mercoledì 29 ottobre 2014

Lettera alla citta' di Pavia per Dieci minuti a libro aperto


"Mi dispiace tanto di non essere con voi oggi, in una giornata così speciale per tutti noi che amiamo i libri e la scuola. E, come succede quando si è lontani ma vicini col cuore, vi scrivo.
Dovete sapere che tutto è cominciato tanti anni fa, quando, nella redazione di “Topolino”, ho conosciuto Daniela Bonanni. Non starò a raccontare il perché e il per come. Dirò solo che è stato un incontro folgorante, che non ci siamo più lasciate, e che da lì, ho poi conosciuto le altre due maestre del fantastico trio, Maria Teresa Camera e Tina Natale. Tre maestre intorno al cor mi son venute, mi vien da dire ... Erano così speciali ai miei occhi, che avrei voluto diventar maestra anch’io per lavorare con loro!
Avevano entusiasmo, ecco. E anche un’idea tutta particolare della scuola: per esempio, pensate, leggevano in classe i libri, ai loro bambini. Libri interi, per un anno, tutti i giorni!
Non so se lo facessero in molti, allora, tra gli insegnanti. Non so se si facesse anche alle medie o alle superiori. Ma cominciai a dirmi: e perché non lo faccio anch’io? Sapete, il contagio è un affare potente. Venire contagiati dalle idee buone è la più gran fortuna che ci possa capitare. Insomma, cominciai anch’io, al liceo: nelle mie due classi, ogni volta che c’era italiano, io entravo e leggevo, per dieci minuti (proprio dieci minuti!), qualche pagina di un libro. Facevo scuro, cioè abbassavo le tapparelle, prendevo una piccola lucina, di quelle con la pinza, che si applicano alle pagine, e leggevo. Mi sembrava che non solo il tempo, ma anche la luce dovesse diventare piccola e puntiforme: una specie di faro che puntava dritto sulle pagine, e tutt’intorno niente, solo buio.
Leggevo e basta.
Poi, allo scadere del decimo minuto, chiudevo il libro e cominciavo la solita lezione. La cosa commovente è che a quel punto nessun ragazzo avrebbe più voluto smettere. Mi supplicavano di continuare. Ma io implacabile dicevo: la prossima volta. I piaceri vanno dosati, si va un po’ alla volta. E poi, il dovere è dovere ...
Tanto, andava bene così. In quei dieci minuti qualcosa di miracoloso era comunque accaduto. Senza che io facessi o dicessi niente: nessun commento, nessuna spiegazione su figure retoriche, sequenze narrative, e tutte quelle miriadi di cose astruse, inutili e secondo me anche dannose, tipo narratore eterodiegetico o omodiegetico ... In quei dieci minuti c’era solo il libro: la storia, e le parole con cui l’autore aveva scelto di raccontarcela. C’era, anche, il loro ascolto. Mentre leggevo, a poco a poco, si creava un silenzio irreale, profondo. Lo sentivo intorno. Sentivo le parole cadere nell’aria, e fermarsi con noi.
Non so se anche altri insegnanti facessero la stessa cosa. Al liceo non era così comune, forse. C’era l’idea di non dover perdere tempo, che i programmi andavano svolti. Già, il dio Programma ... Quante vittime abbiamo sacrificato in suo onore! In quegli anni si parlava poco di lettura libera, eravamo ben lontani dalle tre giornate nazionali dedicate alla lettura in classe. Io stessa non lo dicevo a nessuno, lo facevo e basta. Era una cosa tutta nostra, tra i miei allievi e me, una specie di segreto quasi peccaminoso: una trasgressione. Sì, ci sentivamo trasgressivi e ribelli, clandestini, carbonari ...
Non so se quei ragazzi, poi, abbiano iniziato a leggere libri per conto loro. Lo spero. Spero che in loro sia nato, o nasca chissà fra qualche anno, una passione naturale e incontenibile per la lettura. Non glielo chiederò mai, per carità, la vita è loro e a me nulla è dovuto. Chi semina non deve poi andar a ispezionar le zolle, per scovare semino dopo semino ... Qualcun altro però vedrà le piante cresciute, un giorno, e basta. I ragazzi vanno lasciati liberi, di continuare o anche di smettere, se smettere sarà la loro volontà. Ricordo una bellissima poesia di Prévert, in cui l’innamorato diceva alla sua donna: voglio che tu sia libera, di amare me, o anche di amare un altro, se un altro ti piace ...
La lettura, come l’amore, è libertà. Non certo costrizione, o richiesta di qualcosa in cambio.
E la lettura in classe è ancora di più: è rivoluzionaria!
Leggere in classe è andarsene via, da un’altra parte, in un altro paese di cui nessuno ci chiede conto. È farsi due baffi, della scuola. Non pensare più ai compiti, ai voti, alle interrogazioni. È riprendersi la bellezza della vita, che solo i libri ci sanno indicare così precisamente e gratuitamente, senza un prezzo da pagare. Senza dover dimostrare niente, senza che ci venga richiesta alcuna performance, verifiche, schede di lettura, voti, giudizi ... Niente. Puro ascolto.
Ho fiducia nei libri. Ho fiducia nelle parole dei libri: ho da sempre, e per sempre, la cocciuta speranza che le parole, quelle grandi, quelle dei poeti e degli artisti, scendano in noi, e ci cambino.
Ma tutti i giorni dobbiamo venire a contatto con queste parole grandi, non solo una volta ogni tanto.
La lettura deve essere per noi il pane quotidiano. Semplice, come un gesto della vita di tutti i giorni. Come ci laviamo i denti, beviamo il caffè, prendiamo l’autobus, chiamiamo un amico. Così. Tra le mille cose che facciamo, ci sia anche questa, e anche a scuola, soprattutto nel tempo infinito che passiamo a scuola: aprire un libro, affondare nelle sue parole. Dieci minuti, mezzora, due ore, fa lo stesso. Affondare. E poi, naturalmente, riemergere, a far le cose che si devono fare: ma cambiati, ripuliti, nuovi.
Questo il mio augurio, a tutti, oggi che vorrei essere con voi, e ci sono soltanto con queste poche, insufficienti, parole: che la lettura diventi un’abitudine dolce, un gesto automatico e naturale, di normale sopravvivenza, in un mondo che ci appare sempre di più un deserto pieno di vuoti rumori ...
Grazie di avermi insegnato questo, grazie alle mie tre grandi maestre di Pavia, e a tutti voi.
Buona festa!" (da Paola Mastrocola, Lettera alla città di Pavia per 'Dieci minuti  a libro aperto', "La provincia pavese", 29/10/'14)

