venerdì 28 dicembre 2012

La resistenza del libro che profuma di carta

"È appena uscito un mio libro, ma non riesco a leggerlo perché, come milioni di persone, ho dei disturbi alla vista. Devo usare una lente di ingrandimento ed è una procedura lenta e macchinosa, perché il campo visivo è ristretto e non posso vedere una riga intera in un colpo solo, per non parlare di un intero capoverso. Quello di cui avrei davvero bisogno è un'edizione a grandi caratteri, che possa leggere (a letto o in bagno, che è dove leggo di solito) come qualsiasi altro libro. Alcuni dei miei libri precedenti sono disponibili in questo formato, e mi è preziosissimo quando devo fare una lettura pubblica. Ora mi dicono che una versione stampata a grandi caratteri non è "necessaria": ci sono i libri elettronici, che ti consentono di ingrandire a piacimento la dimensione dei caratteri.

Ma io non voglio un Kindle, o un Nook, o un iPad, tutta roba che potrebbe cadermi in bagno o rompersi, e ha comandi che per vederli mi servirebbe la lente di ingrandimento. Voglio un libro vero, fatto di carta stampata: un libro che abbia un peso, che odori di libro, come sono stati i libri negli ultimi cinque secoli e mezzo.

Voglio un libro che possa infilarmi in tasca o tenere insieme ai suoi confratelli sugli scaffali della mia libreria, riscoprendolo per caso perché mi ci cade l'occhio sopra. Quando ero ragazzo, alcuni dei miei parenti anziani, e anche un cugino giovane che vedeva male, usavano le lenti di ingrandimento per leggere. L'introduzione di libri a grandi caratteri, negli anni Sessanta, fu una manna dal cielo per loro e per tutti i lettori ipovedenti. Spuntarono fuori case editrici specializzate in edizioni a grandi caratteri per biblioteche, scuole e singoli lettori, e nelle librerie o nelle biblioteche trovavi sempre qualche libro del genere.

Nel gennaio del 2006, quando cominciai ad avere problemi alla vista, mi chiedevo come avrei fatto. C'erano gli audiolibri - qualcuno ne avevo registrato io stesso - ma io sono essenzialmente un lettore, non un ascoltatore. Sono un lettore incallito da quando ho memoria: spesso conservo nella mia mente quasi automaticamente numeri di pagina o l'aspetto dei capoversi e delle pagine, e sono in grado di trovare all'istante un certo passaggio in quasi tutti i miei libri. Io voglio libri che mi appartengano, libri la cui impaginazione intima mi diventi cara e familiare. Il mio cervello è tarato sulla lettura e quello che mi serve sono sicuramente i libri a grandi caratteri.

Ma oggi trovare testi di qualità in questo formato in una libreria è un'impresa. L'ho scoperto di recente quando sono andato da Strand, la libreria newyorchese famosa per i suoi chilometri di scaffali, dove mi rifornisco da mezzo secolo. Avevano una sezione (piccola) dedicata ai libri a grandi caratteri, ma era occupata prevalentemente da manuali e romanzi spazzatura. Nessuna raccolta di poesie, nessuna opera teatrale, nessuna biografia, nessun saggio scientifico. Niente Dickens, niente Jane Austen, nessuno dei classici; niente Bellows, niente Roth, niente Sontag. Sono uscito frustrato, e furioso: gli editori pensano forse che chi ha disturbi alla vista abbia anche disturbi al cervello?

Leggere è un compito enormemente complesso, che richiede l'intervento di varie parti del cervello, ma non è un'abilità che gli esseri umani hanno acquisito attraverso l'evoluzione (a differenza del parlare, che è in buona parte una capacità innata). Leggere è uno sviluppo relativamente recente, che risale forse a cinquemila anni fa ed è regolato da una minuscola area della corteccia visiva del cervello. Quella che oggi chiamiamo "area per la forma visiva delle parole" fa parte di una regione corticale che si è evoluta per riconoscere forme elementari in natura, ma che può essere riadattata al riconoscimento di lettere o parole. Questa forma elementare, o riconoscimento di lettere, è solo il primo passo.

Da questa area per la forma visiva delle parole bisogna creare connessioni bidirezionali a molte altre parti del cervello (tra cui quelle che sovrintendono alla grammatica, ai ricordi, alle associazioni e alle sensazioni) perché le lettere e le parole acquisiscano i loro significati specifici per noi. Ognuno di noi forma percorsi neurali unici associati alla lettura, e ognuno di noi apporta all'atto del leggere una combinazione unica non solo di ricordi ed esperienze, ma anche di modalità sensoriali. Alcune persone magari "sentono" i suoni delle parole mentre leggono (a me succede, ma solo quando leggo per piacere, non quando leggo per informazione); altri magari le visualizzano, consapevolmente o meno. Qualcuno può avere una percezione acuta dei ritmi acustici o dell'enfasi di una frase; altri sono più sensibili all'aspetto o alla forma.

Nel mio libro L'occhio della mente descrivo due pazienti, entrambi scrittori di talento, che avevano perduto la capacità di leggere a causa di un danno cerebrale all'area per la forma visiva delle parole, che è collocata vicino alla parte posteriore del lato sinistro del cervello (i pazienti affetti da questo tipo di alessia sono in grado di scrivere, ma non riescono a leggere quello che hanno scritto). Uno di loro, nonostante fosse un editore e amasse la carta stampata, per "leggere" si convertì seduta stante agli audiolibri, e invece di scrivere i suoi libri cominciò a dettarli. La transizione avvenne senza intoppi, apparentemente in modo quasi naturale. L'altro, un giallista, era troppo abituato a leggere e scrivere per rinunciarvi. Continuò a scrivere i suoi libri e trovò, o escogitò, un nuovo e straordinario modo di "leggere": la sua lingua cominciava a copiare le parole di fronte a lui, disegnandole sull'interno dei denti; in pratica leggeva scrivendo con la sua lingua, sfruttando le aree motoria e tattile della sua corteccia. Anche in questo caso la transizione sembrò avvenire in modo naturale. Il cervello di ognuno dei due, usando i propri punti di forza e le proprie esperienze specifiche, trovò la soluzione giusta, l'adattamento migliore alla perdita subita.

Per qualcuno che è nato cieco, senza nessun tipo di immagini visive, la lettura è essenzialmente un'esperienza tattile, attraverso i caratteri in rilievo dell'alfabeto Braille. I libri in Braille, come i libri a grandi caratteri, ora sono meno numerosi e meno facili da trovare, perché la gente si rivolge agli audiolibri, meno costosi e di più facile reperimento, o ai programmi vocali dei computer. Ma c'è una differenza fondamentale fra leggere e farsi leggere. Quando una persona legge attivamente, sia che usi gli occhi sia che usi le dita, è libera di saltare avanti o indietro, di rileggere, di fermarsi a riflettere o lasciar divagare la mente a metà di una frase: si legge con i propri tempi. Farsi leggere, ascoltare un audiolibro, è un'esperienza più passiva, soggetta ai capricci della voce di un'altra persona e che segue prevalentemente i tempi del narratore.

Se nel corso della nostra vita ci troviamo costretti ad apprendere nuovi modi di leggere, magari perché abbiamo sviluppato problemi alla vista, ognuno di noi deve adattarsi a suo modo: qualcuno si converte all'ascolto, altri continuano a leggere finché possono; qualcuno ingrandisce i caratteri sul lettore di e-book, altri i caratteri sul computer. Io non ho mai adottato nessuna di queste tecnologie: almeno per il momento rimango fedele alla buona vecchia lente d'ingrandimento (ne ho una dozzina, di forme e gradazioni differenti).

Gli scritti dovrebbero essere accessibili nel maggior numero di formati possibili: George Bernard Shaw chiamava i libri la memoria della razza. Non dobbiamo consentire la scomparsa di nessuna forma di libro, perché siamo tutti individui, con esigenze e preferenze fortemente individualizzate: preferenze radicate nei nostri cervelli a ogni livello, con i nostri modelli neurali e le nostre reti neurali individuali che creano un dialogo profondamente personale fra autore e lettore.'' (da Oliver Sacks, La resistenza del libro che profuma di carta, "La Repubblica", 27/12/2012; trad. di Fabio Galimberti)

Oliver Sacks su IBS

martedì 27 novembre 2012

Automate this



"Gli algoritmi hanno conquistato il mondo, scrive il giornalista e ingegnere Christopher Steiner in Automate This (Portfolio Penguin), uscito recentemente negli Stati Uniti. Una dittatura silenziosa, partita da Wall Street e giunta fino ai confini della nostra quotidianità.


Così, se nel 1945 perfino un visionario come Vannevar Bush, precursore della nozione di ipertesto, poteva scrivere che «pensiero creativo e ripetitivo sono cose molto diverse», e argomentare che solo per quest'ultimo ci possono essere «potenti aiuti meccanici», oggi tutto è cambiato. Come racconta il volume di Steiner, infatti, sono gli algoritmi a decidere quali canzoni saranno le prossime hit radiofoniche o a valutare il successo al botteghino di un film prima ancora che venga realizzato. Anzi, subordinandone la realizzazione alle stime di incasso computerizzate. Non solo: in alcuni casi l'algoritmo diventa l'artista. Un artista che non soffre di blocchi compositivi, non invecchia. E non teme rivali. Già nel 1987 Emmy, ideato dal professore emerito alla University of California di Santa Cruz, David Cope, è stato in grado di creare 5 mila composizioni sulla falsariga di Johann Sebastian Bach in una pausa pranzo. Dieci anni più tardi, le sue opere erano talmente credibili da indurre un uditorio di esperti a considerarle umane - passando così una sorta di test di Turing musicale. Alcuni si sono chiesti: lo spartito era di Cope o di Emmy?

Ma anche questa domanda sarà presto consegnata alla storia, dato che il nuovo algoritmo di Cope, Annie, «impara a imparare». Certo, Steiner ammette che c'è ancora un dominio dell'umano dove l'automazione arranca. Il poker, per esempio: regno dell'infingimento, del bluff, dell'irrazionale che si rivela tutt'altro che irrazionale. Ma se sono righe di codice a studiare la personalità dei clienti così da fornire a ciascuno l'interlocutore telefonico adatto (grazie ai suggerimenti del software, i call center risolvono il doppio dei problemi nella metà del tempo), e se gli indici di influenza online iniziano a determinare le nostre chance di successo nell'ottenere un posto di lavoro, si comprende come quel dominio sia destinato a restringersi ulteriormente.

«Il nostro futuro sarà pieno di bot che ci giudicheranno, indirizzeranno e misureranno», scrive l'autore, sostenendo che «l'abilità di creare algoritmi che imitino, migliorino, e da ultimo rimpiazzino gli esseri umani è l'abilità di primaria importanza dei prossimi cento anni». E che, di conseguenza, gli studenti dovrebbero puntare sulla programmazione: «Questi posti di lavoro non scompariranno».

Se creare algoritmi serve a combattere la crisi, giova ricordare come questi ultimi siano anche sul banco degli imputati. Il tema è materia di dibattito, ma non manca chi fa notare che se oggi il mercato azionario statunitense è controllato per il 60% da algoritmi senza alcuna supervisione umana, e se il mercato fallisce, è impossibile considerare l'automazione del tutto innocente.

