venerdì 18 luglio 2008

Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff


"Due donne negli stessi anni leggono lo stesso libro, l'Iliade. Fatto di per sé interessante, osserva Laura Sanò nel suo bel libro Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici). E' così: in un libro, l'Iliade, che non cancella, ma accompagna l'altro, la Bibbia, Simone Weil e Rachel Bespaloff, trovano la luce per comprendere le tenebre dei loro giorni. Due donne, entrambe ebree, entrambi esuli, entrambe destinate a una morte precoce, entrambe in procinto di lasciare l'Europa, fissano lo sguardo su un testo che è all'inizio della civiltà e tradizione in cui le donne si riconoscono: la coincidenza, ripeto, non può passare inosservata. E la nota difatti l'amico caro Jean Wahl nella prefazione a De l'Iliade, che viene pubblicato in francese a New York nel 1943. Nel 1947 appare la traduzione in lingua inglese On the Iliad, ad opera di Mary McCarthy, con introduzione di Herman Broch. In italiano il testo esce per Città aperta Edizioni nel 2004. Simone Weil e Rachel Bespaloff non si conoscono. Ma si sfiorano più volte. Nella primavera del 1938 Rachel viene a curarsi nella stessa clinica svizzera per malattie nervose, dove l'anno precedente era stata ricoverata Simone. A Ginevra entrambe sostano a lungo a una mostra di Goya. Negli stessi giorni del maggio 1942 sono entrambe a Marsiglia in attesa di un visto per fuggire dalla Gestapo, e dunque dall'Europa, direzione New York, dove giungono nella medesima estate. [...] Ma se la guerra distrugge ciò che tocca, al tempo stesso restituisce alla vita che divora un'importanza suprema: questo la poesia di Omero dimostra. Nella poesia di Omero si risolvono e pacificano i contrasti. E' la poesia di Omero a trasportarci altrove, in quei momenti di smarrimento in cui avvengono le scelte morali e religiose, anche quando siano dettate dal destino, e perciò inevitabili; quei momenti, o quelle svolte della vita, quelle crisi, in cui quell'uomo incotra se stesso, anche quando la decisione sia imposta. E' in quello spazio di interiorità, in quell'istante che si manifesta per tutti e ciascuno il segreto dell'esistenza. A sorprendere questo segreto è la poesia, per Rachel: una poesia che abbia, come quella omerica, come quella biblica, la suprema facoltà di ricostituire quel cuore umano. Per Simone, era l'amore, ricordate? L'amore di Dio, naturalmente; l'amore che l'uomo prova per Dio. E di Dio per lui. Mentre per Rachel è poesia. In quanto 'la poesia rapisce alla bellezza il segreto della giustizia vietato alla Storia'. Come ho detto, Rachel non tornò dall'esilio americano. In un certo senso Rachel era Ettore: provava affetti di un'esigenza terribile che le si imponevano come a Ettore la patria; sentiva responsabilità che la legavano al paese in cui l'esilio le si confermò come un destino - 'cronico' lo definì. 'Vivere qui' disse ' è come un'amputazione'. 'La guerra vista da qui non ha realtà'. Ma la guerra dovè viverla dentro di sé, e la violenza l'assaporò fino in fondo, quando all'età di 55 anni si suicidò. Sigillò bene le porte e le finstre e aprì il gas. Quanto a Simone, lei era Achille. Tornò in Europa e fino alla fine dei suoi giorni non pensò ad altro, se non a come combattere l'infamia nazista. La morte le giunse per fame. Nel chiasmo della violenza, il cui cuore di tenebra entrambe avevano illuminato, le loro esistenze alla fine si strinsero. Perché 'se uccidere è sempre uccidersi', non vale anche il contrario?" (da Nadia Fusini, In esilio con Omero, "La Repubblica", 18/07/'08)

mercoledì 16 luglio 2008

Michele Serra: "Cultura, il Belpaese si butta via"


"Nonostante la retorica, di lunga data, sull'Italia primo Paese al mondo per le risorse artistiche e i 'giacimenti culturali', le statistiche ci consegnano un ritratto abbastanza spietato dello stato della cultura nazionale. Con l'eccezione del solito (e benemerito) design, prestigiosa foglia di fico, navighiamo nelle retrovie europee per quantità e qualità delle spese culturali e, di conseguenza, dei consumi culturali. Siamo solo diciassettesimi per investimenti nella ricerca e sviluppo - e questo è un dato squisitamente politico. Ma soprattutto nonostante si detenga il primo patrimonio artistico e culturale del pianeta, lo valorizziamo così poco, e così male, che i nostri musei e gallerie d'arte non sono tra i più visitati del mondo (primo il Louvre, secondo il Centre Pompidou: poi si dice che uno è francofilo ...). Bisogna scendere al settimo posto per trovare i Musei Vaticani - grazie alla Cappella Sistina - gli Uffizi sono al ventunesimo, la mostra italiana di maggiore successo è solo ottantaseiesima. La spesa culturale media di una famiglia italiana, a parità di reddito, è la metà di quella di una famiglia inglese: sei per cento contro dodici. Un altro dato, apparentemente 'minore', apre un possibile spiraglio per interpretare questo declino. Il mecenatismo privato in Italia è spropositatamente sbilanciato in favore dle calcio, che attira la gran parte degli sforzi auto-promozionali dei nostri ricconi. Legare il rpoprio nome o il proprio marchio al pallone è considerato, da noi, il modo più efficace per acquisire popolarità (e anche rendita politica). All'estero, le sponsorizzazioni artistiche assorbono enormi quantità di denaro privato, e sono considerati una eccellente forma di pubblicità. Difficile dire se sia la domanda oppure l'offerta a determinare questa differenza. Se cioè sia una classe dirigente già di suo incolta a diffidare degli investimenti culturali, oppure se sia una popolazione di bassa istruzione media (tra le più basse d'Europa, nonostante il diffuso benessere) a favorire questa vistosa dequalificazione. Certo è che la cultura in genere continua a essere considerata una sorta di 'lusso', di spesa voluttuaria che non fa parte del 'paniere' delle strette necessità; e non una risorsa. Risorsa economica, come dovrebbe essere ovvio in un Paese che viene visitato soprattutto per la qualità unica dei suoi paesaggi antropizzati, dei suoi sky-line pittorici, dei suoi borghi, chiese, castelli, centri storici, musei. Ma anche risorsa sociale, poiché non esiste voce che non concordi nel considerare la cultura media di una società come una della garanzie della sua crescita complessiva: economica, sociale, civile. Da parecchi anni in questo Paese si tagliano per prime le spese per la cultura e la ricerca come se fossero foglie da cimare, e non già le radici dalle quali ogni crescita riprende abbrivio. Nei bilanci pubblici si valutano 'in rosso' quegli investimenti culturali i cui frutti sono spesso impalpabili a breve, ma vigorosi a lungo termine: che prezzo abbiano la conoscenza, il gusto per la bellezza, il senso critico nessuno può stimarlo in denaro. Le piccole folle migranti che affollano i festival estivi, il piccolo ma significativo passo in avanti del cinema e del teatro, il successo quasi mai atteso di libri o film non di grana grossa ma di forte caratura culturale, dimostrano che esiste nel Paese una forte e qualificata domanda di cultura. Domanda 'politica' per eccellenza, perché si contrappone all'idea (televisiva: dirlo è banale ma è anche inevitabile) che la cultura sia 'difficile', elitaria, per pochi privilegiati. Quando invece è pane e richiederebbe per la sua confezione, la sua cura, il suo commercio, un sistema vivo e capillare. Per evitare il vecchio paradosso 'l'Italia è un Paese povero abitato da ricchi', se ne affianchi un altro: l'Italia è un Paese colto abitato da ignoranti." (da Michele Serra, Cultura, il Belpaese si butta via, "La Repubblica", 16/07/'08)

lunedì 14 luglio 2008

Intellettuali e antisemiti


"A emettere il primo acuto è "Il Giornale d'Italia". Lì, il 14 luglio 1938 (sotto la data del 15 trattandosi di un quotidiano della sera) appare un manifesto intitolato Il fascismo e i problemi della razza, attribuito a 'un gruppo di studiosi fascisti', di cui non si fanno i nomi. Il testo, diviso in dieci punti, culmina in una rivendicazione della purezza razziale degli italiani e denuncia il rischio che il loro sangue venga contaminato dall'incrocio con ceppi extraeuropei, portatori di varietà biologiche diverse da quella ariana. Il punto 9 del manifesto porta un titolo rivelatore: 'Gli ebrei non appartengono alla razza italiana'. Solo il 26 luglio, il Partito nazionale fascista rivela le generalità degli autori del manifesto. Tra i quali i più celebri sono il patologo Nicola Pende, il biologo Sabato Visco e lo psichiatra Arturo Donaggio. Si informa che gli estensori del documento, redatto sotto l'egida del Ministero della Cultura popolare, sono stati ricevuti dal segretario del Partito, Achille Starace. Poco più tardi Pende e Visco protestano, sostenendo che il testo originale è stato 'rimaneggiato'. Ma ben presto tacciono. Chi non tacque affatto, fin dal principio, furono gli intellettuali 'militanti' - letterati, storici, giornalisti - quasi che l'avvio ufficiale della campagna antisemita rientrasse nei loro più fervidi voti. L'acuto risuonato sulle colonne di "Il Giornale d'Italia" diventò così un coro. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come "La Vita italiana" di Giovanni Preziosi, "Il Quadrivio" o "Il Tevere" di Telesio interlandi, "Il regime fascista" di Farinacci, ma anche i quotidiani meno etichettati aderirono alla nuova missione. E per un certo numero di scrittori l'antisemitismo rappresentò una palestra per esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici. Fu proprio Interlandi a proclamare su "La difesa della razza", fin dai primi giorni dell'agosto 1938, che la campagna antisemita mirava alla 'liberazione dell'Italia dai caratteri remissivi' che le erano 'stati imposti dalle precedenti classi politiche'. Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e 'rivoluzionari'? In un saggio pubblicato in quattro puntate nella rivista "Il Ponte" fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa avrebbe poi offerto una nutrita antologia di scritti di chiara obbedienza razzistica. Altrettanto ricca in questo senso è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo de Felice. Si tratta di una documentazione inquietante. Per questo genere di letteratura, il 1938 è un anno privilegiato. Esce un trattato di Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario. Vi si sostiene 'l'identità ebraismo=comunismo', binomio al quale si oppone con i fatti 'l'asse Roma-Berlino': l'Italia, specifica l'autore, sta combattendo 'in terra di Spagna non l'iberico nemico, ma la terz ainternazionale ebraica, quella creata dall'ingegno giudaico-massonico del Komintern'. Gli fanno eco, tra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D'Andrea. Critici delle più varie discipline denunziano, intanto, i danni che l'ebraismo infligge alla creazione artistica. In agosto un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce la musica moderna 'un vero e proprio monopolio della razza ebraica'. Il critico letterario Francesco Biondolillo cerca di dimostrare che 'il pericolo maggiore è nella narrativa'. Qui, 'da Svevo, ebreo di tre cotte, a Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti'. Moravia non era nuovo a simili attacchi. Già nel 1931, in visita a Giovanni Papini, era stato da lui accolto con le parole: 'Lei collabora con la rivista "Solaria". I solariani sono zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose'. Era una frase almeno in parte inesatta, avrebbe poi commentato il romanziere. Essa rientrava comunque nello stile dello scrittore fiorentino il cui romanzo Gog, edito proprio nel '31, si ispirava al più schietto antisemitismo. [...]" (da Nello Ajello, Intellettuali e antisemiti, "La Repubblica", 14/07/'08)

