mercoledì 21 dicembre 2011

La (vera) rivoluzione si fa in versi


"Volevo iniziare (lo faccio) «l'armonia vince di mille secoli il silenzio»; volevo dire (e lo scrivo almeno per vezzo provinciale) che la Letteratura italiana è nata con lo Stile Novo, con Cavalcanti. Voglio ricordare che ogni epoca in crisi ha rimesso in moto la potenza della lingua e della visione. Per stare al Foscolo, che non sbaglia mai, il mondo è in perenne affanno, il Trattato di Campoformio è uno smottamento reiterato al quale si reagisce con l'equilibrio, la passione, l'eleganza della Poesia. La «modernità» che ci riguarda pretendo di farla partire dal sonetto foscoliano («Forse perché della fatal quiete/tu sei l'immago, a me sì cara vieni,/o sera!»), proprio perché l'asse portante Ovidio-Petrarca-Leopardi trova nel poeta di Recanati una femminilità ormai da delirio sentimentale (oltre al titanismo plastico, alla figurazione carnosa ed esoterica delle Operette morali), infatti la sua splendida crisi è l'oblio, il salmodiante incespicare del Canto notturno per chiudere la porta in faccia all'eternità. Invece in Foscolo, e prima di lui in Alfieri e Parini, la prova virile, la risposta alla crisi perenne non abbassa mai la guardia. Non cede. Non indietreggia. Nel primo spara dalla culatta di un ego che produce il primo romanzo italiano (Vita); nel secondo l'illuminismo lombardo, ma non giacobino, si scaglia su disonestà e corruzione. In altre parole: nessuna Rivoluzione o Restaurazione si ribellerà quanto la Poesia. È la poesia che traccia i confini; è la poesia che ci stampa addosso il nome che portiamo. Essa ci dà il battesimo, dunque ci crocifigge come individui e uomini che, da soli, debbono cercarsi un posto nel mondo.
Anche sul finire dei Settanta del secolo scorso si riprese con la poesia. Allora l'Italia e il Muro di Berlino chiedevano e offrivano risposte reazionarie e rivoluzionarie. Amelia Rosselli mi diceva: «I poeti debbono rimanere poveri. La povertà è la bussola che non ti fa sbagliare». La vestale, con il padre e lo zio uccisi dai fascisti a Parigi, leggeva al buio, dialogava con i fantasmi, si imponeva il disprezzo per la volgarità, ricordava la timidezza di Pasolini che l'aveva aiutata a pubblicare da Garzanti. Amelia Rosselli spezzava le costole ai versi per renderli pazzi e cenciosi fino a quando, un giorno, volle provare a scriverli sul cornicione del palazzo. Io, foscoliano e manzoniano, dentro di me aggiungevo: bisogna cercare la perfezione nella nostra lingua, il silenzio, la concentrazione totale, il digiuno, la solitudine, l'amore, la sfida, l'orgoglio, la tenacia.
La letteratura di quegli anni era ingessata tra neo avanguardia e impegno politico; la lingua poetica e narrativa era ridotta a slogan. Sì, c'erano le impennate eroico-retoriche di Dario Bellezza, i travasi tra autobiografia narrativa e versi dell'appassionatissimo Renzo Paris, Area di rigore di Valentino Zeichen, le poesie con «zoppìa» di Maurizio Cucchi, il risultato morfinico di Milo De Angelis, il dettato opalinico e rinascimentale di Giovanni Raboni, e poi la grande abbuffata del Festival di Castelporziano (1979) con Franco Cordelli divo timido dietro i suoi occhiali Rainbow con le lenti a goccia verde bottiglia, che non sanciva la pericolosità del poeta «sotto ogni Stato», bensì la morte stessa della poesia. Si era giunti al capolinea.
La lezione dei poeti che serviva ai nuovi non si trovava tra le schiere dei Fortini, dei Sereni (pur poderoso), dei Porta, dei Pagliarani (pur intelligente), piuttosto nei colpi incendiari di Dino Campana («Nella stanza un odor di putredine: c'è/ Nella stanza una piaga rossa languente. / Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto ... Nel cuore della sera c'è, / Sempre una piaga rossa languente»), nelle preghiere del fanciullo straziato di Sergio Corazzini (Desolazione del povero poeta sentimentale: «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange» va imparata a memoria, come deve essere per Autunno di Cardarelli, per Il conte di Carmagnola di Manzoni). I «nuovi» avevano bisogno delle poesie liguri di Caproni, forse delle atmosfere ferraresi, raffinate e tocche di mente di Luciano Erba. Montale era il poeta di Ossi di seppia, ma anche l'intellettuale fotografato mentre fissa l'upupa imbalsamata. Sono convinto che ai poeti servisse soprattutto l'insostenibile luce di Giuseppe Ungaretti. Insomma pure quegli anni ebbero il loro Trattato di Campoformio. Ormai il linguaggio era ridotto a un vessillo agitato. Dunque la lezione di Pascoli (primo del Novecento, non si dimentichi), l'antilezione di Guido Gozzano (unica e possibile sintesi tra il Vate, l'attesa della morte e il raffinato modernariato), il pentagramma di d'Annunzio dove erano andati a finire? Così alcuni poeti (Salvia, Goroni, Scartaghiande, Del Colle, Antonella Anedda, Giovanna Sicari, Gabriella Sica per la collana del minuscolo editore Rotundo, diretta da Arnaldo Colasanti; mentre Crocetti a Milano faceva da polo per altri ancora più giovani: Antonio Riccardi, Stefano Dal Bianco) ripresero sillaba dopo sillaba a rinnovare la lingua infine pronta e servita ai narratori (sempre «nuovi» i narratori).
Da tempo sono convinto che i poeti e gli scrittori debbano riproporre non un neo romanticismo (ricordo i primi anni Ottanta), bensì il Romanticismo. Senza Manifesti, Progetti, Convegni. Per troppo si è stati persuasi, appunto, che il Romanticismo fosse un archetipo letterario. La post modernità, soprattutto, ne ha fatto un involucro per scriverci sopra la parola «cuore». Invece ogni crisi riparte dalla poesia «romantica». In pieno conflitto tra papato e impero si parte da lì; nel feroce e dorato Rinascimento si parte da lì (Ariosto); le Rime del Tasso ripartono da lì; i tedeschi, gli inglesi, gli italiani per strapparsi di dosso le rovine del neo classicismo ripartono da lì. Quindi, ora che ci sembra di assistere allo schianto di tre quattro imperi contemporaneamente, e di vedere come lo scambio di merci e corpi pare un precipitato apocalittico, è bene osare e dire che la povertà della passione e della sua corte vince non solo quando la ragione è in forma, tocca lo zenit, ma soprattutto quando la crisi divora la cultura, il tempo antropologico delle culture.
Ogni poeta che è sceso nell'Ade è stato romantico (Virgilio su tutti); ogni passione si trascina dietro la miseria (in poesia si trasforma in lusso e sfarzo, vedi Verlaine, Rimbaud, Baudelaire) si porta con sé la forma, la velocità, la semplicità dei linguaggi che nella sinestesia sconvolge ogni interferenza e ci offre la possibilità di scrivere ancora il nostro nome." (da Aurelio Picca, La (vera) rivoluzione si fa in versi, "Corriere della Sera", 21/12/'11)

Si comincia con Szymborska, poi arriva Kavafis
Dal lavorìo riflessivo della Szymborska che «spalanca al nostro sguardo le cose prime e ultime della vita» (la definizione è di Franco Marcoaldi), fino ai «versi liberi modernissimi e vetusti» com'erano i componimenti di Kavafis secondo Marinetti, e così via attraverso Walcott, Neruda, Pessoa, e poi Merini, Pasolini, Luzi e molti altri: la nuova collana del «Corriere», «Un secolo di poesia», curata da Nicola Crocetti, proporrà 30 volumi monografici dedicati ad alcune delle voci più interessanti del Novecento (prima uscita del 27 dicembre 1 euro più il costo del quotidiano, le successive uscite 7,90 euro più il costo del quotidiano). Il primo volume sarà dedicato a Wislawa Szymborska, Elogio dei sogni, con testo originale a fronte e introduzione e cura di Pietro Marchesani, il grande polonista recentemente scomparso. Il 3 gennaio sarà la volta di Costantino Kavafis, con La memoria e la passione (introduzione e cura di Filippomaria Pontani), seguiranno il 10 gennaio Pablo Neruda con Tra le labbra e la voce (introduzione di Ranieri Polese, a cura di Giuseppe Bellini), il 17 gennaio Fernando Pessoa con Nei giorni di luce perfetta (introduzione di Marco Missiroli, a cura di Paolo Collo), per continuare il 24 gennaio con Derek Walcott (Nelle vene del mare, introduzione di Sergio Perosa, a cura di Matteo Campagnoli), il 31 gennaio con Alda Merini (Il canto ferito, introduzione di Vivian Lamarque, a cura di Nicola Crocetti), il 7 febbraio con Federico García Lorca (Nuda canta la notte, introduzione di Giorgio Montefoschi, a cura di Valerio Nardoni). Ciascun volume conterrà, oltre ad alcune delle poesie più importanti dell'autore (talvolta con componimenti inediti), anche nuove introduzioni. Tra le uscite successive, i volumi dedicati a Pasolini, Prévert, Luzi, Brodskij e numerosi altri. (Ida Bozzi)