In un'epoca in cui si investono milioni e milioni di dollari e si squarcia il terreno per posare connessioni in fibra ottica che consentano un vantaggio competitivo di pochi millisecondi, il panico finanziario è questione di istanti. Come per il cosiddetto «flash crash» del 2010, quando pochi minuti sono bastati per far perdere, e poi altrettanto misteriosamente riguadagnare, circa 1.000 punti (il 9%) all'indice Dow Jones. All'epoca cinque secondi di stop alle transazioni furono sufficienti per fermare la spirale distruttiva, ma il problema è che - a distanza di due anni - non c'è ancora chiarezza su cosa sia realmente successo. È un aspetto imprevisto della dittatura dell'automatico: non necessariamente coincide con una perfetta conoscenza e prevedibilità delle sue conseguenze. Anzi, «stiamo scrivendo cose che non riusciamo più a leggere», ammoniva il consulente e imprenditore tecnologico Kevin Slavin a luglio 2011 durante una conferenza Ted in cui parlava dell'intrusione degli algoritmi nella creatività come della «fisica della cultura».

E se interagire con altri esseri umani dovesse diventare un problema da risolvere attraverso un numero finito, e prestabilito, di passi? La domanda non è peregrina, dato che la scuola, l'ospedale e perfino la politica, secondo Steiner, sono i prossimi territori di conquista dell'automazione. Non c'è il rischio di spersonalizzare i rapporti sociali? «Sarà una sfida», risponde l'autore alla «Lettura», immaginando il futuro: «Credo che finiremo per avere una società segregata non solo secondo fattori classici quali reddito e razza, ma anche secondo il crinale che separerà chi cercherà attivamente interazioni umane da chi non lo farà».

Comunque vada, il rischio è che l'offerta di prodotti culturali, alla mercé del giudizio di un codice, sia sempre più omogeneizzata. Steiner concorda. Perché, da un lato, è vero che «le nostre classifiche di musica pop traboccano già di musica assolutamente generica, a volte straziante». Ma, dall'altro, «dobbiamo chiederci: un algoritmo troverebbe i Nirvana?». Difficile, dato che parte della grandezza della band di Kurt Cobain è stata proprio portare alle masse ciò che prima si riteneva di nicchia. Più in generale, pensando alla quantità di funzioni svolte dagli algoritmi - dai motori di ricerca alla crittografia, dal riconoscimento facciale all'e-commerce - parrebbe corretto concludere, con l'imprenditore John Bates, che siano «i nuovi schiavi». Ma, all'alba di un'epoca in cui imparano ad autoregolarsi, il rovesciamento di prospettiva diventa un'ipotesi da prendere in seria considerazione. Senza necessariamente sposare l'assunto computazionalista - la mente è un calcolatore, quindi dal calcolo può nascere una mente - che aleggia in tutto il testo di Steiner. E che forse ne motiva l'unico difetto: la mancanza di approfondimenti critici.

Dopotutto, il titolo (in italiano «Automatizza questo») si presta a una lettura di segno opposto: questo, cioè una riflessione sui limiti degli algoritmi, è ancora impossibile da automatizzare." (da Fabio Chiusi, La dittatura degli algoritmi, "Corriere della sera", 25/11/2012)

martedì 25 settembre 2012

Sono nato in America



"Credo che Italo Calvino non avrebbe mai raccolto in volume le sue interviste, che Luca Baranelli e Mario Barenghi hanno curato con grande attenzione per la casa editrice Mondadori, Sono nato in America. Interviste 1951-1985). Calvino diceva di provare una specie di disgusto, e addirittura di schifo, per la parola parlata: questa cosa molliccia e informe, che riempiva la bocca e usciva dalla bocca come una pappa; questo balbettio confuso, che farfuglia e procede a tentoni. Ma Calvino aveva torto. Sono nato in America è un libro bello, intelligente e piacevolissimo, che affascinerà molti lettori. Non ha nulla di molliccio: nessun balbettio informe. Queste pseudointerviste sono scritte in una lingua scorrevole, che non è parlato, ma imita elegantemente, e da lontano, un parlato immaginario.

La cosa che più colpisce in Sono nato in America è la curiosità che Calvino prova verso se stesso: una curiosità divertita, insaziabile, disperata, che non lo abbandonò mai dalla giovinezza al settembre 1985, quando il terribile ictus lo abbandonò al suolo sulla riva del mare. Calvino era curioso di sé stesso senza possedere un io, e soprattutto senza ostentarlo: non c'è una sola pagina qui, e in generale in tutta la sua opera, in cui egli si esibisca, si esalti, o aggredisca gli altri scrittori, vedendo in loro dei rivali o dei nemici. Non avrebbe potuto essere più discreto. Calvino non era un io: ma una serie sterminata di figure e di personaggi, che gli assomigliavano almeno in parte. Qui lo troviamo giovane, mentre aveva bisogno di nascondersi, perché si sentiva come senza guscio: lo ritroviamo maturo, quando, al contrario, aveva l'illusione di essere un guscio che gli faceva da nascondiglio, dovunque egli fosse. Fingeva di diventare vecchio precocemente, così da avere una vecchiaia lunga, vivendola in condizioni fisiche robuste. Fingeva persino - lui che era la persona più mite della terra - di essere un vecchio astioso, malefico, un po' ripugnante e bieco. Oppure fantasticava - al tempo di Palomar - di trasformarsi in un signore grasso, calvo, che innaffiava i fiori del suo giardino, con un cappello di paglia in testa, e calzoni corti che gli arrivavano al ginocchio, come se lui, così magro, nascondesse in sé stesso un inverosimile corpo grasso.


Qualche volta Calvino immaginava di essere uno scrittore ideologico e meccanico. Parlava di ideologie, di progetti scrupolosi, di partiti presi, di meccanismi, di programmi esattissimi, come se tutto quello che scriveva fosse stato deciso e stabilito prima della scrittura. È un autoritratto completamente falso, che va attribuito sopratutto ai critici ed editori francesi, che vedevano in lui un uomo-macchina e nei suoi libri dei meccanismi. In realtà, la parola che ritorna più spesso in queste interviste è l'amatissimo dubbio: non sa quello che fa, è incerto, cambia, muta, si contraddice, va indietro, avanti, guarda dall'altra parte. Abita sempre nel non so dove; e la pedagogia del dubbio e del non so dove è l'unica che possa insegnare agli uomini del suo tempo. «Ogni volta che scrivo un libro cerco di cominciare ex novo, come se fosse il primo libro che scrivo». «Scrivo ogni libro come se fosse il primo, come se non avesse rapporto con nessuno degli altri».

Quando Giulio Nascimbeni andò a trovarlo nella casa di Roma, trovò cinque tavoli di lavoro, su ognuno dei quali Calvino scriveva contemporaneamente cose diverse. Ci viene in mente la storia di Pascoli, che scriveva le Myricae, i Canti di Castelvecchio, i Nuovi poemetti, i Poemi conviviali e i testi latini su tavole diverse della sua stanza. Ma c'è un caso molto più grandioso: a distanza di pochi giorni, Leopardi scriveva dei Canti o delle Operette morali o pagine dello Zibaldone, ispirate a immagini, idee, visioni del mondo che si opponevano a vicenda, come se muovesse contemporaneamente la mano in molte direzioni. Così, esistono nello stesso tempo cinque, sei, sette Calvino, che giocano l'uno con l'altro. Quando finisce di scrivere un testo, Calvino (e i suoi lettori) non vedono mai un programma ideologico realizzato, ma dei testi mobilissimi, dove si agita la più libera immaginazione intellettuale: una geometria mentale, che si abbandona alla forza del vagabondaggio e del ricamo. Tutto è contraddizione: quella geniale contraddizione che ispira sia le grandi religioni sia la grande letteratura.

«Scrivo poco, pochissimo, quasi niente», assicura di continuo i suoi intervistatori. E quel poco che scrivo - aggiunge - mi costa un'immensa fatica: non è altro che un correggere il corretto, cancellare il cancellato, «ogni frase suppone un lavoro interminabile», Calvino dice con un accento stranissimo, a metà tra la gioia e la disperazione. Sulla sua calligrafia scrive un pezzo impagabile: «Io scrivo a mano. Faccio una prima stesura e poi correggo tanto, faccio tanti incisi, sempre più piccoli, così piccoli che alla fine non ci capisco più niente e debbo prendere la lente per decifrare quello che ho scritto ... Scrivendo piccolo piccolo, mi illudo di superare la difficoltà, di passare come attraverso cespugli che mi sbarrano la strada. Mi è difficile decifrare quello che ho scritto, anche se prima o poi ci riesco. Alle volte ci riesco soltanto ricostituendo quello che avevo pensato, e mi accorgo allora che nella stesura mi ero mangiato parecchie lettere o intere sillabe». Non si accontenta di definire la sua opera «stitica»: dice che, in fondo, le dedica pochissimo tempo. La mattina non fa che rinviare il momento di scrivere: poi esce a comprare i giornali (giornali che, peraltro, non legge, centellina appena), talvolta attraversando intere città; dopo cena, non scrive, perché se scrivesse, non riuscirebbe a dormire. Gli restano pochissime ore del pomeriggio, nelle quali scrive avvolto dal chiacchiericcio e dalle telefonate della moglie e della figlia: condizione che per me sarebbe infernale, ma per lui (come per Attilio Bertolucci) era invece nutritiva e fonte di ispirazione.

Così Calvino, parlando coi suoi intervistatori, ripete di essere uno scrittore sterile e arduo, autore di un'opera breve. «Sono sempre stato avaro di parole - dice -. Sono ligure, mia madre è sarda: ho la laconicità di molti liguri e il mutismo dei sardi, sono l'incrocio di due razze taciturne»; e così - insiste - sarebbe anche come scrittore. In realtà il caso di Calvino è (almeno per questo aspetto) abbastanza simile a quello di Gadda: caso di una vocazione feconda a abbondantissima, che riesce a esprimersi in tutte le forme e in tutti i modi - romanzi, racconti, saggi, recensioni, articoli, interviste, lettere. Come esempio di vastità e di rapidità, basta pensare al meraviglioso libro delle Fiabe italiane, dove la sua invenzione fu liberissima: lo compose in un tempo cinque volte minore di quello che sarebbe stato necessario a qualsiasi altro scrittore. O a queste interviste, che sono quasi sempre testi scritti: sono centouno, per un totale di 658 pagine; ma altre centoventisette sono state escluse dal curatore. E poi, sì, certo, la fatica, l'ansia, la correzione: ma quando Calvino è bello (quasi sempre), tutta questa fatica si scioglie in leggerezza. Mi accorgo che la parola non basta: quello di Calvino è una specie di balzo, spesso vertiginoso, al di là e al di sopra della materia fisica e verbale.

Calvino dice che non ha un vero interesse, né nella vita né nella letteratura, per tutto ciò che è psicologia; e ha perfettamente ragione. Ma ha torto quando afferma, in modo parallelo: «Le devo confessare che, per natura, non sono un osservatore». L'osservazione, in Calvino, è acutissima, ma avvolta da una specie di discrezione e silenzio mentale. Ricordo l'episodio di un viaggio compiuto in comune in Iran, circa quaranta anni fa. Eravamo insieme a Persepoli: uno dei luoghi più belli della Terra; almeno tre giorni sono necessari per osservare, con attenzione, quelle infinite statue e bassorilievi, sebbene siano spesso variazioni degli stessi temi e delle stesse figure. Calvino sembrava distratto e ozioso: come se Persepoli non gli interessasse o le dedicasse un'attenzione mediocre. Io mi irritai. Quattro anni dopo, lessi sul «Corriere della Sera» tre o quattro articoli su quel comune viaggio in Iran. C'era tutto: meravigliosamente visto e osservato, nei minimi particolari, e nelle conseguenze intellettuali che se ne potevano trarre. L'apparente distrazione rendeva più acuto, complesso e vasto il suo sguardo di osservatore.
Su Venezia scriveva le stesse cose che, molto tempo dopo, mi diceva Federico Fellini, quando negli ultimi anni di vita voleva fare un film sui canali e la laguna. «Nulla dà l'idea di una dimensione in più quanto le case di Venezia le cui porte s'aprono sull'acqua ... Quella è la vera porta, mentre l'altra, che dà sul campo o sulla calle, è solo una porta secondaria. Ma basta riflettere un momento per capire che la porta sul canale collega non a una particolare via acquatica, ma a tutte le vie dell'acqua, cioè alla distesa liquida che avvolge tutto il pianeta». Venezia, per lui, era l'esempio di ogni vera città e dei suoi percorsi. Immaginava una città piena di canali navigabili a diverse altezze: strade ferrate sotterranee o subacquee o sopraelevate; vie per pedoni, per ciclisti, per auto, per camion, dove avrebbero circolato le biciclette, i cavalli, i muli, i cammelli e persino le zebre (di cui parlava Fourier), che dovevano servire a portare i bambini a scuola. Specie al tempo delle Città invisibili, inseguiva con l'immaginazione una città che comprendesse tutte le città assieme; o la vera città messa assieme da frammenti di città particolari.