domenica 13 luglio 2008

La libreria sull'isola: sulle terre aride ogni cosa che fiorisce è un miracolo


"In fondo alla strada, ma proprio in fondo dove i turisti del trekking che vengono a passeggiare sul vulcano non arrivano mai, in fondo alla discesa che quando la vedi lasci perdere perché ti immagini il ritorno in salita sotto quel sole, meglio tagliare a destra per il mare. Ecco, laggiù in fondo c'è la libreria. E' piccola piccola, poco più di trenta metri quadrati. E' tutta verticale, con una scala di legno chiaro che porta al piano di sopra, lungo i gradini qualche bel libro in lingua originale, un po' di teatro inglese, un po' di filosofia in tedesco, qualche romanzo in spagnolo, in francese e certo in russo. La storia della libreria di Stromboli (che si chiama La libreria sull'isola e bisogna andarla a cercare fuori dalle rotte delle gite di un giorno, appunto, bisogna camminare in salita e poi in discesa verso l'antico borgo di Piscità, quello dove viveva Ingrid Bergman nel film) è la storia di Chiara, la libraia, ed è una storia che va bene per tutti, anche per chi fino a quel rettangolo di gelsi e libri non arriverà mai, perché parla di passione e di costanza, di illusioni che diventano realtà, parla del fatto che a volerlo ma volerlo davvero quel che di bello si riesce a immaginare alla fine si realizza. Magari tardi, magari poco, magari diverso dal previsto, ma si realizza. Chiara è una ragazza di quarant'anni con un'aria da adolescente magra, lunghi capelli, pelle scura di sole. A Prato, la sua città, era dipendente comunale. Un posto sicuro, tutto il tempo per occuparsi del resto. Quattordici anni fa è partita. 'Ho sempre pensato che il mio posto fosse tra i libri. Mi è successo di conoscere una persona che mi ha portato qui. Non c'era niente, quasi niente. Ho detto: ecco, farò la mia libreria'. In questo pezzo di terra nero dove il vulcano ogni quindici minuti tuona, dove le macchine non esistono. Chiara parte ogni primavera con il suo furgoncino, va in continente, lo riempie di due o tremila libri, torna col traghetto e fino a ottobre sta in negozio. Lei da sola perché soldi per pagare dipendenti non ne ha. I titoli sono quelli che piacciono a lei. Fuori, sotto il tavolino del giardinetto d'ingresso, una gatta allatta i suoi cuccioli. I clienti si fermano a parlare fino a tardi. [... ] 'No, con la libreria non ci guadagno. Sono tredici anni che vado avanti, però, e se dovessi lasciare credo che sarei nelle condizioni, ormai, di lasciarla nelle mani di qualcun altro. Qualcuno dell'isola, certo. Non guadagno perché la stagione è breve, però non ci rimetto. Non posso far sconti sui libri ma gli isolani lo capiscono e vengono lo stesso: è un servizio, un modo per fare due parole, un contatto che si stabilisce. E' molto gratificante, davvero. Attraverso l'internet point ho stabilito relazioni, a volte mute, con persone che per mesi sono venute qui tutti i giorni: gente che arriva a studiare, a scrivere, entrano e ci diciamo buonasera, prego, certo, ecco. Quando ripartono mi sembra di consocerli come se avessimo vissuto nella stessa casa. Questa è una terra arida, ogni cosa che fiorisce è un miracolo e non sai mai quanto possa durare. C'è il vulcano a ricordarti che tutto è effimero, tutto può sparire in un minuto. Ma d'altra parte è così per tutti, nella vita. Anche senza isole, né vulcani, perciò vede, non è niente di eccezionale: è solo che qui si capisce meglio." (da Concita De Gregorio, Sul vulcano c'è una libreria, "LaRepubblicaDelleDonne", 12/07/'08)

sabato 12 luglio 2008

Golden gate di Vikram Seth


"Un libro sorpresa, e un regalo per il lettore che vuole calarsi in un'atmosfera diversa, scoprire un nuovo linguaggio, lasciarsi stupire. sono trecentodiciassette pagine, ma trecentodiciassette pagine in versi, organizzate in 590 sonetti, scritte sotto l'urgenza e il divertimento di testimoniare e far rivivere in forma inusuale un mondo, un'atmosfera, un momento della storia, quando tutto sembrava ancora possibile. Era il 1984 e Vikram Seth, il giovane indiano di Calcutta approdato in America, colui che sarebbe diventato il fortunato autore di Il ragazzo giusto (TEA) e più recentemente di Due vite (Longanesi), aveva appena abbandonato la sua progettata carriera di economista, aveva appena cominciato la sua carriera di scrittore con Autostop per l'Hymalaya, ed era appena stato premiato con il Thomas Cook Travel Award quando, folgorato dalla lettura di Evgenij Onegin, decise di abbandonare una strada che sembrava sicura per scrivere un romanzo in versi, sulla scia di Puskin. Lo sfondo del libro/romanzo/poema è la Bay Area, il mondo attorno a San Francisco, nell'area reaganina, con i bagliori di Silicon Valley e della cultura yuppie ma anche con la rinfrancante presenza delle università - Stanford, Berkeley - il Caffè Trieste, Sonoma Valley, Telegraph Hill, il Golden Gate del titolo, tutta la mitologia di una città meravigliosa su cui si abbatteranno negli anni a venire la tragedia di un terremoto e il dramma dell'Aids, e che allora, nel 1984, è ancora sospesa nella stupenda ingannevole fase di una grande libertà di vita. Nei suoi versi - avventurosamente e audacemente tradotti da tre scrittori, luca dresda, Christian Raimo e Veronica Raimo, qualche volta con l'avvertibile affanno di far tornare i conti di ritmo a assonanze, ma alla fine sempre restituendo l'appassionata e ironica atmosfera del testo originale - Seth intreccia la storia dell'antipatico (a me) e poco passionale yuppie, John, del ragazzo padre Phil che porta orgogliosamente la sua bisessualità, della franca e leale Jan, l'artista, dell'avvocatessa pacifista Liz, costruendo un ritratto di città che è anche una saga familiare e una cronaca del passare del tempo e dei costumi - tutto condotto con sapienza, humour, capacità di cogliere con leggerezza apparente lo Zeitgeist di quegli anni, compresa la nascente angoscia per il destino del pianeta, la paura ecologica il coming out omosessuale (e ci sono sonetti e versi bellissimi sul desiderio e l'amore di ogni tipo). Scrivere un lungo romanzo in versi (come per altro hanno fatto più recentemente anche dei bravi autori di casa nostra) può sembrare un'impresa folle e una sfida alle abitudini del pubblico. Ma superata la prima dozzina di sonetti e il senso di sconcerto iniziale, il lettore è trascinato nel meccanismo narrativo e nel ritmo dei versi, catturato dal piacere affabulatorio di Seth, sedotto dai momenti lirici toccanti del suo affresco sanfranciscano. Accanto dunque a brani alti e toccanti ('Sono anche i morti offesi da rimorso / dolore e angoscia? Noi che viviamo / aggrappati ai feticci di un discorso interrotto, del passato, perdoniamo / chi ci ha negato la sua presenza / morendo, chi ha riversato l'assenza / l'abbattimento, nella nostra storia'), ci sono descrizioni come quella di Liz ('Ventisett'anni, donna molto schietta, formosa, in un certo senso quadrata. / Dell'amore non conosce la ricetta, / o, diciamo, non l'ha ancora trovata'), dialoghi speziati, 'a parte' umoristici. Un piccolo stupore, un grande piacere." (da Irene Bignardi, San Francisco, una città in versi, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 12/07/'08)

venerdì 11 luglio 2008

La storia della rana ballerina di Quentin Blake


"C'è una mamma, c'è una bambina desiderosa di ascoltare una storia e c'è il lettore che diventa a sua volta ascoltatore, quasi una presenza invisibile nella stanza della piccola Jo e della madre a carpire l'intimità di una narrazione serale. Il racconto nel racconto è la storia della prozia Gertrude che, rimasta vedova, ritrova la gioia di vivere grazie all'amicizia di una rana dal talento ballerino. Un'esibizione al teatro locale, poi la fortuna quando 'al cane parlante era venuto il mal di gola e gli impresari erano alla disperata ricerca di un sostituto'. La rana, con un repertorio che spazierà dal folk al balletto classico, al musical, calcherà le ribalte dei teatri più famosi del mondo. A nulla varrà la nuova proposta di matrimonio di un compostissimo lord inglese a Gertrude che, consapevole comunque dell'aleatorietà del successo, preferirà la sua vita itinerante con l'anfibio George. Storia semplice che diventa una piccola perla grazie al genio narrativo di Quentin Blake, l'ilustratore inglese legato all'opera di Roald Dahl da una 'speciale alchimia' e che ha dato volto ai suoi indimenticabili personaggi: il GGG, Matilda, Charlie, gli Sporcelli. Amato in tutto il mondo per la padronanza del disegno dal tratto 'veloce', con le figure che smebrano sempre schizzi, e per quel suo acuto spirito di osservazione tradotto con inesauribile humor, Blake realizza in questo album (La storia della rana ballerina, Interlinea) una 'totalità dinamica'. La parte narrata riprende la poetica delle sue illustrazioni per cui non bisogna 'fermarsi troppo su quelle parti del testo dove l'immaginazione del lettore è già stimolata'. E' essenziale, fatta solo di discorsi diretti e procede simile a un serrato contrappunto a quella illustrata. I due linguaggi, scritto e figurato, diventano così l'uno necessario all'altro permettendo al lettore di entrare pienamente nel ritmo emozionale di questa storia avventurosa, divertente ma che non censura affatto il dolore e la perdita. Blake con i suoi giochi di luci e ombre ad acquerello, pone prima il lettore di fronte a tutta l'angoscia di Gertrude che, perso il marito, 'non riusciva più a trovare una ragione di vita', poi con un guizzo di rana smeraldino, lo spinge a voltar pagina scoprendo un futuro ancora aperto alle sorprese." (da Elena Baroncini, Al ballo con la ranocchia, "Il Sole 24 Ore Domenica", 06/07/'08)
"A free hand" (da GuardianBooks)