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venerdì 10 ottobre 2014

Nasce a Pavia un archivio di Hard Disk della letteratura


"Se le biblioteche vanno incontro al futuro, gli archivi non possono restare indietro. Vi siete mai chiesti che fine farà, nell’epoca del digitale, la conservazione di manoscritti d’autore, scartafacci, appunti, malloppi di carta pieni delle correzioni di poeti insoddisfatti? Probabilmente no. In ogni caso, non allarmatevi: tutto va per il meglio. La digitalizzazione dei materiali è un eroico atto di salvataggio e insieme un regalo all’umanità: ad Harvard, per esempio, hanno messo online milioni di pagine accessibili liberamente; da qualche settimana sul sito tolstoy.ru si possono vedere i diari dell’autore di Guerra e pace, un tesoro di quasi cinquemila pagine scaricabili in diversi formati.
Ma c’è di più: lo studioso può ingrandire decine di volte un vecchio manoscritto e decifrare ciò che all’occhio nudo è negato, come spiega Paola Italia nel suo avventuroso Editing Novecento (Salerno). La Rete non sembra dunque nemica dei letterati, anzi: Trifone Gargano, docente di Informatica per la letteratura all’università di Foggia ha appena pubblicato in proposito La letteratur@ al tempo di Facebook (Progedit) per fugare le ansie dei tradizionalisti. Certo viene da chiedersi che cosa studieranno i filologi in futuro: da venti o trent’anni il più degli scrittori ha abbandonato la penna e le Olivetti per comodissimi fogli Word. Addio carta, addio correzioni a mano, addio varianti!
Il computer le inghiotte, spostiamo virgole e cambiamo parole, ma nessuno lo saprà. Senza carta, l’archivio di un autore perde un po' di fascino, ma non interesse.
A Pavia si sono attrezzati: nell’università dove Maria Corti, nel ’72, aprì il Fondo manoscritti, è nato il progetto Pad (Pavia Archivi Digitali). In sintesi? Una squadra di giovani filologi guidati dal professor Paul Gabriele Weston chiede agli scrittori di oggi di donare il proprio hard disk. La squadra conserva, cataloga (e protegge): diverse stesure dello stesso libro, appunti preparatori salvati di fretta, articoli, progetti abortiti, carteggi in forma di email. Spiega Weston: 'E’ una macchina del tempo dell’opera: non si tratta solo di recuperare singole varianti, ma di osservare la stratificazione di un testo, la sua storia segreta'. La sfida di Pad è quella di offrire agli studiosi del presente e del futuro una rete di connessioni esplorabile a vari livelli, utile a ricostruire anche il contesto storico, sociale, editoriale in cui l’opera è nata. 'Per questo gli scrittori' continua Weston 'non sono semplici donatori, ma complici di questa scommessa. Dalle scoperte del lavoro filologico potrebbero essere sorpresi loro stessi'. Borges e Calvino si sarebbero divertiti. 'Se la carta sembra fragile, lo sono anche i supporti digitali, che cambiano rapidamente. Noi li custodiamo anche a vantaggio dei pronipoti dei filologi di oggi'". (da Paolo Di Paolo, Nasce a Pavia un archivio di Hard Disk della letteratura, "Il Venerdi' di Repubblica", 10/10/2014)