Calvino amava Amsterdam, Isfahan, Parigi, Roma: soprattutto New York, verso la quale nutriva un'ammirazione estatica. Ma, di fatto, la sua vera città era l'universo: dalle profondità degli Oceani alle profondità delle Galassie. «Credo - aggiungeva - in una società di tutti gli esseri viventi, e delle piante, e degli oggetti e delle pietre». Molto ci ricorda le visioni e i deliri dei poeti romantici inglesi e della Ginestra di Leopardi. «Il mondo è talmente ricco e inesauribile che la scrittura non può mai tenergli dietro ... Al di là dello scritto vorrei che si sentisse che c'è la molteplicità e l'imprevedibilità dell'esistente». Per questo, in tutta la sua vita, amò con più passione due libri: il De rerum natura di Lucrezio e le Metamorfosi di Ovidio; la totalità della materia, la totalità della mitologia." (da Pietro Citati, Calvino e il gioco dei destini incrociati, "Corriere della Sera", 24/09/'12)

martedì 21 agosto 2012

The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore




"Da app a cortometraggio d'animazione, che ha perfino vinto un Oscar. Per poi diventare libro illustrato, appena uscito in libreria per Simon & Schuster. Ma non è finita qui: grazie ad una nuova applicazione chiamata Imag-N-O-Tron, i disegni di The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore dei Moonbot Studios ora possono prender vita se inquadrati con la fotocamera dell'iPhone e dell'iPad. E questo significa personaggi che compaiono fra le pagine all'improvviso, musica e suoni, piccole animazioni che si aggiungono alle tavole. Tutto grazie alla cosiddetta "realtà aumentata", augmented reality, tecnologia che sovrappone elementi digitali a quel che ci circonda quando viene guardato attraverso una webcam, uno smartphone o un tablet. Parlare di nuovo genere letterario tout court forse è una esagerazione. Ma considerando la statura dei personaggi che stanno lavorando a questo tipo di libri il dubbio viene. Cominciando da Joanne Rowling, l' autrice della saga di Harry Potter, che assieme alla Sony ha concepito Book of Spells per PlayStation 3, atteso per questo autunno.
«È cominciato tutto due anni fa», racconta Dave Ranyard, omone dall'accento britannico a capo del team che ne ha curato la realizzazione. «Stavamo lavorando con la Rowling al suo social network, Pottermore, e le mostrammo un prototipo di libro a realtà aumentata. A lei piacque e decise di scrivere un volume di incantesimi». E così, impugnando il controller move della PlayStation 3 come fosse una bacchetta magica, potremo interagire con la storia di Book of Spells facendo sorgere dalle pagine castelli e draghi, toccando parole chiave del testo, lanciando sortilegi e saette. «È un versione moderna dei libri pop-up di una volta, arricchita dalla potenza del digitale e con una trama completamente nuova legata all'universo di Harry Potter», continua Ranyard. Il libro fisico, un volume con quattro pagine pieno di loghi da porre davanti alla webcam collegata alla console, sarà gratuito. Il software che permetterà di animarlo invece avrà lo stesso prezzo di un videogame tradizionale, dunque 60 euro circa. Che sono tanti per un libro, anche se a "realtà aumentata". Ma alla Sony sono fiduciosi. Puntano sul nome e non solo quello della Rowling. Già, perché Book of Spells è solo il primo. Ne seguiranno altri, da Walking with Dinosaurs della Bbc a Diggs Nightcrawler, realizzato guarda caso proprio dai Moonbot Studios. Un noir scritto dallo stesso William Joyce, che Newsweek nel 2011 nominò fra le cento personalità più influenti in circolazione. Uno capace di passare con nonchalance dalle illustrazioni, pubblicate spesso e volentieri sul New Yorker, ad animazioni hollywoodiante del calibro di Toy Story. Per poi fondare i Moonbot Studios con Brandon Oldenburg, mago degli effetti speciali. Certo, i limiti di questa nuova letteratura sembrano ancora tanti. Bisogna per forza passare per uno schermo, quello della tv o dell' iPhone, e non sempre il sistema funziona a dovere, soprattutto nei volumi di Sony, chiamati Wonderbook. Ma in prospettiva è un genere che potrebbe diventare importante. Perché tutti stanno puntando alla realtà aumentata, cercando di superare smartphone e webcam. Basti pensare agli occhiali di Google, i Google Glass, che usciranno nel 2013. O ai Fortaleza Glasses, che Microsoft pare stia sviluppando. E anche Apple e Sony hanno registrato brevetti per dispositivi del genere. Insomma, dai contenuti alle tecnologie, i protagonisti coinvolti non sono esattamente nomi qualunque." (da Jaime D'Alessandro, Magie ed effetti virtuali. La doppia vita del libro. "La Repubblica", 18/08/'12)

martedì 14 agosto 2012

A Life with books


Julian Barnes: my life as a bibliophile (The Guardian)


"Ho vissuto nei libri, per i libri, secondo i libri e con i libri; in anni recenti ho avuto anche la fortuna di vivere di libri. Ed è attraverso i libri che per la prima volta ho capito che esistevano altri mondi oltre il mio; che ho cercato per la prima volta di immaginare cosa si prova nei panni di un altro; che per la prima volta ho incontrato quel legame profondamente intimo che nasce quando la voce di un autore si insinua nella mente di chi lo legge. È stato forse un bene che i primi dieci anni della mia vita non abbiano conosciuto la concorrenza del televisore; e che quando a casa finalmente ne arrivò uno, rimase sotto lo stretto controllo dei miei genitori. Erano entrambi insegnanti, quindi il rispetto per i libri e ciò che contenevano erano impliciti. Non andavamo in chiesa, ma andavamo in biblioteca. (...) Possedere un certo libro - un libro che ti eri scelto da solo - equivaleva a un atto di autodefinizione. E quella autodefinizione andava protetta, fisicamente. Per questo coprivo i miei libri preferiti (in edizione inevitabilmente economica, per motivi di ristrettezze finanziarie) con una pellicola adesiva trasparente. Prima ancora, però, in un corsivo recentemente acquisito, annotavo il mio nome sul margine della parte interna della copertina con un inchiostro blu, sottolineandolo di rosso. Tagliato e adattavo poi la pellicola in modo che questa proteggesse anche la firma che stabiliva la proprietà del volume. Alcuni di questi libri - ad esempio le traduzioni dei classici russi di David Magarshack per la Penguin - si trovano ancora oggi sui miei scaffali. L'autodefinizione era una sorta di magia. Lentamente, con il tempo, ne conobbi un' altra: quella del libro usato, di seconda mano, non nuovo. Ricordo una fila di prime edizioni di Auden esposte nella vetrina di un vicino di casa: un uomo che decenni prima aveva realmente conosciuto quell' autore, insieme al quale aveva addirittura giocato a cricket. Circostanze che mi sembravano strabilianti. Non avevo mai poggiato lo sguardo su uno scrittore, né avevo mai conosciuto una persona che ne avesse incontrato uno. Mi era capitato forse di sentirne uno o due alla radio, e vederne uno o due alla televisione, intervistati a 'Faccia a faccia' da John Freeman. Ma il nesso più intimo che collegava la mia famiglia e la letteratura era rappresentato dal fatto che mio padre aveva studiato lingue moderne all'università di Nottingham, dove insegnava Ernest Weekley, la cui moglie era scappata con D. H. Lawrence. Oh, e una volta mia madre aveva scorto su un binario della stazione di Birmingham R. D. Smith, marito di Olivia Manning. Ora però mi trovavo di fronte a dei libri appartenenti a un uomo che aveva conosciuto di persona uno dei più famosi poeti viventi del Paese. Non solo: quei volumi contenevano le parole di Auden così com' erano state scritte in origine. Percepivo acutamente questa magia, e provai il desiderio di possederne una parte. Così, a partire dagli anni dell' università divenni un collezionista, oltre che un fruitore, di libri - e scoprii che non tutte le librerie erano di proprietà di WH Smith. Nei dieci anni che seguirono, o giù di lì - dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta - divenni un instancabile cacciatore di libri. Mi recavo nelle cittadine dei mercati e nelle città delle cattedrali alla guida della mia Morris Traveller, che caricavo di libri acquistati a un ritmo che eccedeva di gran lunga quello di ogni possibile velocità di lettura. (...) Già a quell' epoca probabilmente preferivo i libri usati a quelli nuovi. In America li chiamavano con disprezzo "libri vecchi", ma era proprio a quella continuità di fruizione che dovevano parte del loro fascino. Un libro offriva la sua visione del mondo a una persona, poi a un'altra, e così via per generazioni; mani diverse avevano stretto lo stesso volume traendone degli insegnamenti talvolta uguali, talvolta diversi. I libri usati dimostravano la loro età: tradivano i segni del tempo così come la pelle degli anziani è costellata da macchie senili. Inoltre avevano un buon odore - anche quando puzzavano di sigarette e (occasionalmente) di sigaro. Molti poi rivelavano al loro interno delle testimonianze odorose: annunci di case editrici ormai scomparse e vecchi segnalibri - spesso con la réclame di qualche compagnia di assicurazione o della saponetta Sunlight. Ogni volta che potevo mi recavo a Salisbury, Petersfield, Aylesbury, Southport, Cheltenham o Guildford per infilarmi nel retro dei negozi, nei magazzini e nei depositi. Nei luoghi dove le rilegature erano pregiate o la consapevolezza del valore di ogni articolo in vendita troppo acuta, mi trovavo decisamente meno a mio agio. Preferivo il democratico disordine di un negozio le cui merci erano disposte approssimativamente e dove fosse possibile concludere buoni affari. A quei tempi il turbinoso avvicendarsi dei titoli che la gestione centralizzata delle librerie impone non esisteva, nemmeno nei negozi che vendevano libri nuovi. Oggi un nuovo romanzo in edizione cartonata rimane sugli scaffali di una libreria in media per quattro mesi - sempre che riesca ad approdarvi. A quell'epoca invece i libri sostavano sugli scaffali sino a quando qualcuno li comprava, o non erano messi a malincuore in offerta, o trasferiti al reparto dell' usato, dove potevano rimanere per anni. Spesso quel libro che non potevi permetterti o non eri sicuro di desiderare sul serio era ancora lì al tuo ritorno, l'anno successivo. I negozi di seconda mano insegnavano inoltre che uno scrittore può finire fuori moda. Morgan, Walpole, Yates, Lytton, Ellen Wood ... metri e metri di scaffali delle loro opere attendevano che il vento della moda cambiasse nuovamente direzione. Ma accadeva di rado. Acquistavo libri con una foga che con il senno di poi riconosco essere stata una sorta di dipendenza: la bibliomania dopotutto è un disturbo noto. L'acquisto dei libri consumava di certo più della metà del mio reddito disponibile. Compravo le prime edizioni degli scrittori che più ammiravo: Waugh, Greene, Huxley, Durrell, Betjeman. Compravo le prime edizioni di poeti vittoriani come Tennyson e Browning (senza aver letto né l' uno né l'altro), semplicemente perché mi sembravano incredibilmente economiche. Il mio collezionismo (o, forse, feticismo) ha iniziato a scemare dopo la pubblicazione del mio primo romanzo. Forse, inconsciamente, ho pensato che essendo ormai in grado di produrre da solo delle prime edizioni avevo meno bisogno di possedere quelle di altri. Ho persino iniziato a vendere dei libri, cosa che un tempo avrei giudicato inconcepibile. Non che questo abbia rallentato il ritmo dei miei acquisti: continuo a comprare libri più velocemente di quanto riesca a leggerli. Ma, ripeto, lo ritengo assolutamente normale: sarebbe proprio strano circondarsi solo della quantità di libri che si avrà il tempo di leggere negli anni che ci restano da vivere. Inoltre, rimango profondamente attratto dai libri e dalle librerie. Sia gli uni che le altre oggi subiscono delle pressioni enormi. In una libreria il mio ultimo romanzo vi sarebbe costato 12,99 sterline, ma circa la metà (più spese postali) se acquistato online e solo 4,79 sterline se scaricato su Kindle. I vantaggi economici appaiono incontrovertibili, ma per fortuna la lettura e l'acquisto dei libri non sono mai stati del tutto determinati da fattori economici. Verso la fine della sua esistenza John Updike era diventato pessimista circa il futuro del libro stampato: «Chi, in quel futuro inimmaginabile leggerà quando sarò morto? La pagina stampata è stata un breve miracolo durato solo metà millennio ...». Io sono più ottimista, sia per quanto riguarda la lettura che i libri. I non-lettori, i cattivi lettori, i lettori pigri esisteranno sempre - e sono sempre esistiti. La maggioranza delle persone sa leggere, ma solo una minoranza di loro fa di questa competenza un'arte. Tuttavia, nulla può sostituirsi a quella precisa, complessa, sofisticata comunione tra un autore assente e il suo lettore, assorto e presente. Né credo che gli e-reader prenderanno mai del tutto il posto dei libri - anche se dovessero superarli numericamente. Ogni libro è diverso al tatto e alla vista, mentre le opere scaricate su Kindle sono tutte esattamente uguali (benché forse un giorno gli e-reader saranno dotati di una funzione "olfattiva" che con un click permetterà al vostro romanzo elettronico di Dickens di emanare odore di carta umida, del passare del tempo e di nicotina). I libri dovranno guadagnarsi la propria sopravvivenza - e altrettanto dovranno fare le librerie. I libri dovranno diventare più desiderabili: non beni di lusso, ma oggetti ben disegnati, accattivanti, capaci di suscitare il desiderio di prenderli in mano, comprarli, regalarli, conservarli, farci pensare di rileggerli e ricordarci, ad anni di distanza, in quale edizione abbiamo scoperto qualcosa per la prima volta. Non nutro alcun pregiudizio luddista contro le nuove tecnologie; è solo che i libri sembrano contenere conoscenza, mentre gli e-reader danno l'impressione di contenere informazioni. I libri che mio padre vinse a scuola sono ancora oggi sui miei scaffali, a novant'anni di distanza. Preferisco leggere le poesie di Goldsmith su quelle pagine anziché online. Lo scrittore americano e dilettante Pearsall Smith disse un volta: «Alcune persone pensano che ciò che conta è vivere; io però preferisco leggere». La prima volta che lessi questa frase mi sembrò arguta; adesso invece la trovo - al pari di molti aforismi - una falsità ben confezionata. Vivere e leggere non sono attività separate. La loro distinzione è fittizia (come la scelta tra «perfezione della vita o perfezione del lavoro» ipotizzata da Yeats). Quando leggi un bel libro non fuggi dalla vita, ma ti ci immergi più in profondità. Esiste forse un elemento superficiale di evasione - in paesi, tradizioni, modi di parlare diversi - ma di fatto leggendo non facciamo che approfondire la nostra comprensione delle sfumature, dei paradossi, delle gioie, dei dolori e delle verità della vita. Lettura e vita non sono separate, bensì simbiotiche. E per questo impegnativo compito di scoperta e scoperta di sé esiste e rimane uno strumento perfetto: il libro stampato." (da Julian Barnes, Per noi bibliofili i libri contengono conoscenza mentre gli ebook raccolgono informazioni, "La Repubblica", 12/08/'12; traduzione di Marzia Porta; il saggio integrale A Life with books è uscito in Gran Bretagna da Jonathan Cape per la Independent Booksellers' Week)