Proust and the Squid. The Story and Science of the Reading Brain di Maryanne Wolf


"'Non siamo nati per leggere. Gli esseri umani hanno inventato la lettura solo pochi secoli fa. E con questa invenzione abbiamo riorganizzato il nostro cervello, abbiamo espanso il modo in cui siamo capaci di pensare , e ciò ha alterato l'evoluzione intellettuale della nostra specie'. E' l'incipit - con la nostra libera traduzione - di uno dei saggi più importanti e interessanti apparsi negli ultimi anni. Non sappiamo se verrà tradotto da un editore italiano; ma ci permettiamo di consigliarlo vivamente. Stiamo parlando di un libro di Maryanne Wolf, che insegna Psicologia evolutiva all'Università Tufts, negli Stati Uniti. Si intitola Proust e il calamaro (il riferimento è alle riflessioni di Proust sulla lettura giovanile e all'utilizzo scientifico dei calamari nelle ricerche biologiche). Si tratta di un testo scientifico che analizza come la mente umana si è modificata acquisendo la capacità di leggere. Si parla a lungo di particolari disturbi della lettura, come la dislessia, per raccontare come funziona 'la mente che legge'. Leggere non è naturale; è anzi una sorta di miracolo. E dopo secoli di progressivo affinamento della capacità di lettura, il cervello umano comincia a mostrare sempre più fatica a compiere quest'atto. E' un argomento che è stato trattato anche dalla rivista "The Atlantic" da Nicholas Carr (e la rivista "Internazionale", benemerita, lo ha ripreso integralmente dedicandogli la copertina del numero in edicola). Ma la tesi sulla quale si insiste è un po' forzata. 'Google ci rende stupidi?' titola la rivista. Il punto non è se il web ci rende più o meno intelligenti. E' che con le nuove tecnologie ci sono (già) imposti modelli di apprendimento molto diversi da quelli precedenti. E questo ha comportato che una crescente quantità di persone, pur istruite, non riesce più a leggere con profitto un libro, ma nemmeno un lungo articolo: la nostra soglia di attenzione si sta infiacchendo. Attenzione, ammoniscono gli studiosi: a lungo andare, perdendo la capacità di lettura profonda (affrontare e saper indagare un testo lungo come un romanzo o un saggio), si perde anche la capacità di pensiero profondo. Non spetta a noi stabilire chi abbia ragione. Di certo non siamo solo quello che leggiamo, ma anche come lo leggiamo. E di sicuro la tecnologia ha sempre cambiato i comportamenti umani. Dalla tavoletta, al foglio, alla stampa, alla biro, al computer: anche il nostro rapporto con i libri cambierà in futuro. Non bisogna avere paura. Magari la lettura diventerà un privilegio di nicchia. Ma per il futuro della letteratura e della narrazione siamo più ottimisti. L'uomo si racconta storie da millenni, da prima che imparasse a leggere. Siamo fatti della materia dei sogni, diceva qualcuno. Avremo sempre bisogno di chiederci: e poi come va a finire? E di farci raccontare un'altra storia e un'altra storia ancora ..." (da Stefano Salis, In futuro sapremo leggere?, "Il Sole 24 Ore Domenica", 06/07/'08)

giovedì 10 luglio 2008

Sam Savage: "Quel topo sono io. La vera storia di Firmino"


"Ormai tutti conoscono o hanno sentito parlare di Firmino. Firmino il 'parassita metropolitano'. Firmino il topo di biblioteca (in senso letterale). Firmino il divoratore di libri (in senso anche letterale). Firmino il topo malinconico. Firmino il topo in testa alle classifiche librarie con il libro edito da Einaudi che porta il suo nome. Nessuno ha mai visto il suo inventore, Sam Savage, lo scrittore che ha debuttato a sessant'anni con quello che è diventato un successo mondiale: lunga barba, e a giudicare dalla sola fotografia circolante, aspetto emaciato, stile vetero-hippy, recluso e misterioso. Ma gentile. Tanto che dal cyberspazio dell'e-mail, e dal lontano Massachusetts dove si è rintanato, ha avuto la cortesia di raccontarsi in esclusiva per noi. Firmino, dunque, è andato ad aggiungersi a una dinastia di topi celebri, da Topolino a Fievel, da Maus a Geronimo Stilton ... 'Quando ho cominciato a scrivere il mio libro, non sapevo che la voce narrante sarebbe stata quella di un topo. Potevo sentirla chiaramente - sentimentale, fatua, romantica, autodenigratoria, disperata - ma non sapevo che era la voce di un topo. Quello è arrivato dopo. Un topo è la metafora ideale per l'esilio sociale, qualsiasi ne sia il motivo. Questa metafora permette al romanzo di funzionare come allegoria, dandogli una dimensione simbolica, al di là della normale dimensione narrativa. I topi fanno parte della società umana, sono ovunque in mezzo a noi, eppure sono tra le creature più disprezzate. Gli attribuiamo tutti i tratti che non amiamo negli umani - sono avidi, cattivi, sporchi. Firmino è diverso dagli altri topi famosi perché vuole essere un umano. E questo è ciò che tutti noi, suppongo, vogliamo maggiormente nel più profondo del nostro cuore topesco'. [...] Come Firmino lei ha ovviamente una grande passione per i libri. 'Sono nato nelle campagne del sud degli Stati Uniti, in una famiglia molto colta. Mio padre era un naturalista e uno storico dilettante. Mia madre aveva una grande passione per la letteratura e una conoscenza della narrativa del passato pari a quella di qualsiasi professore d'università. Da lei ho ereditato l'amore per la letteratura che non mi ha mai abbandonato e mi ha sostenuto nei momenti peggiori'. L'insaziabile 'orgia' di Firmino - che 'divora' instancabilmente libri da Oliver Twist a L'amante di Lady Chatterley, da Il grande Gatsby a Furore, con eguale goduria, coincide con la sua orgia personale? 'Se dovessi stendere la mia lista, comprenderebbe i titoli citati da Firmino, ma sarebbe molto più lunga. Mi piacciono i libri che mi sorprendono. E i libri sorprendenti che sono apparsi dopo i tempi di Firmino comprenderebbero Il tamburo di latta, L'insostenibile leggerezza dell'essere, L'amante di Marguerite Duras, Mattatoio 5 - giusto per citare solo alcuni titoli'. La letteratura per lei è come la descrive Firmino - una sorta di finestra 'attraverso al quale puoi scoprire mondi che non sono il tuo'? 'La penso esattamente come Firmino'. Anche nel caso di Finnegans Wake di James Joyce, 'il capolavoro letterario meno letto' della storia? 'Penso che sia l'opera più sorprendente mai prodotta da una mente umana. Ma, ne sono sicuro, è intraducibile. Ed è impossibile capirla fino in fondo. Il lettore la percorre come un visitatore che erra nei corridoi di un favolosos museo della lingua. Spesso è anche, vorrei aggiungere, molto divertente. Forse, dunque, più che un museo è un circo'. Firmino dice anche che tutti i libri hanno un sapore e che Jane Eyre ha il sapore della lattuga. 'E qui dissento. Jane Eyre ha la fama, immeritata, di essere un libro per signorine, senza sapori forti, come la lattuga. Firmino condivide l'opinione generale. Io no'. Firmino non capisce che i romanzi non raccontano la 'vera' storia del mondo, confonde Storia e storie. Oppure lei pensa che i libri possono cambiare la storia del mondo quanto i personaggi reali? 'Il mondo non è cambiato solo da quello che la gente fa ma anche da quello che le persone pensano e immaginano, da ciò che sono 'capaci' di immaginare'. [...]" (da Irene Bignardi, Quel topo sono io. La vera storia di Firmino, "La Repubblica", 09/07/'08)

mercoledì 9 luglio 2008

I grandi registi della storia del cinema di Goffredo Fofi


"Non è totalmente nuovo, I grandi registi della storia del cinema (Donzelli): il suo autore, Goffredo Fofi, aveva già dedicato all’argomento nel 1995, sempre per Donzelli, Come in uno specchio, di cui questo libro costituisce in qualche modo una versione riveduta e ampliata. Ingrandendosi vieppiù, il progetto di Fofi muta da catalogo di preferenze personali a rassegna meditata, se non esaustiva, dei registi che più hanno contribuito a dare al cinema dignità paragonabile alla letteratura o alle altre arti. Delle tante voci inedite, alcune testimoniano di come il giudizio di Fofi si sia evoluto: De Sica, ad esempio, che nel pamphlet del ‘71 Il cinema italiano: servi e padroni (Feltrinelli) era spietatamente assegnato - col suo sodale Zavattini - al capitolo 'La destra', viene ora incluso tra i massimi della settima arte. Nulla d’insondabile, in tempi di fermenti epocali il Fofi - allora assai attivo sulle pagine dei "Quaderni piacentini" e di "Ombre rosse" - considerava il cinema quale strumento d'una battaglia politica e culturale di vasto raggio; oggi, egli constata con amarezza che 'la logica della merce ha finito per dominare gli autori, i critici e il pubblico in un circuito unitario, quasi senza crepe, che vede queste entità indifferenziate, accomunate in un medesimo conformismo'. Non rimane, quindi, che ripercorrere un secolo abbondante di storia del cinema facendo il punto su quanti sembrano aver dato ad esso 'maggior dignità e maggior luce, avergli portato qualcosa che prima non c’era - una sensibilità o un modo di narrare o un’ambizione più radicali'. Spiccano non a caso, fra le new entries, i nomi di cineasti non allineati o comunque difficilmente incasellabili quali Tsai Ming-liang, David Cronenberg, David Lynch, Aki Kaurismaki: solo da opzioni oblique, sghembe, sovente surreali pare possibile inquadrare il presente in modi non ossequienti ai codici che imperano e ogni cosa controllano. Sfumata la necessità di una critica 'militante', lo sguardo di Fofi è ormai quello dello storico che si sforza di individuare il contributo delle singole personalità: salvo dedicare taluni capitoli ad argomenti specifici - le nouvelles vagues, ad esempio - che aiutano a comporre un efficace quadro d'assieme. Resta, pur nel pessimismo estremo sul presente ('il cinema è morto con la crisi del cinema di sala, con la fine del pubblico popolare'), la specificità della scrittura fofiana: il rapporto fra gli autori, le opere, il periodo in cui appaiono è tracciato con particolare attenzione, mentre la predilezione ben nota per la 'tendenziosità' fa capolino più di una volta (si veda, ad esempio, l’inserimento di Ciprì e Maresco). Di lettura godibile, a tratti appassionante, il libro è un’accidentata quanto rigorosa scorribanda proposta da uno tra i nostri intellettuali più curiosi e meno prevedibili." (da Francesco Troiano, Morto il cinema restano i registi, "TuttoLibri", "La Stampa", 05/07/'08)

lunedì 7 luglio 2008

Brezze e amori quasi congelati: Debora Eisenberg, Penelope Fitzgerald, Christina Stead, Elizabeth Von Arnim