martedì 20 dicembre 2011

La poesia cambierà il mondo


"A chi parla la poesia e chi è coinvolto nel suo discorso? Solo l'autore e una ristretta cerchia di lettori? In un famoso discorso, intitolato Il meridiano (1960), Paul Celan osserva: «Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica». Mario Luzi nel saggio Verso Ragusa, compreso in Naturalezza del poeta (1995), si spinge oltre: «Il poeta nella parte più segreta del suo desiderio tende a non essere più niente se non ciò che di lui è passato o passerà negli altri come sostanza umana, grazia, canto».
Per un paradosso o per una legge più segreta e profonda, quanto più si offre con il suo radicale bisogno di comunione, tanto più la poesia moderna è allontanata, posta e percepita in una distanza. Eppure essa non cessa, da lì, di esporsi, come diceva ancora Celan. C'è una poesia di Giovanni Giudici, compresa in O beatrice (1972), che vale come una squillante affermazione di questo stato, al contempo doloroso e vitale. Si tratta di Alcuni, una sorta di manifesto che, senza nominarla e per metafora, parla anche della poesia e della sua «insania». Vi si legge, nella seconda quartina: «Alcuni in abitazioni private o in asili / psichiatrici ritentano solitari di carte / o calcoli di moto perpetuo o altre / più improbabili imprese come rivoluzioni»; e nelle ultime tre strofe: «Pensando di loro ti scrivo queste parole / oggi che dirci insieme è dire nessuna speranza / sbarrati da ogni saggezza sbarrati dalla storia / ormai più di passato che di futuro nutribili. // E chiamandoti a un futuro di penuria / io chiedo la tua insania perché la mia abbia forza / perché si possa dire che è una cosa reale / quella che due distinte persone vedono identica. // E tutto questo è ancora poco al confronto / del nulla di chi insegue un solitario ideale. / Essere umani può anche significare rassegnarsi. / Ma essere più umani è persistere a darsi».
Contestazioni e tentativi di rottura di ogni tipo hanno attraversato nell'ultimo secolo e oltre la parola poetica, negata dalle sue più remote prerogative, contraddetta. In tale spoliazione e scoronamento, essa ha trovato, si può dire, una sua ulteriore verità. Le lacerazioni, i tentativi più estremi (penso all'acume linguistico delle avanguardie e degli sperimentalismi) l'hanno in fondo nutrita. Essa si è posta al livello del singolo, dell'uomo, senza patenti e distinzioni.
Si tratta di un'arte che vive del senso di appartenenza e di comunione, sia pure cercato di continuo e non posseduto pacificamente (pena lo scadimento a retorica): una poesia compie la lingua in cui si esprime, la verifica e la inventa continuamente (naturalmente essa non ne è che una delle tante espressioni). Essa, la parola poetica, rende vitale la vicenda di una lingua, che anche grazie a essa non può assestarsi, immobilizzarsi, stagnare. La poesia desta, accende, determina riconoscimenti inconsueti: rende presente che tutto ciò che è stato scritto è ancora vivo; che il viaggio di Dante avviene nel presente e non è solo storia letteraria. Questo perché, per un poeta, Dante è compresente, operante: la sua lingua determina ancora avvenimenti dentro la lingua contemporanea di chi opera al capo estremo della tradizione.
Se vogliamo usare un occhio storico-critico e guardare al nostro Novecento, vediamo che la poesia ha prodotto una serie ininterrotta di autori «maggiori», dagli inizi del secolo fino al suo epilogo e passando per alcune personalità decisive che usano il dialetto: un bilancio credo non comparabile per ricchezza e complessità ai canoni della narrativa. In particolare negli anni dieci, venti e trenta del secolo sono nati, in una concentrazione rara, poeti in grado di costituire una tradizione degna dei maestri già canonizzati. La poesia di questi autori parla di un movimento di conoscenza, di un'avventura intellettuale, ma partendo dal dettaglio, dall'attenzione (come osserva ancora Celan) agli oggetti e ai minimi accidenti e naturalmente alle singole creature, tanto che essa può parlare dell'assolutamente Altro dall'interno di un discorso familiare, domestico.
Se questo è il catalogo, se tale è lo stato di un'arte, può ognuno di noi, in quanto lettore (e si ricordi Baudelaire), non sentire fraterna questa parola? Essa certamente vuole essere coinvolta nel nostro andare, contribuire a una conoscenza unitaria del mondo, di contro agli eccessivi settorialismi, e, senza dare risposte asseverative e assolute (per quanto a volte possa suggerirle), vuole parlare ad altezza umana, accettando e suscitando la serietà di colui che legge, non riducendolo a utente seriale. Che sia qui, in nuce, il segreto della sfortuna della poesia moderna? Certo, la moltiplicazione dei linguaggi ne ha ristretto il campo: essa si è rivolta, per lo più, in una direzione lirico-conoscitiva: si pensi, per noi, alla pietra d'angolo di Leopardi (ma Kazantzakis ha pensato di continuare nel Novecento greco l'epos omerico e Walcott, ad altre latitudini, lo rifà anche oggi). Oppure si è estremizzata in direzione metalinguistica, facendosi esperimento continuato, protesta, esibizione di non-senso. Ma in fondo, essa resta oggi una delle poche espressioni gratuite. Essa, semplicemente, è: il che implica non un darsi come prodotto, ma proprio una tensione, un movimento nell'essere, un'offerta, che si scontra però con il demone della facilità e della banalizzazione.
Ridurre la poesia a un piccolo ghetto autoreferenziale è un gesto di disprezzo per la lingua nella quale, da parlanti e da scriventi, si «abita». Per questo si vorrebbe che da ogni disciplina e campo di ricerca antropologico e umanistico un nuovo discorso cominciasse a prendere forma su di essa. La poesia è più grande delle sue piccole miserie (i dibattiti su quanto non vende, i minuscoli giochi di potere dei suoi maggiorenti, le polemiche personali) ed è su questo piano, quello di un'avventura di conoscenza, misteriosa perfino a se stessa, offerta ai simili, poggiata su basi instabili, che essa può contribuire al significato di una comunità, nazionale e universalmente umana. La stessa idea di Italia di cui siamo gli eredi non esisterebbe senza Dante e Petrarca e senza la lingua comune che su di essi poggia. Il cordone ombelicale tra il poeta e i parlanti, tra lui e chi oggi infantilmente dice «pappo» e «dindi» non è venuto meno. Piuttosto servono occasioni perché il ricongiungimento avvenga, superando gli ostacoli e le prevenzioni di un mercato inteso come feticcio. Occorre cultura.
In questo dinamismo, di una parola che si offre e chiede di essere accolta e di una comunità che le fa posto, tentando di intendere la sua nota, ognuno ha una parte: dà e riceve, cede e cresce." (da Daniele Piccini, La poesia cambierà il mondo. Oltre i settorialismi del sapere scientifico, i versi ci svelano la realtà. Ad altezza umana, "Corriere della Sera", 19/12/'11)

lunedì 19 dicembre 2011

Philip Roth: Niente romanzi mi interessano i saggi su Hitler e Stalin


"L´autunno è ormai terminato e, per la prima volta da molti anni a questa parte, non è uscito, come di tradizione, un romanzo di Philip Roth. L´assenza è stata notata sia in campo editoriale che giornalistico, ma lo scrittore appare a riguardo assolutamente rilassato, perfino divertito, e mi accoglie dicendo che non è mai stato più felice di non fare le cose in fretta, anzi di rammaricarsi «di non averlo fatto sempre». Non si è dato alcuna scadenza sul nuovo romanzo e confessa di provare un grande piacere a riflettere, attraverso letture di saggi e libri storici, su alcuni momenti che ha attraversato lungo la vita. Il prossimo marzo compirà 79 anni, e il giorno in cui l´ho contattato per realizzare questa intervista mi ha dato appuntamento in un ristorante dopo due settimane, dicendo «per allora prevedo di essere vivo», prima di scoppiare in una risata. «In questi ultimi tempi non ho letto molti romanzi» mi dice appena arrivo nel locale che ha scelto, un tranquillo ristorante dell´Upper East Side, «ma ho visto molti film, a cominciare da quelli di Susanne Bier. Non conoscevo il suo lavoro, ma poi mi ha contattato dicendomi di voler adattare Nemesis».
Come le sono sembrati i suoi film? «Mi è piaciuto molto Open Hearts: c´è un grande talento nel modo in cui sono costruiti i personaggi ed è strutturata la storia. E, conoscendola, mi è piaciuto il modo in cui intende affrontare il mio romanzo. In passato non sono stato molto fortunato con gli adattamenti, e l´unico aspetto interessante è stato il compenso».
Come mai ha preferito dedicarsi ai saggi e ai libri storici? «I romanzi continuano ad interessarmi molto, ma in questo momento sono affascinato da un approccio più scientifico e meno immaginario. Ho fatto solo un´eccezione: ho voluto rileggere un romanzo del quale portai fisicamente il manoscritto da quella che allora era la Cecoslovacchia, e riuscii a farlo pubblicare in America: Life with a star di Jiri Weill, che ha per tema la storia della persecuzione degli ebrei a Praga».
Come le è sembrato? «Sono stato felice di trovare intatta la grande potenza che ricordavo. Non ho mai letto nulla che ricostruisca con analoga forza e dolore cosa sia successo al popolo ebraico in quel periodo. E si sente che Weill parlava di avvenimenti che aveva vissuto di persona: proveniva da una famiglia ebraica ortodossa sterminata dai nazisti. Il libro uscì durante il periodo della dittatura comunista e non venne accolto bene: si parlò di "decadenza" e perfino di un "prodotto di una cultura vile". C´è da dire che Weill in gioventù aveva simpatizzato con gli ideali comunisti e sull´onda dell´entusiasmo aveva anche vissuto in Russia, da dove fu però costretto a fuggire per via delle persecuzioni staliniane. Era un uomo che sapeva riconoscere gli artisti, a prescindere dall´opportunità del momento: fu lui a tradurre Majakovskij e Pasternak».
Cos´altro ha letto? «Due libri che mi hanno profondamente appassionato e che riguardano lo stesso periodo storico: Hitler, a study in tiranny di Alan Bullock, e Stalin: the court of the Red Tsar di Simon Sebag Montefiore».
Iniziamo dal primo. «È un libro brillante, che racconta l´ascesa al potere di Hitler, ed il rapporto con la situazione storica dell´Europa e del resto del mondo. È necessario contestualizzare anche gli avvenimenti e le personalità più mostruose. Il che non può mai significare giustificarle, ma comprenderne la nascita e l´evoluzione».
Cosa l´ha colpito maggiormente? «Sul piano letterario l´abilità e l´accuratezza con cui Bullock ha costruito il libro. Per quanto riguarda il contenuto, appare sconvolgente la capacità che aveva un personaggio come Hitler di sedurre la folla ed un popolo con una storia gloriosa, di grande cultura. Nei momenti di difficoltà e disperazione l´uomo ha finito per seguire anche personaggi del genere, con idee abominevoli».
Passiamo a Stalin. «Un altro mostro, responsabile di un numero persino maggiore di morti. Ma anche in questo caso bisogna capire quali siano state le condizioni che lo hanno portato ad avere un potere assoluto».
Cosa le è piaciuto di più del libro? «Il modo in cui è descritto il mondo del suo circolo più ristretto: un mondo di figure inquietanti che lui stesso ha decimato. E anche in questo caso, il rapporto con una popolazione terrorizzata e adorante».
Colpisce che le sue letture odierne riguardino Hitler e Stalin. «Sono nato nel 1933, e si tratta di due personaggi che hanno dominato il mondo nei miei primi anni di vita. Mi interessano le personalità, e le ideologie che hanno portato rovina e morte».
Ha letto qualcuno dei nuovi scrittori? «Sì, il racconto che il New Yorker ha anticipato della nuova raccolta di Nathan Englander. È magnifico e si conferma un grande talento, capace di mescolare l´umorismo al dolore. Racconta una cena di due coppie di vecchi amici ebrei, una delle quali è diventata ultraortodossa. Englander riesce a parlare dell´Olocausto e dell´11 settembre, dell´uso delle droghe e di cosa significhi essere un genitore con una leggerezza ed un acume straordinario. E riesce a comunicare, senza essere mai pesante o volgare come possano essere irritanti alcuni atteggiamenti degli ortodossi. Mi piace tutto, a cominciare dalla lunghezza, inedita per un pezzo di fiction del New Yorker, e il titolo, che mi riporta a quello di cui parlavamo prima: Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank»." (da Antonio Monda, Philip Roth: “Niente romanzi mi interessano i saggi su Hitler e Stalin", "La Repubblica", 19/12/'11)