sabato 11 agosto 2012

Dai libri illustrati alle App, così i bambini sono meno liberi


"Credo di aver imparato il significato del termine divulgazione ben dopo aver preso la patente. Quando ero bambino passavo gran parte delle mie giornate tra le pagine di ''Vita Meravigliosa'', un'enciclopedia dove gli argomenti più disparati erano esposti senza ordine: Chopin, il mosaico, i calabroni, il rame, le teleferiche. Era riccamente illustrata, e, allora come oggi, i disegni sono insuperabili per suscitare il senso di immedesimazione dei bambini e la loro curiosità. Gran parte dei miei interessi deriva da quelle giornate, e da quel genere di libri: hanno sempre rappresentato una quota di mercato minoritaria rispetto alla narrativa, ma di importanza fondamentale. Nel 2010 accanto all'80,58% di libri di fiction, le 450 novità divulgative comprendevano 16 tra dizionari ed enciclopedie, 138 libri di "natura" (animali, alberi e dinosauri), 60 biografie, storia e geografia, e quasi altrettanti libri di scienza e tecnologia (i bambini sembrano adorare i trattori). La divulgazione scientifica sembra aver tenuto il passo, pur se in una costante caduta che, a due anni di distanza dagli ultimi dati disponibili, si è ulteriormente accentuata.

Nonostante tutto, i genitori sembrano ancora apprezzarli: Anna Parola, dalla Libreria Ragazzi di Torino, lamenta come gran parte dei libri di divulgazione in Italia siano concentrati su materie non umanistiche. Va fortissimo il corpo umano, ma non la sessualità, i castelli medievali, ma non le crociate. Ci sono editori specializzati, come Editoriale Scienza e Lapis, ci sono piccoli sperimentatori (Dedalo), grandi collane (le Brutte Scienze di Salani), marchi popolari (Focus), libri fotografici (Ippocampo) e carnet di viaggio illustrati (EDT). Ma in generale "fare un buon libro di divulgazione è più difficile", ci spiegano alla storica Libreria Stoppani di Bologna. "I bambini appassionati sono attentissimi e precisi e a loro non sfugge nemmeno un errore". Colpa delle case editrici, quindi? Alla libreria Jolly di Verona, dove non si vende un libro di divulgazione da mesi, il titolare Claudio ha un'altra spiegazione: sono cambiati i genitori. Sono loro che preferiscono informarsi smanettando con gli smartphone. E i ragazzi, orfani di libri negli scaffali di casa, fanno altrettanto.
Le App divulgative per ragazzi sono un fenomeno in forte crescita, all'estero più che in Italia, dove la disponibilità di scelta è sconsolante. In una recente ricerca su 2000 genitori inglesi, il 75% ha dichiarato di condividere l'uso delle App con i figli (percentuale che sospetto salga al 100% pur di tenerli buoni al ristorante) e il 56% di possedere almeno una App richiesta dai bambini stessi. Il 37% considera, poi, le App una parte integrante del proprio capitale culturale. La maggior parte delle App divulgative sono concentrate nella fascia prescolare: per imparare lettere e parole, suoni e colori, numeri ed economia domestica. I bambini si dimostrano bravissimi a utilizzarle, è vero, ma questo è solo un aspetto. Per poter cominciare ad apprendere, infatti, occorre loro un telefono o un tablet (che costa), un genitore digitalmente competente (e se è affidato ai nonni?), che sia sempre presente (o ben presto il tablet si romperà). La curiosità del bambino, che con i vecchi libri si poteva esercitare semplicemente guardando le illustrazioni, è ora sottoposta a quella del genitore, unico in grado di orientarsi nelle librerie online, con domande tipo: esisterà una App che mi consente di insegnare a mio figlio a costruire un uccello e vederlo volare? (sì, c'è e si chiama ''Build a Bird'').

Non è comunque un'impresa facile, perché, a differenza delle librerie specializzate, i vari "store" non possiedono aree dedicate ai bambini, e i giovani aspiranti enciclopedisti dovranno saltare di categoria in categoria, prima di trovare ciò che cercano. Magari dovranno leggersi un paio di articoli per capire se ''Star Walk'', una App che per conoscere tutto di stelle e costellazioni, è adatta al suo bambino di quattro anni. E come sapere se le ricostruzioni 3D di ''Virtual History'' saranno meglio di un libro illustrato sull'Antica Roma? Chi non crede in queste formule di apprendimento arricchito ricorda bene il periodo in cui sembrava indispensabile acquistare un'enciclopedia su dvd, tipo l'Encharta di Microsoft, un fallimento spazzato via dall'intuizione collaborativa di Wikipedia, il luogo dove ogni curiosità viene soddisfatta da un'informazione ridotta al suo minimo comun denominatore, l'errore è all'ordine del giorno e la responsabilità per l'errore del tutto trascurabile.

E chi non crede nel futuro dei libri, invece, sa che per gli stessi motivi l'Enciclopedia Britannica, fiore all'occhiello della borghesia inglese, ha smesso di stampare i suoi volumi. Myron Taxman, che li ha venduti porta a porta per 28 anni, dice che "bisognerebbe comprarsi le ultime 4000 copie rimaste, e rivenderle tra un po' come oggetti di antiquariato". E chissà che non abbia ragione. Nel frattempo ci si interroga, piuttosto inutilmente, se consultare una App sia meglio o peggio che leggere un libro. Gli ultimi esperimenti (Korat, 2008) mostrano che non solo ai bambini i libri elettronici piacciono più di quelli tradizionali, ma anche che ne ricordano meglio i contenuti e sono più rapidi a rispondere alle domande di comprensione testuale. I piccolissimi (3-5 anni), imparano più velocemente a riconoscere suoni e parole, rispetto ai libri letti a voce alta da un adulto. Tutto vero, forse.

A patto che il bambino possa sempre contare su un genitore che faccia da mediatore, e che, in pratica, lo controlli in continuazione. La "macchina" delle storie, che sia un tablet o smartphone, è ancora più fragile e più pericolosa della televisione, sulla cui valenza diseducativa si sono versati fiumi di inchiostro: è perennemente connessa, e ha un numero imprevedibile di funzioni. Le possibilità di errori di utilizzo, di chiamate indesiderate, di accesso a contenuti inappropriati o a piccoli shock sono quasi le stesse delle opportunità formative, almeno fino a quando non verranno diffusi tablet pensati appositamente per i bambini (ce ne sono già alcuni, come il Fable, ma non sono molto diffusi). Quando ero piccolo io curiosavo e imparavo da solo con la mia enciclopedia illustrata (e capisco solo ora quanto fosse una posizione privilegiata), di certo più "sicura" di una di queste meraviglie e, soprattutto, che sentivo totalmente "mia".