"Sigmund Freud, dio l'abbia in gloria, nel saggio sul Motto di spirito dedica molte pagine al risparmio energetico: quello, di natura psichica, che si produrrebbe dopo un witz, un'arguzia, un'ironia, sia essa tendenziosa o innocente. Detta un po' in soldoni, l'ironia sarebbe una fredda operazione di stanziamento linguistico dall'oggetto che si vuole criticare, demistificare, vedere da vicino, che ci permette, però, di liberare energie represse, insieme al calore di una risata. Le quattro scrittrici che 'caldeggiamo' di leggere quest'estate, conoscono bene questa dialettica. E l'ironia. Magari quella prodotta a denti stretti, poco per celia, molto per non morire; oppure quella in grado di segnalare l'inaudita sarabanda di non senso nella quale siamo immersi. Raffinata, rarefatta ma incisiva, quella di Deborah Einsenberg, maestra americana del racconto. Ne Il crepuscolo dei supereroi (Alet) osserva con pietas e distacco, un'America che dopo l'11 settembre deve ritrovare i pezzi di se stessa, fra paure e nevrosi, illudendosi di potercela fare. Il racconto sulle speranze sentimentali della matura Kate ('Volente o nolente'), infrante per vanità maschile, è un gioiello compositivo; ma il rigore delal scrittura è la cifra che riguarda anche tutti gli altri testi. 'Gelidamente appassionati' sono stati definiti. Sentimenti trattenuti, congelati, che però potrebbero esplodere da un momento all'altro, per amore di pazzia o di poesia, si rintracciano nella raccolta postuma di racconti di Penelope Fitzgerald, Strategie di fuga (Sellerio). Nel racconto che dà il titolo alla silloge, la bizzarra autrice fa il verso al feuilleton virato al noir, inserendo nella sua storia evasi dalle patrie galere, chiese presbiteriane, incendi con annessi bambini che vi periscono e signorine timorate di dio pronte a un distacco dalle convenzioni che non faranno mai. Quando si dice che uno zefiro di follia irrompe nella quotidianità. Il venticello monta alla lettura di Vi presento Sally (Bollati Boringhieri) di Elizabeth Von Arnim, autrice brillante e donna di raro anticonformismo per il primo Novecento in cui visse confortata da numerosi amanti, viaggi, rapporti mondani e intellettuali. In molti dei suoi romanzi le protagoniste hanno a che fare con i tmei della seduzione, della solitudine, dell'emancipazione, dell'intelligenza come magnifico, o problematico, antidoto al tempo che passa. In questo caso la protagonista, Sally, figlia di un modesto commerciante al dettaglio, è una ragazza di sfolgorante bellezza quanto di assoluta povertà culturale. Basteranno una chioma fluente, gli occhi dolci, una mansuetudine che forse rasenta l'idiozia a salvare il suo matrimonio con uno studente di Cambridge? Il corto circuito fra natura e cultura esploderà ben presto, come un temporale estivo. Chiusura in bellezza, con risate a cascata, in riva al lago Lemano, con la scombiccherata compagnia riunita in un Piccolo hotel (Adelphi) da Christina Stead magnifica scrittrice. Siamo nei mesi successivi alla seconda guerra mondiale e ormai ognuno è stremato. I personaggi sono esilaranti, costruiti sulle più diverse sfumature del comico, grottesco compreso. Una vera e propria banda di pazzi dal futuro incerto. Freud direbbe che ridiamo di loro per non ridere di noi." (Laura Lepri, Brezze e amori quasi congelati, "Il Sole 24 Ore domenica", 06/07/'08

I poeti della scuola siciliana


"Sono arrivati in questi giorni in libreria tre Meridiani mondadoriani, di complessive 3044 pagine, dedicati a I poeti della scuola siciliana. Essi rappresentano il frutto della felice unione di un ventennio d'impegno del Centro di studi filologici linguistici siciliani (attualmente rappresentato da Buttitta, Ruffino, Varvaro) con l'intelligente entusiasmo di Renata Olorni che i Meridiani dirige. Il primo volume , curato da Roberto Antonelli, è interamente dedicato a Giacomo da Lentini; il secondo, dovuto alle cure di Costanzo Di Girolamo, comprende i poeti della corte di Federico II; il terzo, coordinato da Rosario Coluccia, assembla i poeti siculo-toscani. Ogni curatore, a sua volta, è assistito da una nutrita schiera di ricercatori che si occupano di un singolo poeta o di gruppi di poesie. Sono convitno che quest'opera che non esito a definire grandiosa (e anche gioiosa, dirò poi perché) rappresenterà un punto fermo, e non facilmente superabile, per tutti gli studiosi delle origini della poesia e della cultura italiana. [...] Ma io personalmente non sono uno studioso della materia, ne sono particolarmente attratto, questo sì, per una specie di orgoglio campanile, lo confesso e quindi vorrei ora dedicare qualche rigo alla spiegazione di un aggettivo, gioiosa, che ho usato iniziando a parlare di quest'opera. Perché gioiosa? Perché i poeti della scuola siciliana non facevano altro che parlare dell'amore, ragionare sull'amore, cantare l'amore. E l'amore, quando porta con sé sofferenza e pena, resta comunque un sentimento vitale e rivitalizzante. Una leggenda dice che Federico amava riunire i poeti della sua corte a Enna, l'ombelico della Sicilia, dove aveva fatto costruire, oltre a un castello, anche una torre ottagonale nella quale gli scanni in pietra erano tutti uguali. Egli sedeva lì, acacnto agli altri, non era nemmeno primus inter pares, si era spogliato di ogni emblema imperiale, e legegva ai compagni le sue poesie per la donna amata (forse nessuna delle tre che sposò), attendendone con una certa trepidazione il giudizio. In questi tre volumi tantissime voci diverse si cimentano dunque sopra un unico tema, tentandone tutte le variazioni possibili. Non si ha che l'imbarazzo della scelta. 'Meravigliosamente / un amor mi distringe', attacca Giacomo da Lentini. 'Gioiosamente canto / e vivo in allegranza, / ca per la vostr'amanza /madonna, gran gioia sento', gli fa seguito Guido delle Colonne. 'Rosa fresca aulentissima', così Cielo d'Alcamo definisce l'amata. 'Allegramente canto', dichiara Iacopo Mostacci. 'Ben mi deggio alegrare', concorda Ruggerone da Palermo. E Rinaldo d'Aquino: 'Per fin amore vao sì allegramente ...'. E Stefano Protonotaro: 'Pir meu cori allegrari ...'. Mi fermo qui. Concludendo con un suggerimento ai lettori che ai severi cultori della sacralità della poesia può apparire addirittura blasfemo. Ma ricordo che un poeta come Paul Eluard usava dire che la poesia non solo non è sacra, ma deve servire agli uomini per uso quotidiano. Il suggerimento nasce da una domanda: vi piacciono le storie d'amore? Se la risposta è sì, allora portatevi i tre meridiani sotto l'ombrellone, non temete, nemmeno l'imperatore si sentirà offeso, anzi, lasciate che il vento ne sfogli le pagine, leggete una poesia a caso. E comunicate la vostra inevitabile emozione a chi sta accanto a voi. La poesia è fatta per questo, per essere condivisa." (da Andrea Camilleri, Canti d'amor gioioso, "La Repubblica", 07/07/'08)

domenica 6 luglio 2008

Cesare Pavese. I libri

Cesare Pavese. I libri (Aragno)