sabato 17 dicembre 2011

Diario di lettura: Don DeLillo


"«Io per mestiere mi occupo del fatto che viviamo in tempi pericolosi». Comincia così, Don DeLillo, a raccontare cosa fa nella vita e come ci è arrivato.
L’occasione è la pubblicazione di The Angel Esmeralda, la sua prima raccolta di racconti, che uscirà in Italia a febbraio da Einaudi (l’editore, tra l’altro, di Underworld), con lo stesso titolo. La prima storia della collezione, Creation, risale al 1979, e l’ultima, The Starveling, al 2011. Quindi offre la scusa per riguardare l’intera carriera di un autore che, secondo il severo Harold Bloom, sta nell’olimpo dei quattro scrittori americani migliori dei nostri tempi.
Perché una raccolta di racconti proprio adesso? «Non lo so, è un’idea della mia editor. All’inizio ero scettico, ma dopo aver completato la scelta ho scoperto di esserne orgoglioso. Mi piacciono i racconti, la loro brevità mi guida».
Un lettore che non conoscesse le date in cui li ha scritti, potrebbe pensare che sono tutti di oggi. E’ lei che è bravo a prevedere il futuro, oppure i dilemmi
della nostra società non sono cambiati e restano irrisolti da quarant’anni? «Come dicevo, mi occupo della pericolosità dei nostri tempi, che sta aumentando. Siamo tutti concentrati sull’individuo, invece che sulla società, e la forma del racconto consente di cogliere meglio le nostre angosce, perché in genere si modella sulla storia di un protagonista. I romanzi sono più estesi, più esposti ai mutamenti e ai conflitti della cultura e della società».
Quando si è convinto che i nostri tempi sono pericolosi? «La mia vita personale è
stata segnata dall’uccisione di John Kennedy, che ha dimostrato la forza della violenza e la fragilità dei nostri sistemi di vita. Poi abbiamo sopportato quarant’anni di guerra fredda, con la perenne minaccia nucleare. Quando pensavamo di esserci liberati, è iniziata l’era del terrorismo, dove non puoi salire su un aereo senza pensare a quali strane idee potrebbe avere in testa il tuo vicino. Uno scrittore non può ignorare questa paura e l’instabilità che ci circonda».
Non era così quando aveva deciso di occuparsi di letteratura? «Ho cominciato tardi, in realtà. Per due ragioni: non avevo ambizione e non mi sentivo pronto. Il mio interesse per la letteratura è iniziato dalla lettura».
Come? «Da ragazzino facevo un lavoretto in un parcheggio di auto. Mi annoiavo e cominciai a leggere. Fu l’inizio dei miei anni d’oro della lettura, quando avevo venti e trent’anni».
Quali sono gli autori che l’hanno influenzata? «Molti. Non mi hanno influenzato
nel senso che ho cercato di imitarli nel lavoro riga per riga, ma perché mi hanno fatto scoprire il potere della letteratura. James Joyce, che mi ha mostrato la
bellezza della lingua inglese. Poi Hemingway e Faulkner, per l’abilità di descrivere il panorama americano. Ma anche tanti europei, che sono stati assai importanti».
Tipo? «Max Frisch, Italo Svevo, Cesare Pavese, Camus. Ho letto molto anche Nabokov».
Perché l’hanno influenzata? «Ci sono elementi nella narrativa europea, su varie tipologie di individualità, minacciate da forze esterne al loro controllo. Gli europei non sanno rendere la forza e il significato di un paesaggio come Hemingway, Faulkner o Steinbeck. Però quando Kafka descrive le forze che spazzano via le vite degli individui, senza che possano far nulla per opporsi, è insuperabile».
Nella sua casa, poco a nord del Bronx dove è cresciuto, quali libri ci sono? «Troppi, sono pieno di libri».
Maquali sta leggendo adesso? «Beckett e il catalogo delle opere di William De Kooning».
Perché? «Beckett è il campione della frase. Rileggerlo è una sfida, perché mi stimola ad immaginare attraverso quale percorso sia arrivato a scegliere le parole che poi ha messo in fila. Sempre sorprendente».
E le opere di de Kooning, cosa c’entrano? «Sono stato tre volte e vedere la sua mostra al Moma. La pittura astratta espressionistica è stata sempre una delle ispirazioni della mia scrittura. Pollock, Rothko, de Kooning: mi piace perdermi davanti ai loro quadri. E’ una grande esperienza, e presenta il vantaggio che poi non devo scriverne».
Quali sono i tre libri che obbligherebbe tutti a leggere? «Ulisse di Joyce, e poi qualunque cosa di Hemingway e Faulkner: scegliete voi, tutta la loro opera è essenziale. Mi è piaciuto molto anche JR di William Gaddis».
Uno dei fondatori del postmodernismo, come lei. «Lasciamo perdere le etichette.
Mi affascina la sua satira sul caos della società».
Infatti un racconto di Esmeralda, «Hammer and Sickle», fa ironia su
un gruppo di banchieri rinchiusi in prigione per reati finanziari. Stiamo vivendo solo una crisi economica, oppure qualcosa di più grande? «Se guardate le proteste come quella in corso a New York, "Occupy Wall Street", si capisce che siamo di fronte ad una grave insoddisfazione generale. L’economia è il centro, ma la gente è preoccupata soprattutto per la mancanza di leadership. Abbiamo la chiara sensazione di vivere in un mondo dove succedono cose enormi senza controllo».
Perciò, nel racconto che dà il titolo alla raccolta Esmeralda, un’anziana
suora va a caccia di miracoli nel Bronx? «La fede non è più quella tradizionale
con cui sono cresciuto. Ora è un credo costruito su misura per ciascun cliente. Ci interessa solo la dimensione locale, quello che è vicino a noi, e paradossalmente
internet ha contribuito a creare questa mentalità. Tanto per capirci con una metafora letteraria, ognuno crede di poter scrivere un romanzo il cui protagonista
è se stesso».
Ce l’ha con la tecnologia? «Tutti questi aggeggi che ci portiamo dietro hanno creato un obbligo di usarli e comunicare, anche quando non abbiamo nulla da dire. E’ contagioso».
E’ vero che lei si rifiuta di usare l’e-mail? «Diciamo che mi rifiuto di moltiplicare le comunicazioni non necessarie. Non è detto che dobbiamo fare tutti certe cose, solo perché la tecnologia lo consente».
La protagonista di un racconto di Esmeralda si ritrova minacciata da una serie di terremoti in Grecia, ma non trova la forza di scappare: siamo tutti intrappolati in questa fragilità? «Siamo molto assorbiti da noi stessi, e le nostre paure spesso nascondo proprio dall’incapacità di guardare fuori. Se lo facessimo, magari anche attraverso la letteratura, capiremmo che la fragilità è una minaccia costante del genere umano, ma almeno sapremmo che non è un problema personale».
Come Leo, protagonista del racconto The Starveling, che chiude la raccolta
Esmeralda. Lui, per scappare dalla società, passa la vita dentro un cinema.
«E’ incapace di adattarsi alle situazioni, di fingere per essere accettato. Si rifugia nel buio di un cinema perché questo gli dà la sicurezza di non dover interagire. La maggioranza degli esseri umani oggi sembra spinta al comportamento opposto: comunicare a tutti i costi, anche se non si ha molto da dire».
Questa frenesia, però, è anche il fenomeno che trasforma interpreti della società
come lei in icone globali. «Io sono nato come scrittore marginale, e non so dirvi perché ho avuto tutto questo successo. Però non ho alcun problema a tornare nell’angolo della stanza, per osservare»." (da Paolo Mastrolilli, “Oh, Beckett: è il campione della frase”, "TuttoLibri", "La Stampa", 17/12/'11)

martedì 29 novembre 2011

Che cosa non e' una biblioteca


"La Domenica del Sole 24 ore del 20 novembre si è occupata, sulla carta e on line, di biblioteche. Non a caso, visto che tra il 17 e il 19 novembre si è tenuto a Roma il 57° congresso nazionale della Associazione Italiana Biblioteche con il titolo Il futuro in biblioteca, la biblioteca in futuro. Sul giornale leggiamo dunque una perorazione del Presidente della predetta Associazione in favore degli istituti che rappresenta e, in generale delle altre strutture che hanno a che fare con testimonianze di cultura, come i musei e gli archivi, minacciati nella sopravvivenza dai tagli che, con maggiore o minore virulenza, hanno posto in essere ogni governo e la maggior parte della amministrazioni locali che si sono succeduti negli ultimi e non ultimi anni. Nella generale depressione risultano specialmente colpite le biblioteche, che manifestano i segni di un acuto marasma identitario scatenato in primis dalla rivoluzione digitale, quindi dalla potenza del web e conseguentemente dalla nascita e diffusione degli e book. Insomma, si profilano, a dir la verità non da oggi, i termini di una questione che potrebbe ricadere in una istituenda "filosofia della biblioteca": un pensare su se e come sia possibile una biblioteca oggi.
Dovrebbe essere ovvio considerare il fatto che quando si parla di una biblioteca si allude a un oggetto culturale complesso, molto variabile per storia, forma, contenuto, dimensioni, finalità, ragione sociale, etc.; insomma la biblioteca può essere declinata in molti modi, anche se, per non infrangere del tutto il principio di non contraddizione, dovremmo essere in grado di trovare un elemento comune alle variabili, di modo che parlare del venerando istituto non significhi discutere di un ombrello o di una locomotiva, o di arredamento. Mi viene naturale, a questo punto, citare brevemente i termini di una piccola discussione innescata da Marino Sinibaldi, che ha trascorsi bibliotecari, nel luglio 2009 nelle pagine della versione on line della rivista il Mulino. L'intervento, dal titolo "Che farsene delle biblioteche?", prendeva lo spunto dal libro di Antonella Agnoli Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà (Laterza, 2009) per esprimere qualche perplessità sulla tesi che in biblioteca si possa fare di tutto un po', riassunto in epitome dal motto "imparare dai supermercati". «Cosa c'entra tutto questo con le biblioteche e la lettura?», era l'obiezione di Sinibaldi che comunque non sottovalutava l'aspetto relazionale di queste strutture, utili per contrastare, tra l'altro,una certa contrazione della mobilità sociale. Veniva poi accolto dalla rivista un mio intervento, ripreso successivamente nella lista di discussione on line della Associazione Italiana Biblioteche, in cui scherzavo un po' sullo "specifico bibliotecario", come un tempo si faceva per il cinema: mi pareva che la biblioteca potesse essere vista ovviamente come un centro di vita culturale, con tratti peculiari comunque riferibili alla sua storia ai suoi contenuti: nello stesso tempo, rubando l'espressione da una relazione tenuta nel congresso mondiale delle biblioteche di quell'anno proponevo l'espressione inglese "hub", in uso negli aeroporti e in informatica, per indicare uno spazio di scambio e di relazione culturale: hub si può tradurre con "perno" o snodo che si vorrebbero al centro della vita comunitaria, o per usare una espressione adottata da Umberto Eco qualche tempo prima in un discussione sulla paideia contemporanea, un "metanodo", ossia un luogo di convergenza e scambio di conglomerati di saperi.
Chiudeva (provvisoriamente) la discussione, sempre sullo stesso Bollettino AIB. Giovanni Solimine, biblioteconomo e direi filosofo della biblioteca, ritornando sullo "specifico bibliotecario" e richiamando l'esempio del barbiere, già adottato da Agnoli e Sinibaldi (fonte Ray Oldenburg), cioè della bottega dove si va per tagliarsi i capelli ma anche, certo, per conoscere la vita del quartiere, fare pettegolezzi; però «i barbieri hanno un loro "specifico": senza forbici e rasoio chi andrebbe dal Barbiere?». E più avanti, «se la biblioteca è "poco biblioteca" e "molto pub" per quale motivo i giovani dovrebbero venire da noi e non andare in un pub vero?». Concludeva poi con un riferimento agli Idea Stores cioè quelle biblioteche polivalenti di cui il quartiere londinese di Tower Hamlets offre un ottimo esempio, ricordando che lì «c'è innanzi tutto una biblioteca coi fiocchi (per dimensioni e qualità), e poi anche tutto il resto».