Uno studio piuttosto interessante della professoressa Mariah Evans, dell'Università del Nevada, ha dimostrato come per avere successo a scuola possedere almeno 500 libri in casa sia due volte più importante del livello di educazione dei genitori. Il che conferma la vecchia teoria che la curiosità sia una scienza esatta, ma da coltivare da soli. Sarà vero anche tra una ventina d'anni, con un tablet munito di 500 App?" (da Pierdomenico Baccalario, Dai libri illustrati alle App, così i bambini sono meno liberi, "La Repubblica, 11/08/'12)

Brutte scienze su IBS

mercoledì 1 agosto 2012

Vila-Matas: "Solo i romanzi dicono la verità"

"Mi piacerebbe riuscire a rendere con le parole tutti quei silenzi. Il modo in cui, alla fine di una frase, Enrique Vila-Matas si fermava e mi guardava senza parlare, con i suoi occhi grandissimi. E quando finalmente mi decidevo io a dire qualcosa, lui mi interrompeva e, dal profondo del suo semplice stare, mi diceva una cosa sublime. Non si deve mai tornare su una storia d'amore finita, per esempio. Perché se ti volti indietro, se rifai la strada al contrario la prima cosa che incontrerai, di quell'amore, è la sua morte.

Nato a Barcellona nel 1948, Vila-Matas ha scritto saggi, romanzi e racconti. È uno scrittore che scrive di letteratura anche quando racconta il mondo, che non conosce il peccato di realtà. Nel salotto di un albergo elegante, mentre fuori il caldo bruciava la città, gli ho chiesto di parlarmi d'amore.

"È un argomento difficile. Vede, il tema dell'amore è strettamente legato a quello della verità. Nel 1939, un autore francese scrisse un saggio, intitolato L'amore e l'occidente (Rizzoli). Denis de Rougemont, questo era il suo nome, sosteneva che nel nostro mondo l'amore fosse fondato su un'idea narcisistica. Partendo dal mito di Tristano e Isotta, spiega che ciò di cui noi fatalmente ci innamoriamo, non è l'altro, ma l'idea stessa di amore. Che appunto prescinde dalla persona amata, ed è invece un'auto-esaltazione di colui che ama, del suo coraggio nell'affrontare gli ostacoli. Un amore-martirio, infelice e non sensuale, che si esaurisce nella passione che brucia. Questo concetto, centrale nella poesia trobadorica e i romanzi medievali, è arrivato intatto fino ai nostri giorni.

C'è una scena bellissima ne Il Grande Gatsby di F. S. Fitzgerald, ce ne sono tante in verità in quello che io considero forse la più perfetta storia d'amore mai raccontata. Ma quella a cui mi riferisco è il primo incontro tra Gatsby e Daisy, dopo cinque anni. Nick ha invitato la ragazza a prendere un the a casa sua, su suggerimento di Gatsby. Vuole andarsene, lasciarli soli. Ma loro insistono che rimanga. Perché, si chiede Nick. "Forse", scrive Fitzgerald, "la mia presenza li faceva sentire più piacevolmente soli". È una frase sibillina.
Siri Hustvedt, la scrittrice moglie di Paul Auster, ha parlato di questo momento in un suo saggio. Mi piace molto quello che dice: l'amore, scrive Hustvedt, per esistere ha bisogno di essere visto. È una coppia composta da tre persone. Forse essere innamorati, amare, è una condizione talmente ineffabile che solo un testimone può renderla credibile, reale. Forse Daisy aveva bisogno di Nick per "vedere" il suo amore per Gatsby".

Si possono raccontare solo gli amori infelici?

"Non necessariamente. Nabokov per esempio è uno scrittore che ha saputo descrivere anche amori leggeri, compiuti. Però è vero che i più bei romanzi d'amore raccontano di passioni che spezzano la vita. Amori che sono malattie, come quello tra Heathcliff e Catherine, in Cime Tempestose di Emily Bronte. Eterni, indissolubili. Amori disperati, come quello di Adele H, la figlia di Victor Hugo, per quello stupido tenente francese, nel film di Truffaut. Il più sublime esempio di amore che trascende la vita stessa, è quello raccontato da Hitchcock in Vertigo (La donna che visse due volte). Il legame che unisce il protagonista, James Stewart a Kim Novak, nel doppio ruolo di Madeleine/Judy. Chi è la donna di cui davvero lui si innamora? Un fantasma del passato che lui ricostruisce con pazienza nel corpo di lei, trasformandola in quello che il suo desiderio sta cercando. Questa storia ci rivela la complessità e il mistero di quello che chiamiamo l'amore passionale. Che si contrappone all'amore quieto e razionale che costituisce la base dei cosiddetti matrimoni per convenienza.
Chi può dire quale delle due condizioni garantisce maggiore durata e felicità?
Quel che è certo è che l'amore, in qualsiasi forma, è l'unico sentimento che ci introduce all'idea dell'altro, che ci permette di uscire dalla condizione dell'identità, dell'io nevroticamente arroccato in se stesso, e conoscere
il mondo".

L'amore dunque fa male ma è necessario.

"È ineludibile. Come il dolore del resto. Miguel Delibes, uno scrittore spagnolo, ha scritto un romanzo il cui protagonista è un bambino. La sombra del ciprés es alargada si intitola, è un libro del 1947. Questo bambino perde improvvisamente il suo migliore amico e decide che mai più sentirà amore per qualcuno per non soffrire della sua perdita. È questo che pensiamo tutti quanti ogni volta che un amore finisce. Ma è assurdo, e infatti nessuno mantiene la promessa. E continuiamo a innamorarci, sbagliare, riprovare.
Ricordo un racconto di Adolfo Bioy Casares, la storia di un uomo che amava un donna. A un certo punto però, decide di lasciarla. Il motivo è che si è reso conto che lei ha un difetto. Non spiega quale sia questo difetto, ma è sufficiente a fargli decidere di separarsi. Quell'uomo, dopo qualche tempo, incontra un'altra donna e se ne innamora. Si fidanza con lei, ma dopo un po' scopre che questa donna ha un difetto. Lo stesso difetto della precedente. E la lascia. E così anche un terza volta. L'amore ci inganna, facendoci pensare che ci sia qualcosa oltre, qualcosa di meglio, di più bello. Un'altra persona più adatta per noi. Ma la verità è che il difetto è in noi, e lo ritroveremo sempre, in chiunque incontriamo".

Il tema dell'amore e quello della bellezza sono legati?

"Credo proprio di sì. La bellezza è uno sguardo, e una percezione. Sophie Calle, l'artista francese, fece un giorno una performance riunendo un gruppo di persone cieche. Chiese loro, a turno, quale fosse la loro idea di bellezza. Mi ricordo di una ragazza che rispose Alain Delon. Che, ovviamente, non aveva mai visto. Perché? La mia risposta è che la ragazza percepiva l'intensità della passione, dell'amore che quell'uomo suscitava nelle persone, e lei collegava appunto quel sentimento con l'idea di bellezza. I due temi sono strettamente legati anche in un'altra grande storia d'amore, quella di Stendhal per l'Italia. Lo scrittore si innamora di tutto, tutto gli sembra straordinario. Entra in una cucina, dove c'è una donna che sta dando da mangiare al suo bambino. Si innamora di quella donna, della placida bellezza che emana la scena. Ne parla Roland Barthes nell'ultima conferenza che stava scrivendo prima di morire. Barthes è alla stazione di Milano e deve prendere un treno notturno per Lecce. Scrive: "Lecce, il mistero di una città estremma", e sta di nuovo parlando dell'amore".

C'è un personaggio della letteratura di cui lei è innamorato?

"Certamente Anna Karenina. E in particolare nel capitolo 29, quando in treno, in viaggio da Mosca a San Pietroburgo, tira fuori dalla borsa una lanternetta, la attacca al bracciolo della poltrona e si mette a leggere un "romanzo inglese". Sullo stesso treno viaggia anche Vronksij, ma lei non lo sa ancora. Lo scoprirà soltanto quando scenderà alla stazione. È una scena straordinaria: la donna, la lampada, il treno che corre nella notte, e le vicende del libro che scorrono parallele.
Claudia Cardinale in La ragazza con la valigia di Zurlini, è stato un altro grande amore per me. E anche Jeanne Moreau in La Notte di Antonioni ... molte, in verità".

C'è uno scrittore del quale avrebbe voluto leggere una storia d'amore e invece non l'ha mai scritta?

"Patricia Highsmith. C'è un'ultima cosa che vorrei dirle: le storie d'amore più belle sono quelle che ognuno di noi vorrebbe aver vissuto. L'ostinata ricerca di Fabrizio del Dongo ne La certosa di Parma di Stendhal, la devozione di Dante per Beatrice, la passione per Elena, l'invenzione di Dulcinea da parte di Don Chisciotte, ma soprattutto, come le dicevo, l'amore purissimo di Gatsby per Daisy. Ricorderà la scena in cui lui le mostra tutte le sue camicie e lei scoppia a piangere. In questo romanzo, ognuno inventa se stesso, il suo passato, la sua identità. Eppure una verità profonda percorre tutto il libro. "Sono veri, lo crederebbe mai?", dice quello strano personaggio, "con gli occhiali da civetta" al cospetto dell'enorme quantità di libri raccolti nella biblioteca di Gatsby. Soltanto lui, di tutte le persone che riempivano le feste e la vita di Gatsby, si prenderà la briga di essere presente la funerale.
Scompaiono tutti, come la luce verde. Da dove venivano, perché erano lì, qualcuno li aveva invitati? "Io", dice a un certo punto il narratore, "ero stato davvero invitato". Non le sembra una perfetta metafora di quello di cui stiamo parlando? Ognuno di noi crede di essere stato invitato davvero, e personalmente, all'amore". " (da Elena Stancanelli, Passioni che spezzano la vita e amori passionali. Vila-Matas: "Solo i romanzi dicono la verità", "La Repubblica", 30/07/'12)  

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lunedì 30 luglio 2012

Sotto controllo


"Con la nascita dell'Europa moderna l'accesso delle donne alla lettura si fa più frequente e regolare. Fenomeni del genere hanno sempre una preistoria, talvolta lunga. Negli ultimi secoli del Medioevo, un nuovo modo di raffigurare il libro - non più come nell'Alto Medioevo chiuso o offerto (il che rinvia al libro come oggetto sacro e fonte di dottrina) ma aperto e letto - segnalava già fondamentali modifiche nell'accesso alla cultura scritta, grazie alla lettura. In molte di queste rappresentazioni, il libro è tenuto aperto e letto da figure femminili, prima fra tutte la Vergine Maria.

Ricostruendo la storia delle scuole a Venezia del Tre e Quattrocento, Gherardo Ortalli aveva già avvertito che, malgrado l'impossibilità di fornire dati precisi, non si può parlare allora di alfabetismo massiccio. Certo è che nel Cinquecento, anche per il progredire delle fonti scritte, come quelle del S. Uffizio, ora accessibili agli storici, il fenomeno appare più ampio e complesso. Lo dimostra il recente e importante libro di Xenia von Tippelskirch, Sotto controllo. Letture femminili in Italia nella prima età moderna (Viella).

Si trattò di un fenomeno che dovette fare i conti con ostacoli di ogni genere, anzitutto di carattere sociale. Si è ad esempio calcolato che a Venezia verso la fine del Cinquecento quasi il 15 per cento dei "putti" andava a scuola da un maestro contro soltanto lo 0,1% delle ragazze peraltro nobili e cittadine. È vero che l'educazione delle ragazze avveniva per lo più in casa, il che rende difficile farsi un'idea più precisa del fenomeno. Ma è anche vero che proprio per questa ragione le ragazze di estrazione popolare rimanevano escluse da potere apprendere a leggere e a scrivere.

La percentuale di ragazze che avevano imparato a leggere in ambito domestico doveva comunque essere alta se, sempre a Venezia, alla fine del Cinquecento, circa il 13% delle donne sapevano leggere (contro però il 33% degli adulti maschi). Preso nel suo insieme, l'alfabetismo in molte regioni dell'Italia nella prima età moderna appare comunque più alto di quanto non si fosse pensato. Stando a Xenia von Tippelskirch è quindi difficile ora sostenere la tesi secondo cui l'alfabetismo nell'Europa cattolica fosse allora meno ampio rispetto all'Europa protestante del nord Europa.