"I libri come autobiografia di chi li colleziona. Si può dirlo di ogni intellettuale. Ma nel caso di Cesare Pavese, quel legame fra un uomo e i propri libri diventa storia, aneddotica, racconto. Si viene trasportati all'interno di un ambiente, la Giulio Einaudi editore, di cui il romanziere fu gran parte fra gli anni Trenta e Cinquanta. Circolano dentro quegli scaffali eroi 'di carta' e compagni di avventure intellettuali. Vi si scorgono passioni sedimentate. Vi si intravedono continenti sognati o trasfigurati dall'arte della parola. Partiamo da quest'ultima realtà: la geografia ideale di Pavese. Essa culmina nella sua passione per l'America, quasi temeraria negli anni del tardo fascismo. A provarla, questa passione, l'autore di Paesi tuoi e dei Dialoghi con Leucò non è né resterà solo. Ne sarà addirittura divorato il coetaneo Elio Vittorini, del quale figura in biblioteca il romanzo Coversazione in Sicilia (ancora in edizione Parenti, 1941, con il titolo Nome e lacrime). Italo Calvino, amico di entrambi ma di quindici anni più giovane arriverà a confessare: 'C'è stato un tempo in cui per me e per molti altri Hemingway era un dio'. Da Melville, di cui è appassionato traduttore, a Caldwell, da Sinclair Lewis a John Steinbeck, da Sherwood Anderson (anch'esso da lui tradotto nel '32 per l'editore Frassinelli) all'Antologia di Spoon River, di cui conserva una copia del '43 nella versione dell''americanista' Fernanda Pivano, gli scaffali di Pavese si riempiono di questa letetratura, nella quale, egli annota, i richiami 'della terra e del sangue assumono forme ingenue, violente, talora selvagge'. 'Noi scoprimmo l'Italia', concluderà più tardi, 'cercando gli uomini e le parole in America'. Il confronto con un mondo libero e immaginoso di concepire l'esistenza assumeva in quegli anni, il valore di una rivolta antiprovinciale. Il jazz, voga musicale ostica alle orecchie dei fascisti, diventò il vessillo di un cosmopolitismo indocile; e la mitologia yankee si estese alla letteratura disegnata per l'infanzia. Un suggestivo messaggio proveniente da oltreoceano emanavano i cartoons di Walt Disney, con in cima quel Mickey Mouse, nelle cui vicende di giornalista brillante, fortunato detective o astuto scavezacollo si riflette nella maniera più naturale il costume americano. Finché il Regime, con l'incalzare della Seconda guerra mondiale, non ne vieterà la diffusione, le avventure di Topolino trovarono vari editori, da Nerbini a Mondadori e al torinese Frassinelli, sotto la cui sigla sono presenti nella biblioteca di Pavese. La realtà ufficiale dell'Italia, insomma, vissuta nettamente a rovescio, proprio in quegli anni Trenta e metà Quaranta che nella vita dello scrittore piemontese (1908 - 1950) occupano una stagione privilegiata. Intorno a lui ferveva l'attività della Einaudi, un'istituzione ancora giovane - data di anscita 1933 - ma ben presto sospetta di sovversivismo. Di fatto, tra la sua fondazione e la caduta del regime littorio, la casa torinese aveva percorso il proprio viaggio attraverso il fascismo nelle varie tappe comuni a un'intera generazione di intellettuali. E ne aveva riportato traumi esemplari: a cominciare dalla soppressione nel '34 della "Riforma sociale", la rivista diretta da Luigi Einaudi e poi passata alle cure editoriali del figlio Giulio, per finire con le noie giudiziarie subite dal periodico "La cultura", ideata da Leone Ginzburg e diretta infine dallo stesso Pavese. Il catalogo einaudiano testimonia in quegli anni di censure e di arresti ('il carcere ci scottò tutti quanti', avrebbe ricordato patron Giulio, riferendosi alla retata subita dai suoi redattori nel maggio 1935) un'apertura mentale impossibile da nascondere. Essa investiva oltre alla letteratura, l'economia, la scienza e la saggistica di argomento civile. Scorgendo per esempio fra i libri di Pavese una copia ingiallita di Il pensiero politico italiano di Luigi Salvatorelli, si risale alla fondazione di quella "Biblioteca di cultura storica" che quel volume inaugurò, e che sarebbe sempre restata un emblema di qualità. Italo Calvino indicherà in Leone Ginzburg l'uomo dal quale 'la collana ebbe il primo impulso' (e fu lo stesso Ginzburg a trovar da ridire quando un'altra collana venne battezzata "Biblioteca dello struzzo": così, osservò, tutti penseranno che stampiamo 'libri che solo uno struzzo può digerire'). Cesare Pavese, Felice Balbo, Massimo Mila, poi i 'romani' Muscetta, Alicata e Giolitti: sono soltanto alcuni degli intellettuali che, fra carcere, condanne al confino e lutti irreparabili (la morte di Ginzburg e di Giaime Pintor) si inscrivono in quella storia. Di cui sono parte integrante quelle riunioni redazionali del mercoledì, in cui - racconterà Giulio Einaudi - si poteva vedere 'Giaime Pintor in polemica con Vittorini, Vittorini con Calvino, e Pavese con Felice Balbo'. Troppi cervelli riuniti insieme, con l'obbligo di pensare. Uno fra i dibattiti più accesi riguardò quella collana viola di studi religiosi, etnologici e psicologici, che fu inventata (benché in vivace disaccordo fra loro) da Pavese e Ernesto De Martino. L'autore di La bella estate ne conservava vari volumi. E le altre aziende editoriali? 'Bocca, Laterza, Treves erano per noi gli esempi storici' ricorderà ancora patron Giulio. 'I nuovi antagonisti, la Mondadori e la Bompiani'. Specie quest'ultima nella persona del suo fondatore, il conte Valentino. Dopo esere stato segretario di Arnoldo Mondadori, egli si era messo in proprio fin dal '29, iscrivendosi a quella categoria che uno storico della cultura, Gian Carlo Ferretti, chiama degli 'editori protagonisti'. Soprattutto nel campo della letteratura d'oltreoceano la sua presenza era determinante. Porta il marchio Bompiani quella preziosa raccolta di narratori intitolata Americana (Pavese la conservava nell'edizione del '42) intorno alla quale il Regime inscenò un autentico baccanale censorio. Elio Vittorini che come consulente editoriale si divideva fra Mondadori, Bompiani e Einaudi, partecipò alle trattative con grande veemenza. Si diceva allora fra letterati che, pur avendo chiuso le proprie sedi diplomatiche a guerra iniziata (1941), gli Stati Uniti potevano contare in Italia su due ambasciatori. Uno era Pavese, l'altro Vittorini." (da Nello Ajello, La scoperta dell'America per raccontare l'Italia, "La Repubblica", 06/07/'08)
Fondazione Cesare Pavese
"Omaggio a Cesare Pavese nel centenario della nascita", mostra a cura di Mariarosa Masoero e Giovanni Tesio, dal 16 giugno al 25 luglio 2008 (in collaborazione con il Centro di Studi di Letteratura Italiana in Piemonte e l'Associazione Amici di Lalla Romano) - Biblioteca Nazionale Braidense – Sala Maria Teresa - Via Brera 28 Milano

sabato 5 luglio 2008

Una nuova terra di Jhumpa Lahiri


"Del senso di spaesamento che affligge gli immigrati indiani giunti negli Stati Uniti alla ricerca di migliori condizioni di lavoro si occupa Jhumpa Lahiri, scrittrice di famiglia bengali, nata a Londra nel 1967 e poi spostatasi a New York, dove vive. Lo spaesamento è un forte elemento estraniante che confina, in molti casi, con una patologia in grado di influire sulla qualità della vita, fino a determinare, nelle seconde generazioni (i figli di coloro che hanno lasciato Calcutta o Bombay alla ricerca di nuove opportunità), una reattività 'strutturale' al conflitto insormontabile tra tradizioni indiane e nuova cultura americana. E il risultato è talvolta devastante, giacché produce individui simili ad outsider emotivi, afflitti, paradossalmente, da un oscuro e indecifrabile senso di colpa. Lahiri - in Italia è stata scoperta da Marcos y Marcos - ha esordito nel 2000 con la raccolta L'interprete dei malanni, che le è valso il Booker Prize, e ha poi consolidato il suo successo, l'anno dopo, con il romanzo L'omonimo (Guanda), al cui centro sta, per l'appunto, la crisi di identità di un bengalese trasferitosi a Yale che, per una curiosa coincidenza burocratica si chiamerà assurdamente Gogol (il padre era un appassionato di letteratura russa) dato che la nonna, unica persona demandata a fornire il nome indiano del nipote secondo la tradizione, muore poco prima della sua iscrizione all'anagrafe americana. Come Gogol, la maggior parte dei personaggi di Una nuova terra (Guanda), l'ultima raccolta di racconti dell'autrice indo-americana, sono alla disperata ricerca di una identità, dovendo misurarsi con i padri e con le madri, ultimi anelli di collegamento con il passato orientale, il più delle volte restii ad avallare ogni cedimento nei confronti del 'sogno americano' a cui, più o meno inconsciamente, si sono affidati nel momento in cui hanno lasciato l'India per specializzarsi nelle università statunitensi. Il gioco contraddittorio delle prime generazioni, in cui le madri svolgono il ruolo conservatore proprio perché, relegate alle funzioni casalinghe, si rifiutano di mescolarsi con il mondo occidentale e si frequentano, anche linguisticamente, fra di loro, si riversa dunque sulle seconde generazioni che Lahiri ritrae con grande delicatezza e profondità introspettiva in Una nuova terra, un libro che mostra un salto di qualità della sua scrittura - sempre in ogni caso piana e colloquiale, moderatamente cosparsa di terminologie tipicamente indiane - verso una visione più ampia del senso di spaesamento, aperta a una mobilità che non include soltanto il contesto indiano ma che spazia in tutto il mondo (dagli Stati Uniti all'Inghilterra all'Italia a Hong Kong alla Thailandia). Anche qui, come ne L'omonimo, il milieu dei protagonisti dei vari racconti - otto divisi in due parti con gli ultimi tre legati fra loro da un filo conduttore sentimnetale - è quello della middleclass americana che corrisponde alla precedente agiatezza delle famiglie nel loro Paese di provenienza. L'ambiente è sicuramnete autobiografico, visto che la scrittrice ha studiato alla Boston University, ma è indubbio che Lahiri è attratta, oltre che dai rapporti sociali tra persone acculturate, dal problema della sostanziale inconoscibilità della coppia, messa a dura prova da una convenzionalità di rapporti che, nella consuetudine indiana, prevede matrimoni combinati. [...] I racconti di Una nuova terra sembrano contenere tutti un senso checoviano di perdita che li rende struggenti e 'quietamente' disperati, fornendoci il corrispettivo dello sradicamento come condizione dell'essere. Per questo Lahiri supera la prospettiva postcoloniale delle sue precedenti opere per universalizzarsi. In Una nuova terra infatti lo spaesamento dell'immigrato si assomma a quello, ben più doloroso, dello spaesamento dell'anima in un mondo 'globalizzato' anche nei sentimenti." (da Renzo S. Crivelli, Sognando un'altra identità, "Il Sole 24 ore Domenica", 29/06/'08)
"Writer Jhumpa Lahiri" e "Transplanted Author Finds Roots in Writing" (da npr.org)
"Jhumpa Lahiri: 'Writing makes me so vulnerable'" (da independent.co.uk)
"Change and loss" (da GuardianBooksReview)

Diciotto stanze per flauto barbaro di Cai Yan

'Ho oltrepassato il paese dei Han, sono entrata nei borghi dei barbari,
perduta la casa violato il mio corpo, meglio sarebbe non esser nata.
Ruvidi panni e pelli le mie vesti, il corpo vi ripugna,
montone rancido il cibo, violenza ai miei sensi.
Tamburi che rullano, dal cader della notte fino al giorno,
tra i barbari il vento è potente, ottenebra il campo.
Soffro il presente, piango sul passato, la terza stanza è compiuta,
la pena che nutro, quando si placherà?'
Cai Yan