Mi immagino, ma forse mi sbaglio, la risposta della Agnoli: con la rete non c'è più bisogno di biblioteche, ossia di luoghi che raccolgano, organizzino, diffondano, studino, discutano, testimonianze di cultura: vedo infatti annunciata una sua conferenza a Campobasso dal titolo Le piazze del sapere: con o senza libri.
La pulsione apparentemente radicale della Agnoli è messa in evidenza proprio nel suo intervento su Domenica del Sole sopra richiamato: sotto il titolo Homeless in biblioteca, l'autrice esordisce evocando il caso della biblioteca comunale di San Diego (California) dove alla chiusura si assiste alla fuoriuscita degli homeless, esempio di come «la biblioteca è diventata un'ancora di salvezza» non solo per la fornitura di tradizionali servizi bibliotecari, di tipo culturale e informativo.
Si conclude, lapidariamente che le «biblioteche non hanno un futuro se non sociale e devono ormai essere viste come parte di un moderno sistema di welfare».
Dire che una biblioteca è un servizio sociale mi pare da una parte una ovvietà, dall'altra una mistificazione in cui non si fa più distinzione tra conoscenza e carità, tra una biblioteca che raccoglie la storia e la tramanda e un'altra che svolge l'utile compito di prestare libri, digitali e non, in vista della loro lettura, magari in un luogo che, proprio perché pubblico, dovrebbe garantire quelle condizioni di tranquillità che rendono possibile la lettura, spesso difficoltosa tra le mura domestiche.
Invece mi viene in mente il racconto di David Lankes, professore nella Università di Syracuse, che riprendo sempre dalle stesse pagine on line del Sole: «in Kenya stanno costruendo biblioteche pubbliche in tutto il Paese, nelle aree rurali come nelle città. Dove le comunità sono troppo distanti perché vengano eretti degli edifici, hanno costruito carri per i libri – 5000 libri in un carretto di legno trainato da asini. In aree ancora più remote nel nord del paese, vengono caricate sul dorso dei cammelli casse e tende. Nei villaggi, i carri vengono aperti, e vengono montate le tende per consentire ai bambini e ai genitori di venire a studiare». Dunque studio, lettura secondo una prospettiva in cui il bibliotecario, oltre ad essere un catalogatore, è un uomo che ha rapporto con la comunità in vista della sua tutela; attraverso la conoscenza, come le donne di Alessandria d'Egitto che formano una catena umana per difendere la rinata mitica biblioteca dai predatori confusi tra la folla della piazza in rivolta nello scorso gennaio.

I bibliotecari, come dice Stefano Parise, una volta che tutto sarà in Internet, «quando la biblioteca di Babele sarà interamente digitalizzata [...] possono diventare i cartografi dell'era dell'informazione in rete» dopo essere stati gli umanisti / amanuensi digitali.
In definitiva, in tanti modi si può dire la biblioteca, e fra questi, credo, quello di essere un luogo di studio e conoscenza, non l'unico, ma si spera, il più libero. E poi, siamo in Italia, dove la memoria è conservata in tante istituzioni ricche di storia e bellezza: non mi pare un particolare insignificante." (da Marcello Di Bella, Che cosa non e' una biblioteca, "Il Sole 24 Ore", 26/11/'11)

lunedì 28 novembre 2011

I rischi della lettura


"L'atto della lettura è a rischio. Leggere, voler leggere e saper leggere, sono sempre meno comportamenti garantiti. Leggere libri non è naturale e necessario come camminare, respirare, mangiare, parlare o esercitare i cinque sensi. Non è un'attività primaria, né fisiologicamente né socialmente. Viene dopo. È una forma di arricchimento, implica una razionale e volontaria cura di sé. Leggere letteratura, filosofia e scienza, se non lo si fa per professione, è un lusso, una passione virtuosa o leggermente perversa; un vizio che la società non censura; è sia un piacere che un proposito di automiglioramento. Richiede un certo grado e capacità di introversione concentrata. È un modo per uscire da sé e dall'ambiente circostante, ma anche un modo per frequentare più consapevolmente se stessi e il proprio ordine e disordine mentale.
La lettura è tutto questo e chissà quante altre cose. È però soltanto uno dei modi in cui ci astraiamo, ci concentriamo, riflettiamo su quello che ci succede, acquisiamo conoscenze, ci procuriamo sollievo e distacco. Eppure la lettura è un singolo atto che ha goduto di un grande prestigio, di un'aura speciale nel corso dei secoli e ormai da circa tre millenni, da quando la scrittura esiste. A lungo e ripetutamente, per ragioni diverse, che potevano economiche, religiose, intellettuali e politiche, estetiche e morali, la lettura di certi testi ha avuto
qualcosa del rituale. I testi di riuso, come i libri sacri, le raccolte di leggi e le opere letterarie, per essere riusati sono stati conservati e tramandati scrupolosamente. La società occidentale moderna ha trasformato e reinventato, in una certa misura, le ragioni e le modalità del leggere. Ma recentemente, negli ultimi decenni, l'atto di leggere, il suo valore riconosciuto, la sua qualità, le sue stesse condizioni ambientali e tecniche sembrano minacciate. Ne parla Italo Calvino in tono semiserio ma sinceramente allarmato nell'incipit dell'ultimo dei suoi romanzi: " Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: 'No, non voglio vedere la televisione!' Alza la voce, se non ti sentono: 'Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!' forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida ...".

Si tratta dei rischi che corre la lettura. Ci sono d'altra parte i rischi che corre chi legge, soprattutto chi legge letteratura, filosofia e storia, in particolare quelle scritte in Europa e in America negli ultimi due secoli. Da quando esiste qualcosa che chiamiamo modernità – cioè la cultura dell'indipendenza individuale, del pensiero critico, della libertà di coscienza, dell'uguaglianza e della giustizia sociali, dell'organizzazione e della produttività, nonché del loro rifiuto politico e utopico – da allora leggere fa correre dei rischi. È un atto socialmente, culturalmente ambiguo: permette e incrementa la socializzazione degli individui, ma d'altra parte mette a rischio la stessa volontà individuale di entrare nella rete dei vincoli sociali rinunciando a una quota della propria autonomia e singolarità.
Società e individuo, autonomia personale e benessere pubblico sono due finalità non sempre conciliabili, a volte antagonistiche, fra cui oscilla la nostra cultura. Non possiamo fare a meno di dare il nostro assenso al bisogno di uguaglianza e al bisogno di singolarità. Ma questo duplice assenso crea un conflitto di desideri e di doveri, quando viviamo la nostra quotidianità personale e quando riflettiamo politicamente e scegliamo dei governi. Ma è rischiosa anche la lettura dei classici premoderni, quelli che precedono, per intenderci, Shakespeare, Cervantes, Montaigne,che hanno reinventato generi letterari fondamentali come la prosa di pensiero, l'epica, il teatro. I problemi e i valori che caratterizzano la modernità occidentale, cioè libertà, creatività, rivolta e angoscia, si manifestano con chiarezza soprattutto con l'inizio del Seicento e cresceranno fino a travolgere distruttivamente la tradizione precedente, greco-latina e medievale. Un lettore attento e libero commentatore di classici antichi come Montaigne si dichiara provocatoriamente, con una sincerità forse enfatizzata, uomo senza memoria. Cervantes celebra e mostra impossibile l'eroismo antico, ormai nemico della realtà, del senso comune e follemente libresco. Shakespeare azzera e rimescola comico e tragico, alto e basso, re e buffoni, principi e becchini, eroismo e stanchezza malinconica. Non per questo si è smesso di leggere i classici antichi: solo che la letteratura moderna non li imita più come era avvenuto fra gli umanisti e i sapienti neo-antichi fra Quatto e Cinquecento. Nel postmoderno New Age (una variante della postmodernità) il neo-antico è tornato per suggerimento di Nietzsche, in quanto polemicamente "inattuale". Quindi anche leggere gli antichi può ridiventare rischioso, almeno quando non è soltanto erudizione e archeologia: perché se è vero che per leggere, capire e interessarsi a un autore c'è bisogno di Einfühlung, di immedesimazione, anche se si tratta di Parmenide o Virgilio, è altrettanto vero che sentirsi contemporanei dei sapienti presocratici o di un classico latino può indurre una certa dose di follia anacronistica: almeno in Occidente, la cui storia ci ha spinto a elaborare e idolatrare appunto l'idea di Storia come progresso e rivoluzionamento, superamento incessante di condizioni precedenti e interruzione periodica di continuità. Non siamo in India, dove molti aspetti della tradizione si sono perpetuati così a lungo da aver inibito o reso poco interessante perfino la datazione precisa di certe loro opere classiche. Noi siamo animati, ossessionati, intossicati dall'dea di storia e dalla volontà di superare, demolire, scavalcare, dichiarare obsoleto il passato. Leggere ciò che quel passato ci dice è perciò diventato pane esclusivo per storici e filologi: viene studiato per essere tenuto a distanza, non per essere letto con immedesimazione. Alcuni neometafisici novecenteschi e attuali, restaurando continuità interrotte dalla nostra storia sociale, rischiano di mettersi in maschera, di recitare in costumi antichi antiche verità, attualizzando categorie ascetiche e mistiche di cui, nel presente, si riesce ad avere appena un'idea, in mancanza di pratiche e di esperienze adeguate. [...]"(da Alfonso Berardinelli, I rischi della lettura, "Il Sole 24 Ore", 27/11/'11)

Dall'intervento di Alfonso Berardinelli ''Dal progetto di lettura di Carlo Bo alla lettura nell'era digitale'' tenutosi a Urbino.