Alle ragazze si insegnava a leggere ma non necessariamente a scrivere. A Venezia, nel 1584, in occasione della visita pastorale si ricorda alle monache del monastero di Santa Marta «che non dobbiate - insegnare alle fie che havete in monasterio a cantar sonar balar né scrivere». Per molto tempo in Europa, saper leggere non significava affatto sapere anche scrivere e questo divario valeva soprattutto per il mondo femminile. Inoltre, l'insegnamento doveva avvenire in ambiti ben definiti. Singolare è la vicenda che interessa un gruppo di «sei zitelle» che a Perugia accoglievano nella loro casa «una quantità di piccole per imparare di leggere e cominciano dall'ABC». Il prete Giovan Stefano Spinola le aiutava, organizzandone il finanziamento e persino il vescovo di Spoleto espresse il suo apprezzamento. Richiesto dall'inquisitore di Perugia come comportarsi, il S. Uffizio ordinò però - siamo nel 1640 - di far sciogliere la comunità.

La società tout court assiste con sospetto a questo progres- sivo ampliamento della lettura femminile. Già nella novellistica italiana dal Tre al Seicento, l'alfabetismo era considerato come un pericolo per la moralità della donna. Ludovico Domenici, autore di un diffuso trattato su La nobilità delle donne (1565), riesce però a prendere le distanze parlando con ironia di certi «uomini da poco» che temono che se la moglie «legge i sonetti del Petrarca, le novelle del Boccaccio o i romanzi dell'Ariosto» rischia di perdere «la honestà sua, et subito non si doni in preda a gli amadori suoi».

Talvolta, sono le stesse donne a farsi carico dei limiti imposti dalla società, laica e religiosa. Maria di Portogallo, moglie di Alessandro Farnese, che sapeva leggere in portoghese (la sua madrelingua), italiano, spagnolo e latino, si autodisciplina rifiutando di leggere «libri che trattassero d'amore, e a lei stessa ho sentito dire che mai non havea letto né Petrarca, né Furioso, se non una o due volte venti o trenta versi» (1578). Santa Teresa d'Avila racconta nella sua Vita (1601) che in gioventù «se non havevo qualche libro nuovo, non mi pareva esser contenta». Ma ora le pare «esser mala cosa di consumare molte hore del giorno, e della notte» nella lettura (si trattava dei romanzi cavallereschi, come Don Chisciotte), che considera «sì vano essercitio».
Non sorprende insomma se nel Cinquecento si impone un duplice ideale di lettrice - colta e devota. L'immagine della lettrice colta traspare, ad esempio, dall'aumento di libri che contengono dediche alle donne. Di 1.400 titoli cinquecenteschi scelti tra i formati piccoli nei fondi di tre biblioteche milanesi (Braidense, Trivulziana, Sormani), 134, ossia circa il 10%, sono dedicati a una o più donne. E' una percentuale molto alta se messa a confronto con l'alfabetismo femminile in Italia.

L'immagine di lettrice colta deve però convivere con quella di lettrice devota. Nel suo Theatro delle donne letterate (1620), dedicato alla duchessa di Mantova Margherita di Savoia, Francesco Agostino Della Chiesa, cosmografo e storiografo alla corte sabauda, dirà che Lucrezia della Rovere (morta nel 1579), essendo rimasta vedova «si diede alla lettione dele cose scritte in lingua toscana, e in quella si compacque tanto», ma «tutto spendeva nel studio de buoni libri, e massime di quelli che trattano delle cose sacre»." (da Agostino Paravicini Bagliani, Lettura: sostantivo femminile, "La Repubblica", 26/07/'12)


lunedì 9 luglio 2012

L'età dell'ignoranza. È possibile una democrazia senza cultura?


" «Non si sente parlare che di "società dell'informazione", ma siamo entrati senza accorgercene nell'età dell'ignoranza». L'incipit del libro di Fabrizio Tonello (Bruno Mondadori), docente di Scienza dell'opinione pubblica all'università di Padova, scritto in modo accattivante e godibile, è un'affermazione che sa di paradosso: internet ha diffuso l'illusione che la cultura sia alla portata di tutti, mentre invece opera un esproprio delle conoscenze del cittadino medio, generando indifferenza e incapacità critica.


Nelle scuole entrano portatili e iPad; i nuovi telefoni cellulari ci permettono di scaricare musica, parole o immagini; sul web possiamo ascoltare la radio italiana anche in Australia o leggere qualsiasi giornale a Capo Nord, dove siamo magari arrivati in macchina seguendo le indicazioni di Google Maps. Oggi i canali tv "all news" in tutte le lingue portano il mondo in casa e la convergenza dei mezzi di comunicazione mette
chiunque nella condizione di essere informato in tempo reale, quasi come un giornalista in redazione. «Purtroppo l'ingenuo ottimismo dei cantori della modernità tende a ignorare molti problemi che ci stanno di fronte», aggiunge Tonello, che anzitutto invita a «guardare al fossato che si sta approfondendo fra chi ha accesso a internet e chi non ce l'ha».


Nel dicembre 2011 i giornali italiani hanno commentato con soddisfazione che il traguardo del 50% della popolazione italiana connessa a internet era stato raggiunto, anche se in un giorno medio erano - allora - 12 milioni gli italiani in Rete (adesso sono circa 1 milione in più). Ma persino negli Stati Uniti, dove quattro adulti su cinque sono abituali utenti di internet, il 20% degli esclusi sono più di 50 milioni di persone, una cifra assai vicina a quella dei cittadini americani che vivono in povertà.

Sta avvenendo una sorta di selezione darwiniana della specie umana, rivisitata in chiave XXI secolo: «Volete un biglietto aereo? Niente più agenzia di viaggi: fate da voi risparmiando con una prenotazione on line, se siete capaci; volete un nuovo divano? Ikea ve lo offre a basso prezzo, a condizione che ve lo portiate a casa da soli e ve lo montiate nel tempo libero». Più in generale si tratta di un'evoluzione del rapporto tra i fornitori di beni e servizi e i loro clienti, dove saltano i livelli intermedi tra produzione e consumo, come fanno le banche con il bancomat invece del cassiere o le ferrovie con le emettitrici automatiche di biglietti al posto degli sportelli con l'operatore.


Ma «avere a disposizione miliardi di informazioni non equivale a comprenderle, né a saperle usare correttamente: al contrario, il rumore di fondo può diventare un ostacolo all'uso dell'intelligenza critica». I "nativi digitali", la prima generazione cresciuta con internet (solitamente riferita a chi è nato dopo il 1996, l'anno della diffusione dei primi "browser" come Netscape Navigator, poi seguito da Internet Explorer della Microsoft), trovano sempre qualcosa quando cercano informazioni sulla Rete, ma non è detto che siano le cose migliori e soprattutto che siano affidabili.


«Questo atteggiamento di ingenuo determinismo tecnologico – aggiunge il nostro autore - è particolarmente visibile nelle aspettative create da Wikipedia e, più recentemente, da Facebook, Twitter e altre piattaforme simili». Purtroppo il web non è la bacchetta magica della democrazia: «Chi usa internet per mettere le foto delle vacanze su Facebook non diventerà per questo un cittadino responsabile».

Se ad esempio le scuole spendono nelle nuove tecnologie, mentre tagliano i bilanci e licenziano gli insegnanti, questo approccio non migliora l'apprendimento di base, perché «i buoni insegnanti possono fare un buon uso dei computer, mentre i cattivi insegnanti non vengono trasformati in buoni docenti da un software, con in più l'aggravante che loro e i loro studenti finiscono facilmente per essere distratti dalla tecnologia». Secondo uno studio dell'agenzia di stampa americana Ap, citato nelle ultime pagine del libro, su questo tema le prospettive non sono molto confortanti: «In futuro il consumo di notizie sarà sempre più irregolare e superficiale, affidato a un rapido esame dei titoli sul telefono cellulare o alla home page dei fornitori di posta elettronica. Gli iPhone, iPad o altri "tablet" rafforzano uno stile di vita in cui la ricerca dell'approfondimento e della riflessione tendono a scomparire»".  (da Pietro Fornara, Il paradosso del web: più informati, meno istruiti, "Il Sole 24 ore", 06/07/'12)


Io viaggio da sola


"Per quanto Simone de Beauvoir sostenesse che «Donne si diventa» certo non si è mai sognata di negare che a ottenere tale risultato occorra un' abbondante predisposizione naturale. Un' inclinazione di appena minor importanza serve per essere viaggiatrici. Ma, detto questo, se una donna che viaggia o viaggerebbe vuole impararlo a farlo da sola allora troverà nel libro che Maria Perosino ha appunto intitolato Io viaggio da sola,  un'ottima guida (Einaudi). E «guida» in un senso assai più ampio di quello turistico del termine, per quanto di dritte giuste su ristoranti, alberghi e luoghi il suo libro ne dia anche svariate. Già storica e critica d' arte, responsabile dell' ufficio iconografico di Einaudi, poi curatrice di mostre e organizzatrice di eventi (come il Festival della Scienza di Genova), Perosino è una viaggiatrice più che collaudata. Dovendo contemperare la propensione e la necessità al viaggio con diverse evenienze della vita, belle e brutte, è divenuta una vera e propria conoscitrice dell'esperienza-viaggio, come una sommelier lo è dell' esperienza-degustazione o un' intenditrice d' arte lo è dell'esperienza-opera (e anche queste altre due esperienze sono familiarissime all' autrice). Non c'è sfumatura o retrogusto di una stazione ferroviaria o di una hall di albergo che le possa sfuggire. Il libro prende origine da un aforisma che, con elegante perentorietà, precipita la lettrice nel cuore del problema e che l'editore ha saggiamente scelto come frase emblematica: «Viaggiare da sole non significa affatto essere sole. Significa che vi dovete arrangiare a portare la valigia». Questo impone per esempio oculatezza nella selezione della valigia medesima e poi nella scelta di cosa vi entrerà. Perosino avrà poi tempo di spiegare come neppure viaggiare con un uomo garantisca sempre un minimo di galante servizio di facchinaggio: nella caratterologia maschile che il libro propone l' affetto non diminuisce la severità del giudizio, che anzi impugna a tratti la sferza del sarcasmo. Ma gli uomini, nel senso dei maschi, entrano ben poco nel discorso: il libro ce ne fa sì incontrare diversi in veste di amici, amanti, compagni, parenti o estranei, ma sempre in ruoli da comparse o figuranti. Che si tratti di un aperitivo davanti al Bosforo o della decodificazione delle sigle ferroviarie che aiuta a scegliere il treno migliore o anche del modo per farsi trattare decentemente in un ristorante, al centro del libro sta una donna, di una qualsiasi età compatibile con la voglia, l'energia, la possibilità economica e motoria di starsene in giro. Il compito che si è data Perosino è di renderle al possibile allegra e comunque piena e appagante l'esperienza del viaggio, aggirando eventuali malinconie, carenze affettive e di bilancio, difficoltà logistiche e pregiudizi sociali. Quella che ne esce è una vera filosofia di vita, spicciola e arguta, che si sospetta possa essere utile non soltanto alle donne che viaggiano accompagnate, e neppure soltanto alle donne che amano starsene a casa ma, se non è osare troppo, persino agli uomini (almeno alcuni). Ancora più imponente e preziosa della sua collezione di biglietti da visita di posti per dormire e per mangiare è la mappa mentale che Perosino ha infatti compilato negli anni a proposito delle diverse evenienze che possono rallegrare o guastare un viaggio. Per le donne, la necessità di farci caso è più acuta, perché il mondo resta ancora molto maschilista, e il punto di vista del libro di una donna per le donne consente moltissimi spunti di ironia e osservazione leggera e acuta che fanno del libro di Perosino una lettura piacevolissima. Ma (potrei anche sbagliarmi) alla fine il punto vero non riguarda tanto il gender. Lo introdurrei così: non confondiamo il viaggio con il chilometraggio. Per «viaggio»è meglio intendere quell' intermittente atteggiamento in cui siamo più motivati e incuriositi a percepire, abbiamo più attenzione e meno siamo immersi nell' usuale monologo interiore egotistico. È più facile avere tale atteggiamento in viaggio che a casa propria, guardando cose e panorami nuovi: però non è un caso se una delle pagine più belle è quella in cui Perosino si trova a contemplare la nebbia. È più importante quel che si guarda o il fatto di avere gli occhi aperti? Bisogna sapere come esaltarlo, quel certo atteggiamento, e non frustrarlo o annegarlo nella marea di banali autocommiserazioni di cui ognuno di noi può facilmente disporre. Chi è in preda a dispiaceri a volte viaggia «per distrarsi»; per certi versi è anche il caso di Perosino, ma una volta partite quello che chiamiamo «distrazione» è anche il meccanismo più importante del viaggiare. Viaggiare è imparare a dare meno importanza a sé, cosa che poi si rivela una delle migliori che possiamo fare a quel certo sé, il quale è solo beneficato dal perdere ogni tanto di vista le proprie ossessioni (a partire dall'ossessione di sé medesimo). Con la scusa di consigliare l'uso cromatico dei foulard o le cose da notare nell'ingresso di una trattoria per decidere se mangiare lì, Perosino suggerisce di uscire e di prendere il meglio che il mondo esterno ha da darci. È molto utile, datemi retta, lo dico per esperienza. Da quando conosco Maria, viaggio un po' da sola persino io." (da Stefano Bartezzaghi, Se il mondo è un'avventura per viaggiatrici solitarie, "La Repubblica", 06/07/'12)