"La struggente, intensa poesia fu scritta da una figura mitizzata della cultura cinese nei secoli a seguire. Dama di alto lignaggio alla corte della dinastia Han (206 a. C. - 220 d. C.) Cai Yan (pron. Tsai Yan, 177 o 178 - dopo il 206) con la sua vicenda è stata rievocata e interpretata da innumerevoli letterati e artisti. Cai Yan fu un'artista di grande sensibilità lirica e musicale e alla sua maestria nell'uso del qin (pron. cin), il liuto pentacordo orizzontale, strumento tipico dei letterati, fa costante riferimento Anna Bujatti, raffinata curatrice delle Diciotto stanze per flauto barbaro, (Hujia shiba pai) uno dei tre poemetti attribuiti a Cai Yan. Sposata a sedici anni in un'importante famiglia restò vedova dopo poco e, prima dei venti, era divenuta merce di scambio della traballante dinastia con i xiongnu (pron. siongnu) un ceppo barbarico degli unni che sconfinava spesso nel territorio cinese. Sposata a un capo da cui ebbe due figli visse in un ambiente a lei ostile per cultura, gusti, uso dei sensi e strumenti dell'esistere della propria tradizione, come l'amatissimo qin, ella si rivolge alla poesia e al grezzo flauto dei barbari il cui suono dolente si adatta sia alla condizione del suo spirito sia in modo sorprendente al ritmo stesso del qin. Un grande letterato e potentissimo dignitario Cao Cao (pron. Tsao Tsao) la fece riscattare dalla corte imperiale e dare in sposa a un alto funzionario. Essa ritornò così all'adorata capitale, Chang'an la splendida (odierna Xi'an), ma senza poter portare i figli con sé: 'Sedicesima stanza, sconfinato è il rimpianto, / io e i miei figli, chi di qua chi di là. / Il sole a oriente la luna a occidente, si cercano invano, / non c'è modo di rivederci, sterile il tormento. / Nemmeno il giglio dell'oblio dissipa la mia pena, / pizzico la cetra sonora, quanta tristezza'. Questo ripetuto straniamento, questa violenza alla cultura prima e all'amore materno poi, risuonarono, e risuonano ripetutamente, nell'anima della Cina tradizionale, quella degli han, l'etnia dominante che prese il nome da quella celebre, classica, dinastia. E' quella Cina che da sempre percepisce la presenza dei barbari ai confini come una minaccia costante; che dai barbari fu spesso conquistata, mai dominata. Ché anzi furono sempre gli han ad assorbire nell'oceano del proprio culturalismo i torrenti militari delle etnie che li avevano invasi. Cai Yan è per loro il simbolo delle profonde ferite ricevute, ma anche della gloria della propria civiltà, invitta e alla fine, comunque, ultima dominatrice. Al di là di queste considerazioni storico antropologiche, le Diciotto stanze (Tipografia Istituto Salesiano) sono un capolavoro di introspezione ed esposizione dei propri sentimenti sviluppata lungo un percorso musicalmente raffinato, con immagini colme di suggestione e risonanze fra natura e stati d'animo. Guo Moruo (1892 - 1978) tra i massimi letterati del Novecento considerava Cai Yan tra i grandi della letteratura di ogni tempo e delle Diciotto stanze curò l'edizione critica di cui questa è la prima traduzione filologicamente impegnata in lingua occidentale: impressiona che la curatrice, di cui sono da apprezzare anche i saggi e il delicato parallelo con l'Andromaque di Racine, si sia trovata a pubblicare una perla di questa lucentezza, con uno stampatore invece di un editore." (da Gian Carlo Calza, Poesie della principessa triste, "Il Sole 24 Ore Domenica", 29/06/'08)

venerdì 4 luglio 2008

Giordano, lo Strega premia un esordio


"Una vittoria netta, quella di Paolo Giordano ieri nella torrida serata al Ninfeo di Villa Giulia. Ma lo Strega diretto da Tullio De Mauro torna comunque ad essere una gara e al termine di uno scrutinio quasi a senso unico consegn ala palma di vincitore a uno scrittore esordiente che di mestiere fa il fisico e ha appena venticinque anni. Giordano è far i più giovani nell'albo d'oro del Premio e il riconoscimento per il suo La solitudine dei numeri primi (Mondadori) corona una fortuna letteraria iniziata con le ottime recensioni e scandita da vendite in netta crescita (l'ultimo dato parla di duecentomila copie). Paolo Giordano ha ottenuto 163 voti. Dietro di lui è arrivato Ermanno Rea, una carriera di scrittore segnata da libri di grande pregio e iniziata oltre i sessant'anni, dopo quella vissuta nel giornalismo, da inviato di punta. Rea che aveva sfiorato il successo allo Strega alcuni anni fa con La dismissione, giunge secondo anche questa volta, raccogliendo col suo Napoli Ferrovia (Rizzoli) 118 consensi. Alle spalle dei due principali sfidanti si collocano Cristina Comencini che ha scritto L'illusione del bene (Feltrinelli) e ha collezionato 43 voti, Diego De Silva, autore di Non avevo capito niente (Einaudi), al quale di voti ne sono andati 22 e Lidia Ravera che con La seduzione dell'inverno (Nottetempo) ha raggiunto quota 20. [...] Lo Strega è comunque una vetrina di lusso e nessuno immaginava che sul nome del giovane fisico si concentrassero molti consensi. E invece già prima della selezione, i consensi sono arrivati. All'universo dei numeri si ispira il suo romanzo. Il titolo condensa molto del libro: 'In un corso del primo anno Mattia aveva studiato che tra i numeri primi ce ne sono alcuni ancora più speciali. I matematici li chiamano primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero'. Mattia e Alice, i protagonisti, sono due numeri primi. I loro destini, le loro tribolazioni li avvicinano. Ma qualcosa impedisce che la vicinanza diventi vincolo. Diversa l'età, diversa l'esperienza di Rea che ha sempre intrecciato finzione letteraria e documento storico, utilizzando come materia narrativa l'autobiografia. Napoli Ferrovia chiude un ciclo che avvolge la geografia e la storia di Rea. Mistero napoletano (Einaudi) raccontava il suicidio di Francesca Spada, una giornalista della redazione napoletana dell'Unità di cui l'autore era stato amico. La dismissione (Rizzoli) narrava invece lo spegnersi del sogno di una Napoli operaia, raffigurato nello smantellamento dello stabilimneto siderurgico dell'Italsider e nella storia eprsonale di Vincenzo Buonocore addetto a smontare la fabbrica per venderne i pezzi alla Cina. Napoli Ferrovia è invece il resoconto del tentativo dell'autore di tornare nei luoghi abbandonati mezzo secolo prima. Un tentativo, fallito, che mescola la propria città alla propria vita. A Napoli è ambientato anche Non avevo capito niente di Diego De Silva (Einaudi), la storia ironica e impietosa di un avvocato costretto a incrociare la camorra. L'illusione del bene di Cristina Comencini (Feltrinelli) è invece una vicenda di illusioni e di fallimenti, sullo sfondo della crisi attraversata dal mondo comunista. Mentre amore e solitudine sono al centro di La seduzione dell'inverno di Lidia Ravera (Nottetempo)." (da Francesco Erbani, Giordano, lo Strega premia un esordio, "La Repubblica", 04/07/'08)

il miolibro.it


"Si chiama self-publishing e per una volta la traduzione è letterale: significa pubblicare da soli i propri testi. Non è una novità che si lega alla tecnologia: semmai, come spesso avviene, è l'evoluzione tecnologica medesima a rendere più semplice e diffusa una consuetudine antica. Le cronache attribuiscono addirittura a John Milton il ruolo di primo autore self-published. Era il 1664: il testo, pubblicato volutamente senza il nome dello stampatore e dell'editore, si chiamava Aeropagitica e polemizzava contro la restrizione della libertà di stampa da parte del governo inglese. L'aneddoto introduce un primo distinguo, valido anche per il self-publishing dei nostri giorni: non esiste una motivazione unica per chi compie questa scelta. Le ragioni che spinsero Milton sono diverse da quelle che portarono uno sterminato elenco di illustri scrittori a pubblicare a proprie spese almeno una volta nella vita. E in molti casi, a conquistare lettori e nuovi editori proprio grazie al libro confezionato in proprio, come è avvenuto per almeno tre best seller contemporanei: La profezia di Celestino di James Redfield, Eragon di Christopher Paolini, Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia. Casi estranei al web, come si vede. Anche se, in seguito, internet è stata di enorme aiuto per gli autori in cerca di alternative. In alcuni casi, con la nascita di case editrici online che hanno traghettato i testi verso le corazzate del settore: è stato così con Monica Viola, che dopo Vibrisselibri è approdata a Rizzoli con Tana per la bambina dai capelli a ombrellone, o per Vanni Santoni che dopo aver pubblicato con Scrittomisto è da poco uscito presso Feltrinelli con Gli interessi in comune. In altri casi è stato il blogging a favorire il passaggio dalla rete alla carta: per citare solo due casi, Roberto Saviano e Giancarlo D'Arcangelo hanno esordito scrivendo testi per il blog Nazione indiana. Il self-publishing propriamente detto è ancora più radicale: fa a meno di ogni mediazione fra l'autore e la sua opera e consiste nella pura trasformazione di un mansocritto in volume, lasciando a chi scrive la scelta della sua eventuale vendita. La quale, attenzione, non è necessariamente il fine ultimo dello scrivente: osservando i dati di ilmiolibro.it , il sito di self-publishing lanciato in maggio dal Gruppo Espresso, si nota che su milleseicento titoli stampati fino al 18 giugno, per un totale di ottomila volumi, ne sono stati posti in vendita cinquecento. Il che significa che non tutti intendono raggiungere un pubblico di acquirenti con i propri scritti: a volte il piacere dell'oggetto libro, rilegato con la copertina che si preferisce e nel formato prescelto, basta a se stesso. In secondo luogo, non è necessariamente vero che chi decide di pubblicare e diffondere online un'opera lo faccia perchè è stato rifiutato dagli altri editori. Spesso non ci ha neanche provato, né intende farlo. Spesso sceglie la Rete perché vuole testarsi e confrontarsi con altri lettori. O perché preferisce vedere i propri scritti in una vetrina virtuale piuttosto che assistere alla loro sparizione, dopo pochi giorni, in fondo agli scaffali di una libreria vera. Oppure, ancora, perché ritiene che quanto ha scritto sia consono ad una nicchia ristretta di lettori. Quando diversi mesi fa lo scrittore Giuseppe genna autopubblicò il romanzo Medium sul web, motivò la prorpia scelta scrivendo: 'L'argomento è molto personale e lo sviluppo del libro è tale da non avere chance commerciali che possano interessare l'industria culturale'. Non è il solo: scrittori di ogni nazionalità, già legati a editori cartacei, scelgono il self-publishing come una strada parallela, e non necessariamente alternativa, a quella tradizionale. Non si commetta l'errore di pensare che l'autore che si autopubblica sia uno sprovveduto, o un narciso. Né, necessariamente, un romanziere. E' vero, in testa alla classifica di ilmiolibro.it ci sono tre opere di fiction (nell'ordine: Viola di Pervinca Paccini, Tutto a posto e niente in ordine di Fabio Alisei, Della lontana musica di Leonora Signifredi). Ma spulciando fra i titoli, ci sono anche saggi sul precariato o inchieste sull'occultismo in Italia. Infine c'è l'aspetto forse più interessante del fenomeno e che porta l'autore a far parte di una comunità, commentando le rispettive opere, ma anche mettendo in Rete l'elenco dei propri libri preferiti sul modello di quello che è attualmente forse il più potente social network di lettori aNobii. Per chi non lo sapesse aNobii (che deve il suo nome al tarlo della carta, l'Anobium punctatum), è una gigantesca libreria virtuale, creata nel 2005 a Hong Kong e attualmnete utilizzata da oltre cinque milioni di utenti di tutto il mondo: forse uno dei più potenti passaparola per quanto riguarda la diffusione dei libri, che vengono scelti, messi online nella propria libreria personale, commentati, votati, eventualmente scambiati. Lo stesso meccanismo viene replicato su ilmiolibro.it, dove gli utenti espongono nelle pagine personali i libri che amano, quelli che leggono e quelli che vorrebbero leggere. A dimostrazione che i lettori sono animali sociali, e che internet è uno strumento eccezionale non per contrastare la lettura, come ancora qualcuno continua incredibilmente a sostenere, ma per incrementarla." (da Loredana Lipperini, Attualità e storia del fai-da-te, "La Repubblica", 03/07/'08)