Una certa idea di mondo


"C'è poi questa idea di letteratura, a me estranea, che definirei così: registrare la stupefacente normalità dei viventi, con tutta l'obiettività possibile, limitandosi quasi a fotografarla. Si potrebbe dire che già Balzac lo faceva, ma qui si sta parlando di qualcosa di più estremo: non ci sono di mezzo i trucchi della narrazione, e il fine non sembra quello di riportare il caos indistinto della vita nell'ordine formale di una storia. Si tratta di guardare e basta, lasciando che la luce dei viventi impressioni la pellicola della lingua. Spesso non c' è nemmeno l' ombra di un giudizio, e tantomeno una qualche morale. Non sembra importante che le vicende siano in qualche modo esemplari. Ogni frammento di vita ritratto non significa che se stesso. E' il trionfo del reale su qualsiasi intenzione.
Ero molto piccolo quando mi son imbattuto per la prima volta in questo tipo di letteratura: mi avevano regalato, irragionevolmente, un volumone con tutti i racconti di Cechov. Mi faceva imbestialire che spesso i racconti non avessero neanche un finale. Quell'uomo si limitava a ritagliare a caso dei fotogrammi nel film che gli passava sotto agli occhi, e pensava che quello fosse scrivere. Era talmente assurdo che non riuscivo a smettere di leggere, come uno che non riuscisse a risolvere un'equazione e continuasse a provarci per sempre. Adesso so che, in effetti, in quella particolare idea di letteratura Cechov è stato il più grande: e, nel tempo, mi è piaciuto scoprire che dal seme dei suoi racconti è poi nata una jungla di libri che ho spesso amato, ma da lontano, come si può amare una campagna in cui non si andrebbe mai ad abitare, neanche morti. Ho imparato che la forma perfetta, per quel tipo di artigianato, è il racconto, non il romanzo, e che i maestri assoluti del genere sono inglesi e americani, più qualche mina vagante orientale. Gli altri ci provano, ma è come sentire un norvegese che canta 'O surdato 'nnammurato. Un'altra cosa evidente è che, per lungo tempo, questa particolare forma di artigianato si è intestardita in un'aspirazione sublime e per me tristissima: far sparire la voce del narratore. C'è ovviamente una logica, che già si annunciava in Cechov: se quello che vuoi è la registrazione pura del reale, è chiaro che lo scrittore deve togliersi dai piedi. Proprio sparire. Se ti immetti in un sentiero del genere, e non ti fermi per strada, arrivi al Carver truccato da Gordon Lish. E quello è stato, per un bel po' di tempo, il modello assoluto: la perfezione a cui guardare.
Adesso le cose sono un po' cambiate, e l'orlo della prodezza è riscivolato indietro, come un'onda sulla sabbia, verso intenzioni più miti. L'idea è sempre quella di lasciare che il reale impressioni quasi da sé la pellicola, ma si è ricominciato a far filtrare una certa temperatura, qualche colore caldo, qualche inquadratura innaturale, un certo fantasma di voce. Sempre foto sono, ma ci senti la mano del fotografo, eccome se la senti. Ogni tanto non è piacevole, ma altre volte, invece, è un incanto. Lì si tratta di rimanere in equilibrio tra mutismo e voce, tra freddezza e compassione, e farlo bene, e con eleganza e precisione: è una prodezza ed è qui che arriviamo alla Strout. In quel genere di equilibrismo, secondo me, lei è il meglio che c' è, morti esclusi. Lei e la Munro, diciamo (due donne, e forse non è un caso). (Ah, colgo l'occasione per annotare che il precetto femminista per cui non bisognerebbe usare l'articolo davanti ai nomi di donne - la Merkel, la Woolf - è una boiata pazzesca). Le fotografie raccolte in Olive Kitteridge (racconti travestiti da romanzo) non le si riesce a guardare senza commozione, benché non sia chiarissimo il perché. Tutte scattate in un villaggetto della provincia americana, sull'Atlantico. Piccolo mondo, storie gigantesche o minime, di quelle che senti dalla parrucchiera. Quasi tutti i personaggi fotografati sono anziani, o sull'orlo della pensione, o giù di lì. Bisogna vederli, infagottati in quella loro pelle di carta velina, mentre spiano i battiti del cuore, un po' a vigilare sull'eventuale infarto, e un po' a registrare, stupefatti, l'ostinata epifania di desideri fuori tempo massimo. Sono magnifici quando si chinano sul libro mastro della loro vita a calcolare, mettendo in colonna i ricordi, una somma che non viene mai. Covano rimorsi per cui non hanno più tempo,e rimpianti che fanno fatica a ricordare. Leggono il giornale, costernati dall'aver dimenticato quale è stato il preciso momento in cui hanno cessato di avere delle opinioni. Ogni tanto squilla il telefono, e forse è uno dei figli, ormai grandi, ma poi non lo è quasi mai, e allora tornano a sciabattare in quelle loro piccole case rese enormi dal silenzio, e dalle stanze vuote. Tuttavia sono capaci di ridere, ognuno ha un segreto a cui si scalda nell'inverno di quel crepuscolo, e tutti sanno che è un dono, ogni mossa della vita - anche quel giallo del bosco, o lo zucchero sulla ciambella. Ce n'è uno, si chiama Harmon, e a un certo punto gli accade di pensare a Dio: "gli parve un salvadanaio che lui stesso aveva piazzato in cima allo scaffale e che ora aveva tirato giù per osservarlo con occhi nuovi, più attenti". Non so se la Strout li abbia conosciuti, ma io sì, questo è il bello, è come se fossi stato là. Lei li ha fotografati per me, con una lente di cui ignoro il segreto, e adesso io potrei riconoscere l'odore delle loro case, e sapere che sono loro da come bussano alla porta. Li lascerò entrare tutte le volte che verranno perché il bagliore della loro penombra è una delle cose che mi potranno accadere quando sarà troppo tardi per un sacco di cose e troppo presto per l'unica che fa veramente paura. Inutile dire, peraltro, che avrei piani più brillanti." (da Alessandro Baricco, Una certa idea di mondo, "La Repubblica", 27/11/'11)

sabato 26 novembre 2011

Sigmund Freud, Racconti analitici


"Nel 1922, Sigmund Freud inviò al grande narratore e drammaturgo viennese Arthur Schnitzler (nato nel 1862) una curiosa lettera, in cui gli confessava di averlo in precedenza evitato «per una sorta di paura del doppio». E proseguiva con un'acuta sintesi della tematica di Schnitzler: «Il Suo determinismo, il Suo scetticismo — che la gente chiama pessimismo — il Suo essere dominato dalle verità dell'inconscio, dalla natura istintuale dell'uomo, il Suo demolire le certezze culturali tradizionali, l'aderire del Suo pensiero alla polarità di amore e morte, tutto questo mi ha colpito con un'insolita e inquietante familiarità».
Ma perché il fondatore della psicoanalisi doveva temere come un suo doppio lo scrittore, e trovare inquietante la familiarità con le sue invenzioni? È vero che in qualche appunto giovanile Freud dichiara di essere attratto dall'arte della narrazione, ed è vero che già in una lettera alla futura moglie Martha racconta estesamente, come in una novella, la parabola esistenziale dell'amico Nathan Weiss fino al suicidio.
Ma dopo aver trovato la strada dell'analisi psicologica a scopo terapeutico, in che modo il suo lavoro poteva incrociare quello di un romanziere?
A guardare le cose in superficie, si potrebbe considerare ovvio che molti lavori di Freud, narrando vicende e caratteri di persone da lui conosciute e curate, assumano tratti novelleschi o romanzeschi. E di fatto i «casi clinici», come quelli dell'«uomo dei topi» o di Dora o del «piccolo Hans», sono stupende narrazioni.
E non è narrativa quella che scruta un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, o quella che ricostruisce, in tre saggi coordinati, L'uomo Mosè e il monoteismo? Per quanto riguarda in particolare i «casi clinici», i cui personaggi venivano indicati con nomi di fantasia per una doverosa discrezione, Freud esplicita il timore che essi siano letti dai suoi colleghi «non già come un contributo alla psicopatologia delle nevrosi, ma come un romanzo a chiave, destinato al loro divertimento»: cosa che gli parrebbe «disgustosa». Anche a proposito del caso di Elisabeth von R., Freud scrive: «Mi colpisce ancora come qualcosa di strano il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggano come novelle e siano per così dire prive dell'impronta severa della scientificità». Però i motivi di un confronto fra gli scritti di Sigmund Freud e i caratteri della narrazione letteraria sono molto più profondi, e sono oggetto di ricerca da almeno trent'anni.
È perciò da festeggiare l'ampia raccolta degli scritti narrativi o paranarrativi di Freud (Racconti analitici, progetto editoriale e introduzione di Mario Lavagetto, Einaudi), di cui segnaliamo subito le vivaci e suggestive illustrazioni (dodici) di Lorenzo Mattotti. I quattordici testi prescelti (i più famosi, ma anche alcuni meno noti) sono presentati e annotati da Anna Buia. In generale, ciò che caratterizza i testi narrativi di Freud è il fatto che le vicende delle persone sono inserite in una ricostruzione psicologica della loro personalità, dei loro complessi, dei loro comportamenti. E naturalmente la lenta comprensione dei moventi dei personaggi da parte dell'analista ha tempi e logiche diverse da quelli della narrazione, anche se in parte vi si riflette. Insomma, la storia dei personaggi e quella dell'interpretazione non coincidono; semmai in parte possono intersecarsi. La cosa più interessante, però, è che Sigmund Freud accetta, senza dirlo, il patto tacito che lega gli autori di romanzi o di novelle e i loro lettori. Il patto potrebbe formularsi così: l'autore può assumere di volta in volta la prospettiva dei personaggi in scena, ed esprimere le loro idee come se le avesse fatte proprie. Il volume presenta innumerevoli riprove della partecipazione di Freud narratore a questo «patto».
Per esempio Dora, nel «Frammento di un'analisi d'isteria», è gelosa del rapporto erotico fra il proprio padre (di cui è inconsciamente innamorata) e la signora K. Per questo il padre, consapevole della situazione, parla della signora K. alla figlia in modo da allontanare i sospetti sul loro adulterio, insiste sui suoi malanni e la definisce una «povera donna»; ma quando Freud adotta il punto di vista di Dora, la «rivale» appare come una «donna giovane e bella». Infine, in una sua descrizione, Dora, allude all'«incantevole corpo bianco» della signora K., e rivela così la propria latente omosessualità.
Altrettanto interessanti i casi in cui un contesto riflessivo, nel quale è chiaramente l'autore che parla, ospita esclamazioni, e perciò sentimenti, che non sono dell'autore ma dei suoi personaggi. A un certo punto, ad esempio, Sigmund Freud parla dei presentimenti che ha Dora della morte del padre: «In quel momento l'espressione stanca del padre aveva avuto uno strano guizzo, e Dora aveva capito quali pensieri doveva reprimere quel pover'uomo malato! Chi poteva sapere quanto a lungo gli era dato ancora vivere!». L'ultima frase è un pensiero di Dora, non di Freud; nessun segno lo indica, ma il lettore, consapevole del «patto», capisce benissimo.
Un'altra volta, Freud sta riferendo in terza persona i rimpianti, da parte di Dora, dell'età infantile e della funzione protettiva che esercitava suo padre. Poi prosegue così: «Com'era più bello quando quello stesso padre non amava nessuno quanto lei, e si adoperava per salvarla dai pericoli che la minacciavano allora». Anche qui, non è un pensiero di Freud, ma di Dora, e il lettore lo sa.
Freud cade persino vittima degli schemi narrativi. Nella conclusione del caso di Dora, si legge: «Da allora la ragazza si è sposata, e per la precisione, se tutti gli indizi non m'ingannano, con quel giovane menzionato nelle associazioni all'inizio dell'analisi del secondo sogno». Proprio un bel lieto fine matrimoniale, delizia di tanti lettori di romanzi. Purtroppo, nelle ristampe dell'opera, Freud è costretto a notare, onestamente: «Questa, come ho appreso in seguito, era un'informazione sbagliata».
Mario Lavagetto, già autore di Freud, la letteratura e altro (Einaudi, 1985), ci guida attentamente tra le prove «narrative» di Sigmund Freud. E termina accennando alla vicinanza di Freud alla letteratura di fine Ottocento-primo Novecento. Vicinanza indubbia, ma forse meno significativa del suo apporto attivo, ben noto, ai principi ispiratori di questa letteratura, dato che Freud è tra coloro che più energicamente misero in crisi la concezione unitaria dell'uomo, e perciò anche del personaggio, e la linearità consequenziale del suo pensiero e delle sue azioni. Ecco perché sentiva Schnitzler come un rivale." (da Cesare Segre, Freud narratore. Quando l'isteria diventa romanzo, "Corriere della Sera", 26/11/'11)

lunedì 14 novembre 2011

Fu cosi' che divenni Anna Karenina

La lettura - "Corriere della Sera": "Il filosofo greco Aristotele amava ricordare spesso ai suoi studenti la differenza tra uomini colti e incolti: «Gli uomini colti - affermava - sono superiori agli uomini incolti nella stessa misura in cui i vivi sono superiori ai morti». Ma cosa significa essere colti in un mondo sempre connesso dove i generi e i registri si confondo quotidianamente? Da oggi proveremo a rispondere insieme a questa domanda. Abbiamo pensato al Club della Lettura - che parte oggi in contemporanea al nuovo supplemento culturale del Corriere della Sera - come a un luogo dove le idee dei giornalisti circolano insieme a quelle dei lettori e degli autori."
(di Serena Danna e Alessia Rastelli)



"Il mio primo sentimento di bambina nei confronti dei libri fu un miscuglio di gelosia e spirito di competizione. A una certa ora del pomeriggio vedevo mia madre sprofondare nel divano con un libro aperto sulle ginocchia, e non c’era più verso di attirare la sua attenzione. Restavo esclusa da quella specie d’incantesimo che invano tentavo con ogni capriccio di rompere. Non capivo come potesse diventare così assente, infastidita dal citofono e dalle telefonate. Mi convinsi che nei libri ci fosse qualcosa di diabolico. E il diabolico attrae.