lunedì 2 luglio 2012

Il parco dei libri



"Qualsiasi dibattito sulla rinascita culturale dell'Italia, e in particolare del Sud, deve partire dalle biblioteche e dalla lettura, quei servizi indispensabili quanto gli asili nido e i pompieri che nel Sud sono assenti, o presenti solo di nome, in molte regioni. Ma occorre riflettere anche attorno alla scuola perché ormai sappiamo che milioni di italiani sanno riconoscere i caratteri a stampa ma di fatto non riescono a seguire un discorso sulla pagina scritta. Il dibattito di questi mesi su vari giornali e in vari festival ha fornito una quantità di dati in materia. La scuola dovrebbe portare alla maturità quasi tutti i ragazzi e permettere a una quota rilevante di loro di accedere all' università. Cosa accade, invece? Nella classe d'età fra 20 e 24 anni solo il 6% dei giovani è laureato, il 64% è diplomato. Il che significa che il 30%, quasi un giovane italiano su tre, non arriva nemmeno alla maturità, con percentuali molto più alte al Sud. Nessuno ha ancora avanzato proposte concrete per riparare al disastro della scuola italiana, un comparto che nei fatti il governo Monti non sembra intenzionato a trattare diversamente da com'era stato trattato dal governo Berlusconi.
Che ruolo possono avere le biblioteche in tutto questo? Le biblioteche possono essere un'ancora di salvezza, non perché abbiano virtù taumaturgiche ma perché esse sono uno spazio comune, dove anche chi è stato emarginato dalla scuola può scoprire un libro, un giornale, un sito web che ridia speranza o almeno susciti interesse. Le biblioteche sono luoghi di scoperta, di possibilità, a condizione che siano ben concepite e ben gestite, in modo innovativo. Anche in Italia ce ne sono, quasi sempre nel centro nord: grandi biblioteche come Sala Borsa a Bologna o la San Giorgio a Pistoia, o la Delfini a Modena, biblioteche di quartiere a Torino, Milano, Roma, biblioteche di piccoli comuni come Maiolati Spontini (AN), la Memo a Fano, le nuovissime di Meda e di Mortara in Lombardia, Pieris in Friuli o il centro culturale di Cinisello Balsamo, di imminente apertura. Negli ultimi anni sono veramente molte la biblioteche che hanno fatto grandi sforzi per rinnovarsi. Da qualche tempo si parla molto di "beni comuni", facendo una gran confusione tra gli acquedotti e le opere d'arte, fra un museo del cinema e le piscine comunali. La biblioteca deve mostrare la sua indispensabilità come risorsa a disposizione della comunità: per farlo deve essere risorsa "aperta", non autoreferenziale o gestita nel modo gerarchico e burocratico tipico del settore pubblico italiano, deve essere invece uno spazio flessibile e neutrale, un luogo accogliente, dove domanda e offerta di cultura possano incontrarsi, dove le domande sociali possono trovare le competenze necessarie per realizzarsi. Non esistono altre istituzioni che possano accogliere tutti i ceti sociali, tutte le età, tutte le nazionalità. In questo sta la superiorità della biblioteca civica rispetto ai musei, alle librerie, ai festival, alle scuole: essa è un luogo dove si incontrano italiani e immigrati, studenti e professori, casalinghe e pensionati. Ha una vocazione a ricevere tutti su basi di uguaglianza e a rendersi utile a tutti: è un servizio universale che potrebbe reinventarsi fondendosi con altre istituzioni culturali in fondazioni che siano fuori dalle pastoie del pubblico impiego. Una biblioteca-teatro-cinema-museo-scuola per adulti è ciò di cui abbiamo bisogno, una sorta di "pronto soccorso" culturale. C' è una generazione di giovani da salvare e la nostra capacità di trovare informazioni, ampliare i contesti, dare spessore alla ricerca può essere messa al servizio di esperimenti di partecipazione che coinvolgano operatori del welfare, utenti, cittadini. La biblioteca è un luogo dove affluiscono persone con risorse culturali molto diverse: fare in modo che queste risorse vengano almeno parzialmente condivise stimolando la partecipazione dei cittadini può diventare una forma di welfare di nuovo tipo, un tentativo di auto-organizzazione della società sempre più necessario. Questo Nuovo Welfare si deve porre due obiettivi: uno è l'emergenza, l'aiuto ai cittadini in difficoltà attraverso la messa in comune di risorse culturali e organizzative, l'altro è l' obiettivo di lungo periodo di costruire una cittadinanza informata e competente. Gli amministratori che oggi pensano di tagliare i bilanci delle biblioteche non si rendono conto di stare segando il ramo su cui sono seduti: non ci possono essere consumi culturali per il museo del cinema, per i teatri o i concerti se non c' è un'educazione paziente al godimento di questi prodotti. Non saranno i telefonini, e neppure la scuola in crisi, a creare gli acquirenti di libri, i frequentatori del balletto o i visitatori dei bronzi di Riace di domani. I consumi culturali hanno bisogno di un ecosistema favorevole, continuamente alimentato da iniziative diverse, da un'offerta ricca e attraente. Possiamo creare dei nuovi fruitori solo se offriamo ai giovani la possibilità di entrare in contatto con un'offerta culturale diversa da quella veicolata dalla televisione o dalle multinazionali della musica. Da questo punto di vista è necessario creare nel Sud mille luoghi come il Parco della Musica di Roma, dove accade di tutto e dove la musica classica, i concerti rock, le letture sull' antica Grecia e le lezioni sulla storia della città convivono felicemente, con un grande successo di pubblico." (da Antonella Agnoli, Il parco dei libri, "La Repubblica", 30/06/'12)

sabato 16 giugno 2012

La formula della lettura

"Vive in una grande città del Nord Italia, in una casa piena di libri, è giovane, soprattutto è donna, usa molto Internet e il pc, ha una laurea o un diploma di scuola media superiore. È il ritratto, statistico e non solo, del lettore medio italiano, secondo l’ultima indagine Istat, “La produzione e la lettura di libri in Italia”. Ed è evidente, allora, che più che di lettore medio, bisognerebbe parlare di lettrice. Perché in Italia sono le donne le vere appassionate di libri. Sovrane lettrici, come confermano le statistiche e come sanno bene gli editori che oramai dedicano collane e titoli solo a loro. Comandano anche tra i “lettori forti”: hanno letto infatti dodici o più libri in un anno il 14,3% delle donne, contro il 13,1% degli uomini. Leggono dai 7 agli 11 libri l’anno il 13,9% degli uomini contro il 16,5% delle donne, e nella fascia da 4 a 6 libri i maschi si fermano al 23,9% e le femmine arrivano al 26%. Dunque non solo le donne leggono, ma leggono molto, in un Paese dove prevale il lettore “debole” e “debolissimo”: il 45,6% infatti legge solo fino a tre libri l’anno. Eppure le donne dispongono di meno tempo libero rispetto agli uomini, visto che in media dedicano 3 ore e 39 minuti al lavoro familiare contro un’ora e 14 minuti dei loro partner. Numeri che sono anche uno specchio sociale, come sempre. Persino le studentesse hanno meno tempo libero rispetto agli studenti: 4 ore e 56 minuti contro 5 e 51. Del resto la scelta di leggere è dettata solo in parte dalla quantità di tempo che si ha a disposizione: gli occupati leggono molto di più dei pensionati (51,2% contro 33,6%), le occupate molto di più delle casalinghe (66,8% contro 34,4%). Guardando alle cifre complessive, in Italia le lettrici sono al 51,6%, contro il 38,5% degli uomini. Dominano in ogni categoria, anche a parità di titolo di studio e in qualunque fascia di età. C’è un avvicinamento tra i due sessi solo tra i 6 e i 10 anni: i piccoli lettori sono il 49,8%, le piccole lettrici il 53,8%. Tra gli 11 e i 14 anni legge il 55,3% dei ragazzi, ma le ragazze arrivano al 69%, e continuano ad aumentare fino ad arrivare al 73,2% tra i 15 e i 17. I ragazzi rimangono indietro: già tra i 15 e i 17 anni sono al 44,5%, quasi 30 punti al di sotto delle loro coetanee. La percentuale di lettori tra le fasce di età decresce fino ad arrivare al 22,8% (maschi) e 22,7% (femmine) oltre i 75 anni: le differenze di sesso si annullano. «Non va dimenticato che è tra le donne anziane che si ritrovano i più bassi livelli di scolarizzazione – ricorda Luciana Quattrociocchi, dirigente del servizio “Struttura e dinamica sociale” dell’Istat – ed è probabilmente questo il motivo per cui le differenze di genere nei livelli di lettura, molto forti nelle fasce d’età più giovani, si annullano tra gli anziani». L’altra categoria di “grandi lettori” in Italia è costituita dai giovani, bambini compresi: infatti già dai 6 ai 10 anni la quota di lettori si posiziona oltre il 50%, per arrivare al 62% tra gli 11 e i 14 anni, e poi decrescere fino ai 19 anni (53,8%). Gli editori se ne sono accorti: nel 2011 le opere per ragazzi sono cresciute del 13,7% per numero di titoli e del 12,6% per tiratura. E non è vero che i ragazzi assidui frequentatori dei social network siano nemici della lettura: «La quota di giovani lettori che scaricano giornali, news, riviste da Internet è pari al 53,9% – spiega l’indagine, curata da Fabrizio Arosio, responsabile dell’unità operativa “Cultura, tempo libero e nuove tecnologie” dell’Istat – e quella di coloro che consultano un Wiki online è del 69%». Internet è dunque un formidabile alleato della lettura, e non solo per i più giovani: l’89,5% delle famiglie che possiedono oltre 200 libri tengono in casa anche un personal computer, contro il 20,8% di chi non ha a casa neanche un libro. Si potrebbe obiettare che tenere libri in casa non significa essere buoni lettori. Ma non è così: una buona biblioteca è un “buon esempio” per i bambini e un eccellente indicatore della quantità di tempo dedicato alla lettura da tutta la famiglia. «Se in media il 56,3% dei bambini e ragazzi dichiara di aver letto almeno un libro – spiega Luciana Quattrociocchi – la quota arriva al 75,1% nel caso siano presenti in casa più di 200 libri, mentre la percentuale scende al 20,8% se non ce ne sono affatto». Altro fattore che influenza fortemente i bambini è avere genitori che leggono: «Leggono libri il 72% dei ragazzi tra i 6 e i 14 anni con entrambi i genitori lettori contro il 39% di quelli i cui genitori non aprono mai un libro». Anche qui: i dati confermano un’intuizione diffusa, ma messi in fila possono diventare una molla per cambiare abitudini. Nel 2011 i lettori di libri sono passati dal 46,8 al 45,3%. Tutto sommato una lieve diminuzione, rispetto ai passi da gigante fatti dalla lettura in Italia in quasi 50 anni: nel 1965 la quota delle persone di 6 anni e più che leggono almeno un libro l’anno arrivava appena al 16,6% della popolazione. Però, osserva Quattrociocchi, «la diminuzione è in maggior misura spiegata dalla decrescita del numero di lettori nel Sud». La percentuale di lettori del Nord è superiore al 53% della popolazione, mentre al Sud si ferma al 31,8%, con un forte calo rispetto al 34,5% del 2010; per le Isole si passa dal 36,9 al 34,5%. Il lettore italiano, dunque, vive al Nord. Le Regioni che svettano sono Trentino Alto Adige (58,3%) e Friuli Venezia Giulia (58%), seguite da Liguria (55,8%), Veneto (54,2%) e Lombardia (54%), regione dove si vendono oltre un quinto dei libri in Italia (20,1%). In coda ci sono Campania (29,8%), Sicilia (30,5%) e Puglia (31,5%). Che succede al Sud? In effetti «la variabile che discrimina maggiormente il profilo del lettore è il titolo di studio», rileva Arosio. Legge nel tempo libero l’81,1% dei laureati, il 58,4% dei diplomati, il 38,5% di chi ha conseguito la licenza media e il 27,9% di chi possiede soltanto la licenza elementare o non ha nessun titolo di studio. Per cui «queste differenze regionali possono trovare una spiegazione nelle differenze socioeconomiche e socio-culturali, oltre che a una minore vitalità dell’editoria in genere nel Sud del Paese, in cui si concentrano soprattutto piccoli e medi editori mentre la grande editoria è al Nord». La formula della lettura è ancora lontana, eppure per far crescere la passione, basterebbe forse lavorare su queste tabelle." (da Rosaria Amato, La formula della lettura, "La Repubblica", 14/06/'12)

