme enorme di prodotti poetici di questo ciclo concluso e l’impossibilità, per loro, di aggiungerci qualcosa: non perché non lo sappiano fare, bensì per la mancanza sia di movente che di scopo nel farlo. [...]
Credo che «quell’insieme enorme di prodotti poetici» sta a condizionare ancora le nostre possibilità di espressione, ossia di pensiero, e che ciò non sia sempre un bene. Quante volte non vediamo la realtà attraverso un verso che, pur esprimendo un pensiero questionabile, riesce magicamente a presentarsi come pensiero delicato. I più ovvi, anche se i più rozzi esempi, sono i proverbi in versi, feccia dell’insipienza, eppure magicamente accettati: «Moglie e buoi [...] dei paesi tuoi», «Tra moglie e marito [...] non mettere il dito», o peggio ancora: «Al contadino non far sapere [...] quant’è buono il cacio con le pere».
Sul piano più dignitoso possibile, lo stesso vale purtroppo per la Divina Commedia. Fin dall’inizio: «Nel mezzo del cammin di nostra vita»; e subito tutti a supporre che la vita sia un cammino, senza alcun motivo. E una volta storta la mente in quella direzione, e con tanta forza - con tanta forza, soprattutto -, nessuno la raddrizza più. Un altro grande poeta scrive che «la vita è sogno», dunque bisogna credere che la vita sia un cammino e un sogno contemporaneamente; è strano che ciò non comporti per noi alcuna difficoltà. «Quell’insieme enorme di prodotti poetici» è un gran dono e un gran pericolo. [...]
Il pericolo peggiore (ma perché pericolo? Semplicemente prospettiva) è questo: che una miliardaria proliferazione di esseri umani, come dice Morante: «soprannumerari conciati, televisati e lustrati per la bomba atomica», estenda il nominalismo delle ideologie puerili a oggetti sempre più complessi, fino a mummificarli e convertirli in puri nomi, semmai connessi a piccoli riti: «San Marco», un posto dove si entra e dopo un quarto d’ora si esce; «Golfo di Napoli», golfo bello da guardare; «Debussy», musica che faceva la borghesia mentre decadeva; «Cechov», attività dei teatri sovvenzionati; «Shakespeare», varietà di dialoghi e vestiti del Seicento con delitti; «Picasso», disegni storti per appartamenti; «Tiziano», quadri per musei; «Leonardo», «Michelangelo» e «Raffaello», navi e geni; «Dante», poeta nazionale. E una volta svuotati di ogni senso, al contrario del Geova ebraico, di loro non sia permesso dire o sapere altro che il nome." (da Alessandra Iadicicco, Wilcock, se scrivere è un reato, "La Stampa", 12/01/'10)

lunedì 11 gennaio 2010

La principessa di ghiaccio di Camilla Lackberg


"Mezzogiorno, il termometro segna - 18°. Il cielo è grigio alluminio. Vento. Gelo. Melanconia. Desiderio di fuga. Profondo nord, un altro mondo. Forse è davvero per questo che gli svedesi scrivono ottimi noir: è il buio, il freddo fuori dalla porta di casa, il leit motiv esistenziale con cui devono combattere per oltre metà dell'anno. Conoscono le brume dell'anima. Camilla Lackberg ci aspetta nella sua villetta bianca immersa nella neve alta mezzo metro un po' fuori città: anche dentro tutto è candido, la cucina, il tavolo da pranzo circondato da una bow-window lattea, il divano e le poltrone su cui stanno sdraiati tre dei cinque biondi bambini di famiglia (due sono suoi, uno in comune con il compagno, padre di altri due ragazzini, gran poliziotto ex campione del reality Survivor cui Camilla chiese di fare il consulente per i suoi gialli). A dispetto dei delitti su cui ricama, Lackberg, 35 anni, ex economista, non è la dark lady che appare nel suo sito, ha un'aria serena e soddisfatta piuttosto, merito dei sei milioni, di copie di libri venduti negli ultimi cinque anni (tre milioni in Svezia dove va già in onda anche una serie tv, 400 mila in Francia dove si girerà un film): una serie fortunata di sette libri, tradotta in 27 Paesi, di cui il 12 gennaio esce in Italia il primo episodio La principessa di ghiaccio, pubblicato dal campione dei thriller scandinavi, Marsilio, scopritore di Stieg Larsson. Definiscono Camilla un'erede dello scomparso Stieg. Ma francamente non è vero. A essere diverse sono innanzitutto le atmosfere: lì un ritmo metropolitano, veloce, un gruppo di intelligenze raffinate a confronto, l'efebica hacker Lisbeth Salander che rompe tutti gli schemi ... qui no, è il contrario, perché la trama si svolge in una piccola località della costa un tempo abitata da pescatori di aringhe e oggi quasi solo turistica, Fjallbacka (Camilla ci ha davvero vissuto fino a 18 anni), un posto dove tutti credono di sapere tutto degli altri e la vita sembra scorrere tranquilla, ma ovviamente non è così: quella pace nasconde torbidi e violenti segreti. [...]
Signora Lackberg, la prima domanda è d'obbligo: perché i gialli svedesi hanno tanto successo? 'Sono vari i fattori, una lunga tradizione di letteratura noir innanzitutto, ma è vero che il clima crea una malinconia intrigante che durante il lungo inverno buio c'è più tempo per pensare, sognare, elucubrare. E poi c'è l'idea della società perfetta, del modello dove tutto funziona che va in pezzi: il crack, le crepe inattese sono elementi interessanti, e i lettori stranieri si sentono in qualche modo incuriositi e sollevati al pensiero che anche gli altri siano infelici. Il thriller è perfetto per un mondo in crisi'.
E' vero che il dato comune ai giallisti scandinavi è la denuncia sociale? Senz'altro c'è nei padri del fenomeno noir, Sjowall e Wahloo, ma anche in Larsson, in Mankell ... in lei. I cattivi nei vostri libri sono sempre i ricchi. 'Sì, ma è la verità. I ricchi spesso non si assumono le responsabilità del potere che hanno e credo che tutto gli sia permesso'.
Mah, non sono certo solo i potenti a frequentare i delitti. Ma andiamo avanti. E' alla scuola di 'crime fiction' che ha imparato a scrivere i suoi polizieschi? Ci vuole un metodo, tipo ogni cinque pagine un nuovo indizio? 'La miglior scuola è stata la lettura. Ho divorato gialli dagli 11 anni in su. Prima fra tutti Agatha Christie. Non ho un metodo, ma un ritmo sì: sento quando è il momento di svelare un nuovo particolare. Il lettore va lasciato riposare, ma quando sta per annoiarsi, devi ripassare all'azione'.
Chi preferisce? 'Gli inglesi, la Christie come ho detto, ma poi Peter Robinson, Reginald Hill, Asa Larsson, Hakan Nesser ... E Stieg Larsson, i suoi libri sono diversi da tutti gli altri, peccato che resteranno solo tre, ma ha aperto la strada a tutti noi'. [...]" (da Susanna Nirenstein, Così insidio Stieg Larsson, "La Repubblica", 11/01/'10)