La rivoluzione accadde un pomeriggio, imparando a memoria una poesia di Pascoli, Novembre. La ripetevo affacciata a una finestra che dava su un orto dietro la casa. Era una giornata invernale e luminosa, come quella descritta dal poeta un secolo prima. Di colpo mi accorsi che gli orti della poesia stavano ingaggiando una lotta con quello reale. L’aria che «gemmea» tra le parole aggiungeva qualcosa a quella del mio pomeriggio. E «l’estate fredda dei morti» scoccava come una rivelazione non sulla pagina, ma sul vetro della mia finestra.

Con i primi romanzi scoprii che tutte le cose vietate potevo farle dentro i libri, potevo diventare un eroe o un farabutto, Raskolnikov o Anna Karenina; in ogni caso, mi facevo più grande, immedesimandomi acquistavo poteri sconosciuti. La vita nell’altrove delle pagine era straordinariamente più interessante, piena ed esatta della mia. E il bello era che il libro, una volta chiuso, non finiva. Continuava a tessere la sua trama nella memoria, modificava la mia vista, il mio udito, il mio tatto. Cominciai a interessarmi alle pagine di politica dei quotidiani dopo aver letto Furore di Steinbeck: l’ingiustizia che avevano patito i mezzadri dell’Oklahoma espropriati delle loro terre era diventata la stessa ingiustizia che dovevo sconfiggere anch’io. Fu Pasolini a farmi stringere amicizia con i ragazzi che fumavano in sella a motorini senza casco e non volevano proprio saperne della scuola. Il mondo si svelava attraverso i libri che illuminavano i bar, le piazze, le persone. Mi guidavano a esplorare i luoghi meno raccomandabili, a combattere l’ipocrisia e l’indifferenza. Le borgate di oggi, immerse nella luce radiosa che Pasolini ne aveva estratto ieri. Da Nord a Sud ho ritrovato i bagliori vivi di Le ceneri di Gramsci.

Ogni balordo, ogni donna perduta, ogni sconfitto che conoscevo tra le pagine di un libro, diventava un caro amico per il quale costruire una società migliore. Dietro ogni volto, fosse anche il più sfigurato, immaginavo in ogni dettaglio la storia che lo aveva condotto a quel punto: fino alla macchinetta del videopoker avviata all’infinito, fino allo sguardo disilluso da una panchina di fronte alla stazione. Perché «la vita non serve a vincere», come dice in modo disarmante un personaggio secondario di Le correzioni di Franzen. I libri non mi hanno mai rivelato a cosa serva davvero, ma mi hanno insegnato che anche quella degli altri mi riguarda.

I romanzi che più ho amato, come A sangue freddo di Truman Capote e La Storia di Elsa Morante, hanno scatenato un autentico putiferio. Nel 1966 un’intera nazione aspettava con ansia le puntate sul «New Yorker» per continuare a leggere la storia che Capote aveva estratto dalle cronache quotidiane di provincia. La storia vera di un assassinio atroce. Ma la verità nel romanzo di Capote non coincide con la cronaca dei fatti, non è un concetto o un’informazione. Si chiude il libro e si resta con il mistero intatto: non si possiede niente. Lo sguardo però ha cambiato direzione. Truman Capote è andato ad assistere all’impiccagione di due feroci «nessuno», e Perry E. Smith e Richard E. Hickock sono stati salvati. Non dalla legge, ma dalla lettura. Il loro tempo non è più quello di una vita soltanto, ma di intere generazioni. Ho amato i libri che hanno indignato, scandalizzato, e che oggi sono diventati classici. Li ho amati perché leggerli è stato, e continua a essere, un passo in più verso la democrazia.

Crooks, il garzone di colore di Uomini e topi, a un certo punto dice a un altro emarginato: «I libri non servono a niente. A un uomo occorre qualcuno ... che gli sta accanto». Come dargli torto? I libri non hanno mai fornito armi o soluzioni, la loro compagnia è simile a quella dei fantasmi. Ti spiattellano davanti gli stessi problemi che ti pone la vita. Magari centuplicati, e con maggiore ferocia. Eppure qualcosa di nuovo accade.

Nella lettura non s’incontrano soltanto personaggi, epoche, paesaggi. Nascosto in un punto buio e minuscolo del testo, quasi in una buca a grandezza di formica, c’è un’altra persona. Qualcuno per cui talvolta proviamo, anche senza conoscerlo, un’infinita vicinanza. Penso a un poeta russo pochissimo tradotto. Si chiama Boris Ryžyj, è nato in una regione degli Urali nel 1974, e nel 2001 si è impiccato nella sua casa.

In una poesia, scritta in una camera forse d’ospedale, la vita gli appare da una nebbia, e lui cerca di sollevarsi dal letto perché vuole guardarla negli occhi. «Guardarla, mettermi a piangere, / e non morire mai». Questo verso finale e sospeso, sussurrato ai suoi lettori prima di fare l’esatto contrario, ci fa sentire nudi. «Non morire mai»; è una frase quasi impronunciabile. Ma in qualche modo, in una pur minuscola misura, la nostra lettura ha esaudito il suo desiderio. Ciascun lettore, nel silenzio della sua stanza o nel fragore di un vagone del treno, ha desiderato la stessa cosa." (da Silvia Avallone, Fu cosi' che divenni Anna Karenina "Corriere della Sera", 13/11/2011)

lunedì 7 novembre 2011

La saggezza del bibliotecario


"In che cosa consiste il lavoro del bibliotecario? Per qualcuno nella distribuzione di libri, per altri nella loro lettura. Mi è capitato più di una volta di sentire frasi del tipo: “Vi pagano per leggere libri” o “il vostro lavoro è il prestito dei libri”. Insomma, in base a uno stereotipo diffuso il bibliotecario è qualcuno che sta a metà fra un impiegato delle poste e uno che prende uno stipendio per farsi – nella migliore delle ipotesi – i fatti suoi.

Questa percezione fa naturalmente a pugni con quella che noi bibliotecari abbiamo della nostra attività e con la realtà dei fatti: pratichiamo una professione intellettuale e insieme tecnica, i cui contenuti disciplinari si sono precisati a partire dalla fine dell’Ottocento formando le basi di un sapere condiviso a livello internazionale, fatto di regole di catalogazione e di sistemi di classificazione della conoscenza, di standard, linee guida e raccomandazioni, di pratiche di trattamento e ordinamento delle raccolte, di tecniche per la tutela e la conservazione. Da questo punto di vista il bibliotecario è uno specialista nel trattamento e nella conservazione del libro, anche se in passato questa figura è coincisa con quella di uno studioso o di un erudito.

Negli ultimi cinquant’anni le cose sono rapidamente cambiate per via della diffusione delle biblioteche pubbliche e dello sviluppo tecnologico, che richiedono al bibliotecario competenze legate alle discipline gestionali, alla pedagogia della lettura, alle tecniche della ricerca sociale, alla statistica, all’informatica, al diritto d’autore. Non è difficile immaginarlo: oggi le collezioni di qualsiasi biblioteca sono un complesso di documenti fisici posseduti localmente o da altre biblioteche, e di opere in formato elettronico accessibili anche a distanza su formati differenziati, che richiedono competenze specifiche e capacità d’uso da parte degli operatori e degli utilizzatori; il pubblico delle biblioteche si è notevolmente ampliato a comprendere persone di qualsiasi età, condizione sociale, livello culturale e provenienza geografica; la crisi economica e la richiesta di maggiore efficienza dei servizi pubblici hanno accentuato l’esigenza di una gestione rigorosa e improntata alla qualità; la richiesta di socialità ha modificato il ruolo delle biblioteche, spesso gli unici luoghi di ritrovo presenti nel territorio, soprattutto nei piccoli centri. Ciò rende – o dovrebbe – il bibliotecario qualcosa di simile a un manager dell’informazione, a un ricercatore (o assistente) sociale, a un animatore culturale.

Insomma, non esiste una figura “standard” di bibliotecario ma ruoli differenziati e specializzati, come in qualsiasi settore: esistono i catalogatori, che si occupano del trattamento delle informazioni bibliografiche e della loro immissione nei cataloghi, i bibliotecari addetti al reference (il servizio di orientamento e consulenza informativa e bibliografica), gli addetti alle acquisizioni, i conservatori, chi si occupa esclusivamente di libri antichi, chi di periodici, banche dati o riviste elettroniche; ci sono i bibliotecari per ragazzi, a cui sono richieste competenze particolari nel campo della pedagogia, della psicologia dell’età evolutiva e una particolare conoscenza dell’editoria rivolta ai bambini. Nelle strutture più grandi queste differenziazioni sono ancora più accentuate. Per una panoramica sui ruoli rimando alla voce Librarian di Wikipedia.

Qualcuna di queste specializzazioni può essere svolta senza leggere mai un libro. Sembra un paradosso ma è così. Del resto nessun direttore d’orchestra sa suonare tutti gli strumenti che dirige. Anche il bibliotecario più dotto – o pazzo – non potrebbe pensare di leggere tutti i libri della sua biblioteca. Anzi, come scrive Michel Melot ne La saggezza del bibliotecario (Ed. Sylvestre Bonnard, 2005), «senza illusioni sulla sua capacità di leggere tutti i libri, il bibliotecario non rinuncia a vivere tra di loro e ad addomesticarli. Sa leggere tutti i libri senza aprirli». Una meta-lettura che non ha nulla di superficiale, che lo porta a cogliere le ragioni che hanno portato alla sua scrittura e quelle per cui sarà letto. Pur ignorando i particolari del suo contenuto, il bibliotecario sa cogliere l’essenziale.