giovedì 3 luglio 2008

Leggi questa lettera. Leggila bene. La voce che ti parla ti terrà sveglio la notte (Elie Wiesel)

"Ecco, questo significa vivere: crescere per mettersi al servizio degli altri"


"[...] Mamita, ci sono tante persone che vorrei ringraziare perché si ricordano di noi, perché non ci hanno abbandonato. Siamo stati a lungo come quei lebbrosi che rovinano la festa. Gli ostaggi non sono un argomento 'politicamente corretto', suona meglio dire che bisogna essere forti contro la guerriglia, anche al costo di sacrificare alcune vite umane. Contro tutto questo, silenzio. Solo il tempo può risvegliare le coscienze ed elevare gli spiriti. Penso alla grandezza degli Stati Uniti, per esempio. Quella grandezza non è frutto della riccheza della terra o delle materie prime ecc., ma della grandezza d'animo dei governanti che hanno plasmato quella nazione. Quando Lincoln ha difeso il diritto alla vita e alla libertà degli schiavi neri d'America, ha dovuto affrontare problemi come quelli di Florida e Pradera, opporsi a interessi economici e politici che alcuni ritenevano più importanti della vita e della libertà di una manciata di neri. Ma Lincoln ha vinto e oggi la priorità della vita umana su qualunque interesse economico e politico fa parte della cultura di quella nazione. In Colombia, dobbiamo ancora riflettere sulle nostre origini, su quello che siamo e su dove vogliamo andare. La mia aspirazione è che un giorno anche noi avremo quella sete di grandezza che fa sorgere i popoli dal nulla e li slancia verso il sole. Il giorno in cui difenderemo la vita e la libertà dei nostri senza fare alcuna concessione, il giorno in cui saremo meno individualisti e più solidali, meno indifferenti e più impegnati, meno intolleranti e più compassionevoli, allora, quel giorno diventeremo la grande nazione che noi tutti desideriamo. Questa grandezza c'è già, dorme nei nostri cuori. Ma quei cuori si sono induriti e sono diventati così pesanti che non ci permettono più di elevare i nostri sentimenti. [...]"
Ingrid Betancourt
"L'opération a été 'à 100% colombienne'" (da Libération.fr)
"Colombia Plucks Hostages From Rebels’ Grasp" (da NYT)
"Betancourt ricorda gli altri ostaggi 'Vi porteremo fuori dalla giungla'" (da Repubblica.it)

Gao Xingjian: "Per la Cina io non esisto"


"Esiste una Grande Muraglia invisibile che impedisce la comprensione fra l'Occidente e la Cina? Noi e loro siamo destinati a non capirci perché i nostri linguaggi, i sistemi di valori, i contesti storici delle due civiltà sono troppo distanti? Il teorema dell'incomunicabilità ha auto un revival in tempi recenti, da quando si è visto che il formidabile sviluppo economico cinese non sfocia automaticamente nella evoluzione politica verso la liberaldemocrazia. I leader della Repubblica Popolare difendono da tempo una presunta irriducibile diversità dei 'valori asiatici' per respingere le critiche sui diritti umani e le libertà. Pochi possono affrontare questo tema con la lucidità di Gao Xingjian, il premio Nobel cinese della letteratura. Romanziere, commediogarfo e pittore, Gao vive in esilio a Parigi dal 1988. L'esperienza della diaspora ne fa un osservatore acuto dei due mondi. Lo incontro ad Agliana, dove è venuto ad assistere alla messa in scena di La fuga (Titivillus Edizioni), il suo dramma ispirato alla rivolta di Piazza Tienanmen. Lei parla perfettamente francese eppure da vent'anni continua a scrivere in mandarino. La distanza linguistica è il segnale che ci sono idee, vicende, rappresentazioni del mondo che restano 'intraducibili' al di fuori del contesto storico in cui sono nate? 'Non sottovaluto le difficoltà della traduzione. Ma dagli ostacoli grammaticali, lessicali e sintattici non bisogna estrapolare delle conclusioni estreme. Capire la Cina, per un europeo di oggi, non è più difficile di quanto lo sia per voi stessi capire la Grecia antica: anche quello indubbiamente era un mondo assai diverso. Del resto anch'io sono in grado di leggere e di amare i classici greci. Non ci sono delle vere barriere per la comunicazione tra Occidente e Oriente. io sono un esempio di questa possibilità. Sono interessato da sempre alla cultura occidentale, ma anche a quella sudamericana, africana, e conosco in parte quella indiana'. [...] Lei è l'unico autore cinese ad avere ricevuto il Nobel. Negli ultimi vent'anni l'atteggiamento del regime nei suoi confronti non è mai cambiato? 'Io in Cina ufficialmente non esisto. Continuo a essere invisibile, una non-persona. Nelle enciclopedie, nei testi di storia letteraria, o negli archivi dei giornali, hanno cancellato il mio nome dall'elenco dei premi Nobel della letetratura. Quindi per i cinesi il Nobel del 2000 non fu mai assegnato. Quando vado a Hong Kong - l'unica città cinese dove mi è consentito rientrare, per il suo statuto autonomo - ci sono dei connazionali che vengono ad ascoltarmi, a dialogare con me. Possono farlo a patto che non scrivano nulla su di me quando tornano a casa. In questo senso qualcosa è cambiato. Il dibattito fra i cinesi, nella loro vita privata, è certamente più libero e disinvolto rispetto ai tempi del maoismo. Ma tutto ciò che diventa pubblico è ancora sottoposto a un controllo e a limitazioni stringenti'. [...]" (da Federico Rampini, Per la Cina io non esisto. Un esilio lungo vent'anni, "La Repubblica", 03/07/'08)

mercoledì 2 luglio 2008

There is no frigate like a book

There is no frigate like a book (Emily Dickinson)

There is no Frigate like a Book
To take us Lands away,
Nor any Coursers like a Page
Of prancing Poetry –
This Traverse may the poorest take
Without oppress of Toll –
How frugal is the Chariot
That bears a Human soul.