Le biblioteche di Babele


"Qualcuno di noi, in un futuro neppure troppo lontano, racconterà d’essersi da tempo barricato dentro a una biblioteca. Giustificherà la sua scelta dicendo: 'Dopo la calata dei barbari, e dopo uno strenuo, drammatico e soccombente tentativo di difesa, sono stato costretto a chiudermi dentro a una biblioteca. E qui starò, custode e guardiano, fin quando sarà passata la diffusa isteria che vorrebbe distruggere i libri. L’amabilissimo oggetto, il libro di carta, che per secoli ha surrogato la nostra memoria, a un certo punto era "andato fuori moda". Destinato all’infungibilità venne progressivamente sostituito da elettronici congegni e le biblioteche corsero il pericolo d’essere abbandonate e poi distrutte. S’era diffusa l’idea che le raccolte di libri fossero perniciose, una malattia per l’umana esistenza. D’altra parte, più di duemila anni fa, Giulio Cesare, assistendo all’incendio dell’antica Biblioteca d’Alessandria, a chi lo implorava di salvarla, aveva impietosamente risposto: Lasciatela bruciare, non è che memoria di infamie'.
E, ancora, confesserà quel qualcuno di noi, barricato nella biblioteca: 'Per quanto mi è consentito dalla sorte, tale a un monaco d’una sperduta abbazia del profondo medio evo, per chi verrà dopo di noi, starò qui a preservare la scrittura di cui si sta perdendo l’uso, a custodire l’onore della lingua ormai franta in balbettii ... Starò qui per salvaguardare il libro nella sua sublime imperturbabilità, mentre fuori, il mondo civile è ormai presa della svagatezza, della disattenzione, della trascuratezza, delle folgori elettroniche'.
A questo, con una visione dell’immaginario, anche un po’ insensata, corre subito la mente sfogliando l’appena pubblicato La Biblioteca. Una storia mondiale di James W. P. Campbell (Einaudi).
Libro di storie e di vedute, nelle cui pagine si possono contemplare le 'più belle biblioteche del mondo' tramite le fascinazioni fotografiche dovute a Will Pryce. Ma cos’è oggi una biblioteca? All’amoroso sguardo dell’appasionato esploratore, le biblioteche viste attraverso questo libro, più che luoghi del sapere, appaiono sotto specie di vere e proprie vestigia archeologiche. Un catalogo di luoghi estranei di cui salvare almeno l’aspetto 'visivo' prima che si trasformino in qualche desolata Pompei addormentata. E allora cos’è oggi una biblioteca?
“L’universo, che altri chiama biblioteca, si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie, con vasti pozzi ...”.
L’incipit che ne celebra il mito, un edificio destinato a contenere libri, è un fin troppo scoperto omaggio al sommo tra i bibliotecari, a Jorge Luis Borges.
'L’universo che altri chiama biblioteca' – avvio del suo iperbolico La Biblioteca di Babele – è un luogo non luogo, fuori del tempo. Null’altro che una collezione di volumi. Borges che era diventato cieco, sapeva tuttavia e perfettamente cosa stesse dentro a tutti i libri. Aveva percezione della memoria della storia universale che si è voluta tramandare prima su tavolette d’argilla, poi su rotoli di pergamena e nfine con quell’oggetto di definita essenza, pensato e realizzato nella sua compiuta forma fin dall’attimo della sua invenzione. Una struttura perfetta, mai mutata. Un libro può essere confezionato con eccezionalirà di lussi.
Impreziosito con legature regali, stampato su carte di ineffabile rarità. Può essere prodotto in totale economia, tipo un tascabile.
Libro è. Sempre e comunque un certo numero di pagine assemblate, da sfogliare. Ed è il libro con l’immutata sua forma che ha sempre determinato la struttura degli ambienti ove viene custodito. Cercato. Trovato. Scrutato. Dimenticato.
Tra i corridoi formati da fittissime pareti di tomi sovrapposti e muti, 'passa la scala a spirale che s’inabissa e ascende al remoto'.
Conturbante l’ordine-disordinato dei libri.
Una biblioteca pretende somigliare alla cartografia del razionale. In realtà altro non è che la rifrazione sulla terra della perfettissima scompaginazione del cosmo. Un controtipo disordinato, anche se tutti i volumi che compongono una ideale incomparabile raccolta, perfettamente giustapposti, sembrerebbero richiamare l’ineccepibile formalità di un teorema euclideo. Cioè un ordine biblioteconomico che fa del metodo di costruire una biblioteca una scienza a mezzo tra la burocrazia borbonica e la maniacalità. L’uomo aduna libri secondo schemi per trovare illusoria conferma della sua inutile ostinazione: comporre il disordine universale.