lunedì 11 giugno 2012

L'infinito cercare

"Vent’anni al mitico Istituto di Princeton che ospitò Einstein e Goedel, varie stagioni al Cern di Ginevra, una legislatura al Parlamento europeo, soggiorni di ricerca negli Stati Uniti, Russia, Giappone. Sempre con uno sguardo geniale e matematico puntato a indagare l’estremamente piccolo dell’atomo e l’estremamente grande delle galassie. Questo è Tullio Regge. L’universo è stato la sua casa, e ora la sua vita, 81 anni, è consegnata a una piacevolissima autobiografia scritta con Stefano Sandrelli, astronomo dell’Osservatorio di Brera ma anche narratore e abile comunicatore della scienza, L’infinito cercare. «Non è il titolo che avrei voluto», dice Regge sfogliando distrattamente il volume che Einaudi sta per mandare in libreria. «Con Rosanna, mia moglie, avevamo pensato a L’orizzonte degli eventi: sa, quel posto strano intorno a un buco nero, dove il tempo si ferma sull’orlo del pozzo gravitazionale». L’orizzonte degli eventi di Regge ora è la vetrata che inquadra il verde della collina di Torino: un salone con pianoforte, libreria, un telescopio di ottone firmato da una storica azienda ottica torinese che non esiste più. Comunque sia, perfetto è il sottotitolo, «Autobiografia di un curioso». Curioso è anche il Regge lettore, che infatti un giorno sentì il bisogno di penetrare nel libro dei libri, la Bibbia, e per farlo imparò l’ebraico, divertendosi poi a rilevare le discrepanze tra il testo originale e la sua vulgata, per esempio nell’episodio delle due spie di Josuha che vanno a Gerico e vengono ospitate da una prostituta, parola di solito occultata in un eufemismo. «Ho letto la Bibbia – racconta – per stupire gli amici con qualche parola in ebraico antico. E’ un’opera che contiene tutto e il contrario di tutto. Probabilmente la portò in casa mio padre, che comprava un sacco di libri usati sulle bancarelle di piazza Carlo Felice e del Balon. Era geometra. A Torino ci sono cinque case che ha progettato, sono in corso Casale e in corso Quintino Sella. Anche lui era curioso e si interessava alla scienza. Purtroppo non aveva avuto maestri, e quindi la sua testa era piena di concetti sbagliati». Che fine hanno fatto i libri che suo padre acquistava sulle bancarelle? «Molti li ho ancora, sono in soffitta. Altri li vede lì in quella libreria, lassù in alto: l’Ariosto (un fumettone, ma divertente), la Divina Commedia, L’astronomie populaire e Les étoiles di Camille Flammarion. Sui libri divulgativi di Flammarion ho incominciato a conoscere l’astronomia. Ma per me il testo più importante fu la Matematica dilettevole e curiosa di Italo Ghersi, un manuale pubblicato da Hoepli. L’ho letto quando ero alle elementari. Ho saltato quarta e quinta grazie a un esame che mi ha permesso di iscrivermi al primo anno delle medie in una scuola privata di via delle Rosine. All’orale di matematica, come risultato di un problema, saltò fuori il numero 47. Toh, guarda, è un numero primo, esclamai. Il professore che mi esaminava si stupì. E come lo sai, mi domandò. Semplice, dissi: ho letto il Ghersi». Altri libri dell’infanzia e dell’adolescenza? «Non Pinocchio, ma tanto Salgari. Alice nel paese delle meraviglie di Carroll, che fu anche matematico: in fisica si chiama Gruppo di Carroll la descrizione di un mondo fittizio in cui la velocità della luce è nulla, qualcosa di simile al coniglio di Alice, che corre sempre e resta nello stesso posto. A scuola I promessi sposi mi lasciarono indifferente. Non mi dispiaceva Leopardi. Niente Carducci, che invece mia moglie apprezza. Al liceo ho avuto un professore di italiano che si chiamava Vanara. Un bravo professore, ma allora io amavo solo la matematica e odiavo i temi di critica letteraria. Mi bocciò. Poi mi sono preso la soddisfazione di scrivere centinaia di articoli di divulgazione scientifica per i giornali, a quanto pare decenti. Il fatto è che per scrivere bene servono due cose: conoscere l’argomento ed esserne appassionati. Detestavo gli autori latini. Forse li avrei amati se invece di Virgilio mi avessero fatto conoscere Lucrezio o Plinio. L’unico libro in latino che mi ha conquistato è del matematico Gauss, le Disquisitiones Arithmeticae, lo scrisse nel 1798, quando aveva appena 21 anni, fu il primo testo sistematico di teoria dei numeri». Romanzi? «Negli Anni '90 mi fecero questa domanda in un programma radio di Rai Tre. Parlai di Ippolito Nievo, Le confessioni di un ottuagenario: mia moglie ne fu commossa perché citai Colloredo, il paese friulano dove è nata. E poi Thomas Mann, specialmente il Doctor Faustus: mi piacque perché parla di un musicista, e la musica classica è una mia passione. E Robert Musil, che era un ingegnere meccanico, L’uomo senza qualità .... ». Fantascienza? «Sì, i romanzetti di Urania, ma anche Isaac Asimov e Fred Hoyle, autore della Nuvola Nera. Però la fantascienza non mi ha mai convinto. Neanche quando a scriverla sono gli scienziati, come Asimov, che era biologo, e Hoyle, che è stato un brillante fisico teorico. Pure lui tira fuori cose senza senso, come astronavi più veloci della luce. La scienza vera è più sorprendente di qualsiasi fantascienza. Quando pubblicai una raccolta di miei articoli divulgativi la intitolai Le meraviglie del reale in contrapposizione a Le meraviglie del possibile, antologia di racconti di fantascienza che Fruttero e Lucentini curarono per Einaudi nel 1959». Scrittori che ammira? «Primo Levi, naturalmente. La sua chiarezza, che gli viene dall’essere chimico, l’ironia, la nitidissima testimonianza sui lager nazisti. Ho potuto conoscerlo bene, da un nostro dialogo è venuto fuori un libretto. Non ho mai capito perché si sia ucciso. Ma il più vicino a me è Borges, specie quello di Finzioni: Funès o della memoria, La biblioteca di Babele. Vorrei essere Funès, ora che i miei ricordi evaporano! Di Borges mi piacciono i giochi di specchi, i labirinti, il brivido dell’infinito. Proprio per Tuttolibri nel 1981 mi divertii a calcolare le conseguenze fisiche di una biblioteca come quella immaginata da Borges: il numero di libri possibili è uguale a 25 elevato alla 656 mila, per scriverlo occorrono poco più di novecentomila cifre. Ma il volume dell’universo osservabile in centimetri cubi è un numero di appena 85 cifre. La Biblioteca di Babele non starebbe nell’universo ... ». Lei ha dato alla fisica contributi importanti. Quando le assegnarono il Premio Einstein o la Medaglia Dirac le motivazioni ricordarono i Poli di Regge, applicati in meccanica quantistica, il Regge Calculus, primo tentativo di quantizzare lo spaziotempo, ricerche sui buchi neri. Per anni ha tenuto la cattedra di relatività all’Università di Torino. Se dovesse consigliare a un lettore comune un libro per capire le teorie di Einstein sceglierebbe la biografia che ne ha scritto Abraham Pais o l’esposizione divulgativa della relatività dello stesso Einstein? «Entrambe». Dire Tullio Regge significa tante cose: l’illimitata voglia di capire il mondo, la lotta civile per le pari opportunità di un uomo che da tanti anni una malattia costringe su una carrozzella, l’interesse per la musica, il gusto di costruire al computer disegni satirici. Ma un’attenzione speciale merita l’attività di divulgatore: un campo nel quale Regge è stato pioniere con conferenze, libri, Cd-Rom, mostre (Experimenta), iniziative come GiovedìScienza, tutte cose che stanno sotto il cappello dell’Associazione CentroScienza, dove tuttora è presente accanto a Danilo Mainardi, Aldo Fasolo, Piero Angela. L’infinito cercare rappresenta bene tutte queste sfaccettature e colpisce per la leggerezza con cui Regge tratta le cose importanti che ha fatto e la serietà che talvolta riserva a cose leggere. Nel congedarmi, scorro gli scaffali. Vedo L’Orlando furioso nell’edizione dei Fratelli Treves del 1894 illustrata con 517 incisioni di Gustav Doré, Borges nei Meridiani Mondadori, i due volumi delle Opere di Levi, la Fisica di Feynman (Zanichelli), La nuova fisica di Davis (Bollati Boringhieri), libri di genetica di Watson e Crick, gli scopritori della doppia elica del Dna. Ogni tanto un titolo di Odifreddi inquina sacri testi di matematica. In un angolo, un libretto in giapponese. Gli autori sono Tullio Regge e Vittorio De Alfaro. Tratta dei «poli di Regge», il lavoro giovanile che lo lanciò nel mondo della fisica." (da Piero Bianucci, Tullio Regge: "Come Borges sento il brivido dell'infinito, "La Stampa", 09/06/'12)