Dispacci dal fronte. Storie mai raccontate


"Guerra o operazione di polizia? Soldati o mercenari? Terrorismo o lotta di liberazione nazionale? Troppe parole non hanno più senso e molte di queste riguardano il modo in cui la violenza agisce nei rapporti tra gli uomini e nelle relazioni tra Stati. Del terrorismo, ad esempio, come ci ricorda un bel libro di Roberta Barberini, Il giudice e il terrorista (Einaudi), non esiste una definizione giuridicamente consolidata. Il concetto stesso sembra inafferrabile per le norme del diritto internazionale. Così si ricorre allo stereotipo del 'terrorista' (studente, maschio, musulmano, arabo, tra i 18 e i 40 anni) o a una casistica di quelli che possono considerarsi atti terroristici (i dirottamenti aerei, ed esempio) o che vengono identificate come organizzazioni terroristiche (c'è un lungo elenco elaborato dall'Unione europea che ha congelato i beni di soggetti e organizzazioni di varie matrici e collocazione geografica, con gruppi mediorientali, sudamericani, turchi, europei - Eta, Brigate Rosse, ecc...).
SCRIVE IL GENERALE MINI
Stesso ingorgo terminologico e identica difficoltà concettuale si incontrano anche quando si tratta di definire cosa sia oggi il 'soldato'. Fabio Mini, un generale che riflette sul suo mestiere con straordinaria lucidità, in Soldati (Einaudi), documenta efficacemente la composita galassia nata dalla disintegrazione della figura tradizionale del soldato novecentesco: esistono soldati 'blu' e 'neri', affiancati da professionisti della sicurezza, mercenari a partita Iva, contractors, generali dei 'soldati' e generali dei 'politici', in una frammentazione in cui si coglie il nuovo aspetto privatistico assunto da guerre che sempre più difficilmente possono essere ricondotte all'esercizio della sovranità dello Stato nazionale. Tutto questo provoca un occultamento della realtà che sconfina con la menzogna. E' come se, dopo la fine della guerra fredda, l'ossessivo moltiplicarsi dei conflitti che hanno accompagnato l'alba del nuovo millennio abbia reso quasi indispensabile la finzione della negazione della guerra, un artificio lessicale che consente di metabolizzarne l'impatto distruttivo, attenuando traumi e lacerazioni, proteggendo gli uomini dalla cruda evidenza degli scempi provocati da altri uomini. Il nocciolo della finzione è quello di rendere possibile ogni guerra chiamandola con nomi diversi, con vere e proprie bizzarrie terminologiche (si pensi a un ossimoro come quello di guerra umanitaria o alle operazioni di peace keeping!). In realtà oggi, per raccontare la verità sulla guerra, evitando i tranelli dell''elusione', occorre entrare diritti nel suo cuore di tenebra, in quella che è la sua essenza ultima di uccidere e farsi uccidere.
DISPACCI DAL FRONTE
È da quel luogo di morte che ci arrivano molti dei racconti raccolti in un antologia curata da Mimmo Cándito, Dispacci dal fronte. Storie mai raccontate (Ega): alcuni dei nostri giornalisti più bravi hanno inseguito il rapporto tra guerra e morte su tutti i fronti aperti dalle lacerazioni del mondo postnovecentesco, riportandone immagini crude e strazianti come quelle raccolte da Livio Senigallesi, sensazioni difficilmente riconducibili alla normalità della nostra esistenza quotidiana (Toni Capuozzo), l'umiliazione di essere talvolta costretti a raccontare 'una guerra che non si vede' (Tiziana Ferrario). Ci sono molti corpi in quei racconti, quasi a voler restituire alla morte una fisicità negatale dalla rappresentazione virtuale che ne danno i media. E' così per lo scontro tra hutu e tutsi narrato da Toni Fontana ('l'acqua creava un vortice dal quale emergevano braccia di bambini, gambe, teste mozzate ... ogni due, tre secondi la cascata scaricava nel lago sottostante un cadavere, a volte due, tre in rapida successione'), o per i kamikaze descritti da Stella Pende che, intervistando la madre di un 'martire', lascia affiorare la terribile distruttività ed economicità del corpo come arma: 'Il martirio è lo strumento più efficace e più economico che noi palestinesi abbiamo inventato. Gli israeliani hanno elicotteri, aerei, bombe raffinate. Noi abbiamo la nostra vita e basta. E su quella abbiamo coraggiosamente investito, scoprendo negli anni che quest'arma si è rivelata vincente. Sa perché? "Lo dica". Perché finalmente ci metteva alla pari con loro'. Alla fine sembra che le parole possano ancora vincere la sfida narrativa delle immagini, che la verità sulla guerra appartenga più alla cultura della scrittura che a quella dell'audiovisi." (da Giovanni De Luna, Fai presto a dire 'soldati', "TuttoLibri", "La Stampa", 28/06/'08)

L’alba della teologia musulmana di Josef Van Ess


"Il rapporto delle religioni con il tempo è sempre qualcosa di cruciale. Quelle rivelate, in particolare, che s’innestano sulla radice biblica, fondano sullo scorrere della storia e della narrazione la propria identità terrena. Il tempo è, assai più dello spazio, il luogo dove Dio si rivela all'uomo. E' il terreno della fede e dell'agire dell'uomo, forte - ma anche debole - del fatto che, in un certo punto del tempo, Dio ha parlato a lui. Quel tempo è innanzitutto un passato delle origini, e anzi di prima ancora. Poi è il presente dell'avventura umana, della voce del cielo che giunge fin qui sotto. Il futuro, quello remoto ma anche ciò che sta dietro l'angolo, s'inventa a poco a poco. Con la tenacia dell'attesa e la disillusione dell'ingiustizia. Con la speranza di un mondo migliore e la stanchezza per quello che esiste. Ma il futuro è, fra i tempi della religione, l'ultimo ad arrivare. Il passato è, teologicamente, ciò su cui la fede poggia e di cui si alimenta. 'L'islam moderno, nelle tendenze riformiste come nelle correnti integraliste, si ispira a una visione della storia che privilegia l'inizio rispetto alla fine, il passato rispetto all'avvenire. Senza alcun dubbio si tratta di un'utopia, che potremmo definire 'del cominciamento ideale'. Così scrive Josef Van Ess in L’alba della teologia musulmana (The Flowering of Muslim Theology) che la Piccola Biblioteca Einaudi manda in libreria con una prefazione di Alberto Ventura e la cura puntuale di Ida Zilio-Grandi. Van Ess è professore emerito di Studi islamici all'Università di Tubinga e questo breve volume è una sorta di sunto dei sei che egli ha dedicato alla teologia musulmana dei secoli Ottavo e Nono. Ma esso ha una sua autonomia di lettura e costituisce di fatto un'ottima introduzione a un universo religioso tanto conclamato quanto, in fondo, sconosciuto. Perché l'islam è oggigiorno noto quasi esclusivamente per i suoi comportamenti: dal velo femminile al terrorismo internazionale in nome di Allah. 'Molti musulmani di oggi hanno ridotto l'islam a un oggetto artefatto e pietrificato, facendo piazza pulita di una secolare tradizione teologica basata sull'equilibrio e sulla moderazione', scrive Alberto Ventura. A questa 'amnesia' delle idee provvede il libro, presentandoci i fondamenti teologici di questa fede così come si formulano in quel periodo delle origini che è fondamentale non solo per l'islam ma per ogni religione costruita. Dall'atomismo come necessità teorica alla costruzione dell'autorità spirituale e giuridica, dal rapporto con il testo sacro all'antropomorfismo, all'ermeneutica come pratica di fede. Come altre religioni rivelate, e in particolare l'ebraismo fondato sul dettato biblico del prima 'fare' e poi 'ascoltare', anche l'islam è un'ortoprassi prima che un'ortodossia. Ma ciò non esclude la formulazione di una civiltà delle idee come base della fede. Questo volume è una guida per scendere alle fondamenta dell'islam, cioè a quei presupposti teologici che vengono prima e dopo il comportamento dell'uomo. Ne risulta un fenomeno religioso complesso, consapevole di sé, paradossalmente evoluto in queste origini tanto trascurate." (da Elena Loewenthal, Per l'Islam conta più l'inizio che la fine, "TuttoLibri", 28/06/'08)

Un'educazione alla felicità. La lezione di Hesse e Tagore di Flavia Arzeni


"L'uno nel pieno della sua maturità era come un nodoso, robusto ramo secco, forte e debole al contempo, gran camminatore e amante della bottiglia. L'altro, pressappoco alla stessa età, aveva una barba fluente, boccoli candidi, un gran turbante ricamato, occhi azzurri intensi. Due premi Nobel, Hermann Hesse e Rabindranath Tagore, due biografie in una: così le coniuga e le intreccia Flavia Arzeni in Un'educazione alla felicità (Rizzoli). La germanista che sa unire splendidamente il passo del saggio a quello del racconto, costruisce come un romanzo la sua Lezione di Hesse e Tagore,come recita il sottotitolo. Più di cinquant'anni dopo la morte di Hesse e più di cento dopo la pubblicazione dei suoi romanzi più famosi, come Peter Camenezind - ma anche de Il lupo della steppa o Narciso e Boccadoro - basta visitare la casa di Montagnola nel Canton Ticino dove il romanziere ha risieduto a lungo. E poi volare, come ha fatto la saggista, in un piccolo, fascinoso centro del Bengala occidentale, Santiniketan, dove c'è il museo dedicato alla memoria del poeta indiano. Queste lontanissime dimore sono oggi i veri luoghi di culto della modernità, registrano un ininterrotto flusso di fedeli anche molto giovani che arrivano da tutte le parti del globo per affidarsi al loro verbo e al loro esempio di vita. Cosa cercano in questi due artisti cosi diversi e così simili? Diversi non c'è dubbio lo sono stati, lo scrittore nato a Calw nella Foresta Nera e il poeta di Calcutta. Non si sono mai incontrati. Eppure fra loro due, paradossalmente, a far da tessuto connettivo, è stata proprio un'analoga sofferenza. Aveva 14 anni e sei mesi lo scavezzacollo Hermann quando compì la sua prima rocambolesca fuga dal seminario teologico di culto evangelico del monastero di Maulbronn. Qui lo avevano destinato i genitori affinché fosse educato con sistemi rigidissimi. Aveva la stessa età pure Tagore, che apparteneva ad una delle più facoltose famiglie indiane dove letteratura, musica e filosofia erano di casa, quando decise di dire addio alla scuola e agli insegnamenti noiosi. A 17 anni andrà a farsi le ossa culturali a Londra. L'abbandono drammatico della casa natale per entrambi sarà sintomo di turbamento, di disagio, di incapacità di adattarsi alle regole imposte. Per tutti e due il 'mal di vivere' prenderà la forma di disavventure esistenziali, incrinature e crepe nelle storie personali in cui si avvicendano tentativi di suicidio, depressione, frenesia. Hesse, ancora ragazzo tenta di compiere con insuccesso il gesto estremo, poi sposa Maria Bernoulli, di nove anni più anziana, che entrerà nel tunnel del male oscuro. Il suo terzo figlio, Martin, morendo suicida porta a compimento quello che suo padre aveva solo tentato. Tagore invece cade in depressione dopo la scomparsa della madre quando lui era adolescente. La scoperta dell'amore avviene nella più sfavorevole delle condizioni: è sedotto dalla cognata che si uccide dopo il matrimonio del poeta. Da allora saranno molteplici e irrisolti i suoi legami sentimentali, comequello con l'intellettuale argentina Victoria Ocampo, donna sensuale e rapinosa che, nonostante il marito e l'amante, volle conquistare Tagore, suo ospite perunpaio di mesi. Nei due letterati messi alla prova duramente e ripetutamente dalle sconfitte della vita matura la consapevolezza che lo sfogo rappresentato dalla loro arte può essere un'ancora di salvezza. Entrambi si appassionano a tavolozza e pennello e associano il rapporto con la scrittura con quello con piante, giardini e natura. L'uno muovendosi da Oriente verso occidente nei suoi viaggi e spostamenti, l'altro in senso inverso, si sono come svincolati dalla loro immagine di scrittori. Hesse e Tagore sono figure simbolo per i riti laici dei loro lettori-cultori. A loro gli adepti si rivolgono per avere pillole di salvezza individuale, 'per l'amore del prossimo e del diverso, per il rifiuto dei dogmi', come afferma la Arzeni. Il narratore di Siddharta (il fortunato Album Hesse presentato da Chiusano torna negli Oscar Mondadori) e lo scrittore del Naufragio indossano tuniche da guru, da cui ci aspettiamo premonizioni e suggerimenti per superare l'ambita soglia della felicità. Che peraltro loro stessi hanno solo rapidamente e convulsamente attraversato." (da Mirella Serri, Dai Nobel pillole di felicità, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/06/'08)