Il nostro compito non è quello di accumulare libri, di prestarli o leggerli, bensì quello di selezionarli in maniera consapevole rispetto agli obiettivi che la biblioteca si pone. Il nostro lavoro è il frutto di un compromesso fra ciò che riteniamo ci sarà chiesto e ciò che pensiamo di dover proporre. Per questo la conoscenza dei lettori è importante quanto (o più di) quella dei libri, ed è su queste due sapienze che si fonda il mestiere del bibliotecario, così come la sua saggezza, che non è una virtù personale ma una componente fondamentale del suo lavoro, perchè egli – sono ancora le parole di Melot – «non agisce per se stesso ma per la comunità di cui si pone al servizio. Deve rifletterne gusti e opinioni, ma anche aprirli ad altro»." (da Stefano Parise, La saggezza del bibliotecario, "Il Sole 24 Ore", 07/11/'11)

Il social club del libro


"C´era una volta il circolo dei lettori che si riuniva per discutere di romanzi. Ma chi pensava che l´era virtuale, con il trionfo dell´e-book, ne avrebbe decretato la fine si sbagliava I salotti letterari si moltiplicano in tutta Europa, i festival dedicati alla lettura sono sempre più affollati E il web non ostacola questa passione ma la raddoppia: anche qui le community degli e-reader crescono e s´intrecciano critiche, commenti, brani sottolineati è stato creato persino un software con cui ognuno può leggere tutte le osservazioni ad un testo scritte dagli altri Così la conversazione settecentesca oggi prende la forma di un´immensa chat culturale.
Il libro è morto viva il libro, si potrebbe dire applicando a quello straordinario manufatto il motto che si usa quando un re di Inghilterra scompare. Se Amazon, la libreria virtuale creata da Jeff Bezos, vende da due anni più libri elettronici che libri di carta, d´altro lato in varie parti del mondo (Italia compresa) si segnala una gran fioritura di iniziative che sembrano piuttosto celebrare le virtù del buon vecchio libro di carta.
Nascono infatti in tutt´Europa salotti letterari, circoli di lettori, festival in piazza e in teatro, nei quali in fondo si parla sempre di libri, proprio di quelli di carta. In parte si tratta di luoghi vintage creati nell´Ottocento, quando il libro andava portato verso un popolo incerto per cultura e per capacità alfabetiche. C´è il Circolo dei Lettori di Torino, che ha storia, ma per lo più si tratta di siti moderni, all´altezza dei tempi, in cui il libro coabita con altri media e perfino con generi d´altro tipo (come le cose da mangiare), riunendo così tre funzioni che, escluse in pubblico, in privato si praticano normalmente insieme: leggere, bere e mangiare. Inventata quarant´anni fa nella libreria Atticus a New Haven (sede dell´università Yale), questa formula si è imposta ovunque, per esempio nel sorprendente complesso Ambasciatori a Bologna. Si aggiungano le tante librerie che in tutto il paese funzionano anche come luogo di discussione e i caffè letterari (con questo nome ne esistono già a Roma e a Milano) in cui l´happy hour serve anche per parlare di libri o per comprarli.
Ma nello stesso tempo, un fenomeno parallelo, si diffonde in Rete. È il social reading. Club del libro sul web, comunità di lettori, non virtuali, che si incontrano online e discutono. Tra i più celebri GoodReads e Book-Clubs-Resource.com dove ci si iscrive per aree tematiche e interessi.
In più c´è l´e-book che con le sue funzioni permette di condividere i commenti con i lettori precedenti, creando un "network di glosse".
E allora che sta succedendo nella partita tra il libro di carta e quello digitale? Chi è in vantaggio? E le drastiche differenze tra l´uno e l´altro, dove sono andate a finire? Per rispondere è utile richiamarne alcune. Il libro di carta, come tutti gli oggetti che hanno a che fare col conoscere, impone determinati comportamenti e definisce un ambiente. Sta perfettamente in mano, si manipola senza sforzo (si apre, si chiude, si può strappare, vi si incollano frammenti, si fanno orecchie alle pagine ...), si copia e si annota; permette di calcolare quanto manca alla fine e di spostarsi in un lampo da un punto all´altro; ospita quel che si vuole (dediche, disegni, poesie, cartoline, fiori secchi, biglietti, fotografie, soldi ...); si lascia mostrare, prestare, regalare, collezionare e affiancare ai suoi compagni sugli scaffali ... Inoltre, pur essendo destinato anzitutto alla lettura solitaria, stimola pratiche di altro segno: può esser letto in compagnia, commentato tra più persone, scambiato, sottolineato (a matita, ma anche con altri mezzi, rossetti inclusi), fotocopiato e prestato. Insomma il libro mescola, con un´ambiguità esaltante, il massimo di isolamento col massimo di socialità.
Pur contenendo anche lui un libro, l´e-book è fisicamente tutt´altra cosa. Dato che nell´e-book non ci sono né la carta né l´odore dell´inchiostro o della colla, i maniaci del "corpo del libro" lo troveranno deludente: da accarezzare, da palpare, da sniffare non c´è proprio niente. Ma, soprattutto, l´e-book impone un´altra etologia, a cui non è istintivo assuefarsi. Ad esempio, non saprete mai, leggendo, a che punto siete, perché l´e-book non ha scansione in pagine. Tutto quel che c´è è un indicatore di avanzamento, che dice che percentuale del libro si è già letta. Un´altra peculiarità è che non c´è equivalente dello sfogliare: le pagine dell´e-book si mostrano ciascuna per intero. Ciò lo rende curiosamente "lento" e renitente: scorrerlo è impossibile, come è impossibile sfogliarlo dall´inizio alla fine e viceversa. E suggerisce una sua occulta preferenza: se state leggendo Anna Karenina o Il Conte di Montecristo, scoprirete che per ripescare il nome di un personaggio secondario, o anche la grafia corretta del nome di uno importante, ci vorrà più tempo che se aveste sotto mano una versione di carta. Quindi, l´e-book sembra più portato a contenere testi poco popolati!
Infine, siccome gli e-reader possono connettersi a Internet, l´e-book concede una delle tante illusioni narcisistiche che dà la telematica: far sapere al mondo quali brani di un certo libro abbiamo sottolineato o annotato, e, in fondo, far sapere che esistiamo anche noi. L´e-book infatti permette, quando si sottolinea un brano (con un filino grafico quasi impercettibile) o ci si scrive accanto una nota (con una specie di fumetto), di mettere in rete sia la sottolineatura sia il palloncino. In questo modo, chiunque compri e legga quello stesso libro vedrà affiorare sulla sua copia l´indicazione del passo annotato e saprà perfino quanti altri lettori lo hanno annotato: avrà, insomma, una specie di auditel immediato del testo o del passo.
In pratica, in ciò il libro elettronico ritrova una sorta di "socialità digitale", somigliante a quella dei social forum e dei siti di chat. Una società che si chiama espressivamente Institute for the Future of the Book ha fatto un passo in più: ha diffuso un software gratuito (si chiama Commentpress) con cui si annotano testi di ogni tipo (anche blog), che permette ai lettori di vedere l´uno le osservazioni dell´altro, creando così una sorta di chat agganciata a singoli brani o all´intero libro. In questo modo (come spiega il sito dell´istituto), si «trasforma un documento in una conversazione».
Queste trovate segnalano una deriva importante: malgrado le forti differenze che ho indicato, l´e-book sta facendo sforzi eroici per emulare la meravigliosa versatilità del libro di carta. Il chat telematico agganciato al testo permette pur sempre di mettersi in contatto con altri, parlare del libro, annotare, commentare, "conversare": insomma, di rifare come si può una versione immateriale dei circoli e salotti di lettura. Questi trend suggeriscono che, qualunque forma abbia, il libro nasconde un´insopprimibile spinta alla socievolezza. Nel "modello classico della lettura" – come l´ha chiamato George Steiner (Una lettura ben fatta in Nessuna passione spenta, Garzanti) commentando la tela di Chardin Il filosofo che legge – il lettore dev´essere composto, solo e in silenzio. Ma quel modello funzionerà forse per i filosofi, ma non per i lettori "normali", meno che mai nella modernità ipermediatica. Anzi, è evidente che, sia coi libri di carta che con gli e-book, i lettori cercano pur sempre occasioni e risorse per scambiarsi e proporsi libri, per parlare di quel che hanno letto o vorrebbero leggere e anche per leggere insieme. Non sorprende che questi rituali siano ripresi tali e quali nei siti di discussione libraria così numerosi nella blogosfera.
Elettronico o di carta, quindi, per noi pari sono? No, una differenza c´è, ed è quasi un abisso: attorno a libri di carta si aggregano persone in carne e ossa, che parlano, ridono e hanno odore e peso; nei circoli di lettura digitali si incontrano invece digital personae senza corpo né massa, che non si vedono né si toccano; e che potrebbero anche essere avatar di secondo o terzo grado di chissà chi ..." (da Raffaele Simone, La nuova moda del social reading
, "La Repubblica", 06/11/'11)

Un fenomeno lanciato dalla Buchmesse di Francoforte (da "La Repubblica")

Quel gusto di leggere insieme nato nei salotti del Settecento (da "La Repubblica")