In realtà, nella loro apparenti immutabili sequenze, i libri tendono sempre a scombinarsi. Ed e‘ soltanto l’uomo, testardo, che volendo far quadrare i conti del caos, si affida fideisticamente alla capricciosità dell’ordine. E per memento dei propri ghirigori esistenziali, affinchè “gli eredi’’ e “i posteri’’ s’affannino nel labirinto delle eterne incertezze, consegna la memoria di sè, declinata su ogni paradigma dello scibile, alla totale fragilità di un oggetto che teme l’acqua, il fuoco, l’aria. Una roba in perenne pericolo di infungibilità. Il libro. L’oggetto fondante di ogni biblioteca del mondo. Superbe macchine del pensiero che funzionano nutrendosi di carta. Luoghi dove, sfoglicchiando appena un po’ di pagine giuste, si può contemplare nettamente la luce che si effonde, inondando ... Si vedono gli sterminati deserti, i poli, e dietro ai poli altri contentinenti, e dietro ai continenti le città, e oltre le città le coste ... Si vedono le navi che solcano gli oceani, poi le foreste, savane, catene montuose ... E dove, con i sensi alti, per un attimo, si può percepire l’inconcepibile segreto, il cui nome usurpano gli uomini. E’ questo un sunto maccheronico dell’Aleph (per continuare a riesumare il sommo Borges). Ma come si può comunicare la sensazione di esaltazione quando, nel sovrano silenzio di una sala di lettura, il fruscio delle pagine voltate s’effonde nell’animo con messaggi universali?
Adesso, fuori da ogni sgangherata metafisica d’accatto, si deve pur trattare dei luoghi dove tutto questo avviene. Occorre anche dar conto della casa dei libri, come i cinesi chiamano le biblioteche, che, sulla terra, a migliaia hanno agglutinato sotto i loro tetti, da che mondo è mondo, uno sprofondo di volumi.
Dai plutei e dalle scansie che sorreggono i cartacei impassibili e vivacissimi testimoni della memoria nostra, l’attenzione si sposta allora sulle strutture che adunano miliardi di memorie sparpagliate tra le pagine. Accumuli che esaltano il delirio della conoscenza. Lo splendore dell’intelligenza.
Le biblioteche illustrate nel volume La Biblioteca. Una storia Mondiale, individuate tra tante, dall’antichità ai tempi tecnologici nostri, sono una parade di architettoniche bellezze.  Presi da pensieri vagheggianti e demenziali, si è indotti qui a guardare i volumi ordinati a schiere, a scomparti, a piani sovrapposti, sistemati in scaffali di essenzialità conventuale, in anfratti le cui campate sono sostenute da svolacchiamenti angelici, volumi infratti tra voluto e auliche decorazioni, in fra dipinti e affreschi secondo il gusto e la fantasia che dominava il tempo in cui la biblioteca fu edificata. Sale solenni, congelate nei loro stili sontuosi: rigori formali dell’umanesimo, grazie opulente del barocco, impassibilità neoclassiche ... Contemplando le architetture delle biblioteche, immobili, deserte, congelate nelle loro magnificenze, contraddicendo ogni esaltazione che fa del libro il loro essenziale fondamento, pur nel rigoroso rispetto dell’aura dei volumi custoditi, affiora una sinistra e drammatica similitudine: le sontuose biblioteche somigliano a lussuosi cimiteri. Le grandi scaffalature hanno l’aspetto di superbi colombari. Il nome degli autori impresso sul dorso d’ogni libro muta nel paradigma immaginario delle epigrafi di un cinerario. Dietro a ogni dorso, in polvere cartacea, ostinatamente, nonostante i lussi in cui sono calati, persiste la memoria di esistenze. Silenziose. In attesa del miracolo. In quelle solennità architettoniche, che esistono soltanto in funzione del loro contenuto, si è portati a bisbigliare qualcosa che potrebbe somigliare a una preghiera: beato l’uomo capace di risvegliare un testo che equivale a resuscitare un morto. Che equivale a resuscitare l’umanità che ci ha preceduti, facendoci partecipi di un’etica universale. La conoscenza di se stessi. In un libro." (da Giuseppe Marcenaro, Le biblioteche di Babele, "Il Venerdi' di Repubblica", 10/10/2014)