Soffiando via le nuvole



Courmayeur Noir InFestival

"«Si vedeva il sangue. Più scuro di come te lo aspettavi. Era per terra davanti a
Chiken Joe’s. Una roba assurda. Jordan: “Ti do un milione di sterline se lo tocchi”. Io: “Tu non ce l’hai un milione”. Jordan: “Allora una sterlina”. Veniva voglia di toccarlo ma non potevi avvicinarti. In mezzo c’era un nastro: POLIZIA - NON OLTREPASSARE. Se oltrepassi il limite diventi polvere».
E’ questo l’incipit di Soffiando via le nuvole (PIEMME), interessante romanzo d’esordio dell’inglese Stephen Kelman, classe 1976 e protagonista di una recente asta tra editori nel momento stesso in cui il suo manoscritto ha toccato la scrivania di un’agenzia letteraria: la Bbc ne ha già tratto un adattamento per la tivù, mentre Ridley Scott ne ha opzionato i diritti cinematografici.
E dire che tutto ciò è accaduto prima delle cosiddette rivolte londinesi e non, messe in atto dagli stessi teenager che popolano queste pagine. Già, perché la voce narrante del libro appartiene a un ragazzino di undici anni di nome Harri Opoku, originario del Ghana e trapiantato in Inghilterra insieme con la madre e con la sorella maggiore Lydia, mentre il resto della famiglia - la nonna, il padre e la
sorella minore Agnes - è rimasta in Africa. Harri vive in un caseggiato popolare di Dell Farm, ghetto ai margini meridionali di Londra simile a Hackney o Bromley o Tottenham, dove la violenza è banale storia di ogni giorno. Non è per niente
difficile imbattersi in vagabondi e ragazze-madri e piccoli delinquenti e alcolizzati e spacciatori, in un posto come Dell Farm. E allo stesso tempo è difficilissimo sottrarsi alla presenza della gang di giovanissimi, va da sé incappucciati, nata e cresciuta nella giungla d’asfalto del quartiere.
Calato nella nuova realtà, Harri deve imparare velocemente un mucchio di cose. Tra i
banchi di scuola, l’inglese e il razzismo. In strada, lo slang, i codici e le movenze, anche se rispetto ai coetanei venuti al mondo nei sobborghi della capitale mostra qualche ingenuità, come quando sulle scarpe sportive da quattro soldi disegna tre strisce col pennarello indelebile, così da trasformarle in un paio di Adidas. E’ l’omicidio di un ragazzo che frequenta la sua stessa scuola, quello con cui si apre il libro, simile nella dinamica a centinaia di altri avvenuti nel corso di questi ultimi anni in Inghilterra, a fare da detonatore alla storia: Harri, affascinato sia dai piccioni che gli fanno quotidianamente visita sul balcone di casa (un omaggio
al film Ghost Dog?) sia dall’aura di violenza emanata dai membri della gang del quartiere, è determinato ad assaggiare tutte le caramelle Haribo del mondo, si mette in testa con un amico di trasformarsi in detective e di scoprire il colpevole. Per lui è quasi un nuovo gioco, alla pari di quelli che ha appreso in Europa, così diversi dai giochi a cui era abituato in Africa e ispirati anch’essi alla violenza nella quale siamo calati anche solo in veste di spettatori: per esempio quello dell’attentatore suicida, che consiste nel lanciarsi a tutta velocità contro gli altri cercando di farli cadere a terra. Ma benché abbia risvolti a tratti comici, dovuti all’ingenuità del protagonista e del sodale, si tratta di un gioco pericoloso e gravido di conseguenze, che lo metterà di fronte a una scelta assai ardua e destinato a farlo crescere troppo in fretta, com’è normale che sia per chi cresce lontano dai privilegi e ai margini da tutto.
Ispirato alla storia vera di Damilola Taylor, un ragazzino nigeriano ammazzato davanti alla porta di casa in un complesso popolare di Peckham, altro ghetto londinese, Soffiando via le nuvole ha il pregio di raccontare in presa diretta i ragazzini che di recente hanno messo a ferro e fuoco i loro stessi quartieri in diverse città dell’Inghilterra mostrandone la perdita precoce dell’innocenza, il disorientamento e le paure. Peccato che, malgrado il notevole lavoro sul linguaggio fatto da Kelman, nato e cresciuto a sua volta nella città-satellite di Luton tra molti immigrati africani, certi giri di frase e certi concetti suonino poco realistici in bocca a un ragazzino di undici anni." (da Giuseppe Culicchia, Piccoli teppisti crescono. E incendiano l’Inghilterra, "La Stampa", "TuttoLibri", 05/11/'11)

Pigeon English by Stephen Kelman – review ("The Guardian")

sabato 5 novembre 2011

De Cataldo: “Sono malato di Comédie: merci Balzac”


"Nella casa di Giancarlo De Cataldo, giudice e scrittore, la collocazione dei libri risponde a un criterio geo-politico-familiare. Ci sono due librerie: «Quella nel mio studio, in cui nessun altro mette mano, divisa in due parti: libri volatili e libri che restano, consultati continuamente, dagli studi sul nazismo magico all’antropologia culturale, dalla filosofia alla storia delle religioni. Invece nel soggiorno c’è la libreria di famiglia, con i libri importanti. La gestisce mia moglie, avvocato, secondo il criterio “nome della rosa”, per aree geografiche».
La prima è agitata, la seconda ordinata. L’ultimo libro del padrone di casa, il saggio In giustizia (Rizzoli) potrebbe stare in entrambe. Nella prima per gli «appunti di lavoro presi strada facendo», nella seconda per le riflessioni sui temi di attualità. Una difesa appassionata e ragionata del ruolo del giudice. Tè affumicato e pasticcini al cacao sono posati su pile di libri che occupano l’intero tavolino di fronte al divano in pelle nera. La mattinata romana illumina le copertine. «Ne arrivano tanti, cerco di dare un’occhiata a tutti. Ma non sono mai come quelli comprati. I libri mandati dagli editori non possono sostituire il piacere di andare per librerie, di scoprire i titoli. Io vado dappertutto. Bibli, Rinascita quando c’era, Arion, le Feltrinelli Colonna e Argentina, la Mondadori a Cola di Rienzo. A Trastevere ero un habitué della Minimum Fax. Ho una passione per la piccola meravigliosa libreria artigianale “Il Seme” in via Monte Zebio, dietro piazza Mazzini. Mi piacciono le librerie di provincia, in cui i librai sono ancora un punto di riferimento».
Come seleziona i libri che arrivano? «Ho gusti eclettici. Mi piacciono molto i saggi con una forte valenza narrativa».
Saggistica pura? «Dipende. La speculazione pura mi affascina, i pamphlet non più di tanto, specialmente se a tesi. Basta la recensione».
Gusti stilistici? «Non amo il minimalismo, diffido delle furbizie che ormai riconosco. Il racconto deve essere vasto, abbondante, con conflitti e caratteri forti messi in scena. Mi sono innamorato del Passo del cordaio di Mimmo Gangemi, che considero una mia scoperta e ne vado orgoglioso».
I libri dei colleghi li legge? «Tra i romanzi c’è Carofiglio. Sono stato uno dei primi a leggere in bozze il suo esordio, Testimone inconsapevole. I suoi libri mi piacciono, anche se abbiamo scritture diverse. Siamo diversi. Penso alla visione della vita e dei rapporti uomo-donna. Ci muoviamo in aree narrative differenti».
E i saggi? «Non tutti. Ricordo Diario di un giudice di Dante Troisi, che negli Anni '50 passò guai disciplinari inenarrabili, perché entrava nella camera di consiglio e rompeva una separatezza, raccontando la sottile sofferenza che lega giudice e imputato: può sembrare retorica o buonismo, ma è compassione. Mi è piaciuto Ne valeva la pena di Armando Spataro: emerge una grande forza di difesa democratica. Mi ha fatto pensare che talvolta c’è una dicotomia inaccettabile tra come appari e come sei. A me sembra una persona equilibrata, ma lo attaccano considerandolo un pazzo. Talvolta dipende dal tipo di inchiesta che ti capita tra le mani, che risonanza mediatica ha ...».
I libri a sfondo giudiziario e le trasmissioni tv sui casi di cronaca hanno cambiato il vostro lavoro? «Ogni tanto capita che in camera di consiglio si alzi un giudice popolare dicendo: abbiamo fatto la prova del Dna? E magari in quel caso non serve.
Prezzi ineluttabili da pagare alla democrazia».
La invitano mai in tv? «L’unica volta che sono andato a parlare di giustizia, mi sono ritrovato a discutere di singoli casi con lo psicologo, la criminologa ...
Allora mi sono chiuso sulla difensiva. Fate pure, ma da soli. I delitti che appassionano l’opinione pubblica ci sono sempre stati. Oggi c’è la tv che ce li racconta in modo ossessivo, un secolo fa c’erano i feuilleton. E’ un moto spontaneo che non si può nascondere. Sono un libertario, ciascuno scelga per sé. Io ai plastici
in tv preferisco quella poltrona, un sigaro e un libro».
Ora che cosa sta leggendo? «Indigestione di gialli svedesi. Sto finendo la vecchia serie di Sjöwall e Wahlöö, quella degli Anni 70. Ho una passione particolare per quel modo di raccontare. Poi un saggio sulla storia giudiziaria di Ludwig in uscita
da Dalai, un true crime e l’ultimo romanzo di Scurati, La seconda mezzanotte, che mi è piaciuto moltissimo».
E il prossimo? «Guarda caso: è appena arrivato il nuovo di Carofiglio».
I libri sui casi di cui si occupa come giudice? «Dipende. I libri sulla Magliana
sì, quelli di Lupacchini e Bianconi sono fatti molto bene. I libri sul terrorismo anche. Quelli sul delitto Marta Russo no, non mi hanno incuriosito».
La casa piena di libri testimonia un lungo amore, un’infatuazione recente o una deformazione professionale? «Sono sempre stato un malato di lettura, grazie ai miei genitori professori. In casa si respiravano libri. Mia madre studi classici,
tradizionalista, mio padre appassionato di avventura, mi ha passato Salgari, il mio primo grande amore. E quando ero un po’ snob, mi suggerì Come una bestia feroce di Edward Bunker, che in Italia non era ancora conosciuto, perché dentro quella letteratura aspra, acida, di strada c’era la vita, mi diceva. A mio padre devo anche Balzac, Flaubert, la grande letteratura dell’Ottocento».
E il giovane snob De Cataldo che cosa leggeva? «Avanguardia. Gruppo ‘63. Poeti
americani. E rocker. Questa passione per i testi del rock mi è rimasta. Ho tradotto le poesie di Leonard Cohen».
Poesie, ne ha mai scritte? «No. Lo giuro: mi proclamo innocente».
I pilastri della formazione giuridica? «All’università ero affascinato dal diritto romano, alla Sapienza c’erano le dispense di Riccardo Orestano. Poi le Nozioni di teoria generale del diritto di Francesco Santoro Passarelli, grandi testi che andrebbero scolpiti nella testa degli studenti di giurisprudenza. Più cresce il sapere tecnico tanto meno si studia il senso della norma. Alleviamo giovani tecnicamente preparatissimi, madesolatamente incapaci di fare due più due. Infine la procedura penale di Franco Cordero, che ammiro molto in quanto uomo rinascimentale:
romanziere, giurista, saggista, polemista. Mi piace l’idea di giocare su più tavoli».
Saggi «non volatili»? «Tra le mie fonti irrinunciabili c’è Vita di Giuseppe Garibaldi di Jessie White Mario, seconda edizione del 1891, e una rara edizione
dell’Uomo delinquente di Lombroso con le tavole originali e le statistiche su nasi e tette delle delinquenti».
Non mi dica che consiglia Lombroso a un aspirante magistrato. «Anche per i suoi tempi era per lo meno azzardato. Ma lo consiglierei ugualmente per due ragioni: l’attenzione all’uomo delinquente che non deve mai venire meno e la curiosità di indagare scientificamente».
E i romanzi «non volatili»? «Delitto e castigo, che è uno dei livre de chevet. Porfirij Petrovic era il mio idolo da ragazzo: intelligente, capace di usare il delitto per indagare la complessità umana, qualcosa di maledettamente complesso e affascinante. Dostoevskij passava la vita in tribunale. In Diario di uno scrittore ci sono pagine bellissime. Resurrezione di Tolstoj, che nasce da un fatto vero. E infine il grande dittico di Balzac: Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane con la straordinaria figura del giudice Camusot, contraltare di Lucien de Rubempré. Il fascino dell’imputato: altro che i plastici del delitto in tv. Io sono malato di commedia umana, devo tutto a Balzac. L’idea della coralità dei personaggi che scompaiono e riappaiono, i tipi umani ... per me sono tutto».
Il libro che non è mai riuscito a finire? «La recherche. Rivendico il diritto a non amare Proust: amo Joyce, Kafka, Mann, ma per la miseria! Non sono mai riuscito ad andare oltre la quarantesima volta che lui si rigira tra le lenzuola aspettando il bacio della madre».
Come mai non c’è un Calamandrei al contrario, un giudice che scriva l’elogio degli avvocati? «Buona idea, potrei cominciare a pensarci»." (da Giuseppe Salavaggiulo, “Sono malato di Comédie: merci Balzac”, "La Stampa", "TuttoLibri", 05/11/'11)