mercoledì 21 dicembre 2011

La (vera) rivoluzione si fa in versi


"Volevo iniziare (lo faccio) «l'armonia vince di mille secoli il silenzio»; volevo dire (e lo scrivo almeno per vezzo provinciale) che la Letteratura italiana è nata con lo Stile Novo, con Cavalcanti. Voglio ricordare che ogni epoca in crisi ha rimesso in moto la potenza della lingua e della visione. Per stare al Foscolo, che non sbaglia mai, il mondo è in perenne affanno, il Trattato di Campoformio è uno smottamento reiterato al quale si reagisce con l'equilibrio, la passione, l'eleganza della Poesia. La «modernità» che ci riguarda pretendo di farla partire dal sonetto foscoliano («Forse perché della fatal quiete/tu sei l'immago, a me sì cara vieni,/o sera!»), proprio perché l'asse portante Ovidio-Petrarca-Leopardi trova nel poeta di Recanati una femminilità ormai da delirio sentimentale (oltre al titanismo plastico, alla figurazione carnosa ed esoterica delle Operette morali), infatti la sua splendida crisi è l'oblio, il salmodiante incespicare del Canto notturno per chiudere la porta in faccia all'eternità. Invece in Foscolo, e prima di lui in Alfieri e Parini, la prova virile, la risposta alla crisi perenne non abbassa mai la guardia. Non cede. Non indietreggia. Nel primo spara dalla culatta di un ego che produce il primo romanzo italiano (Vita); nel secondo l'illuminismo lombardo, ma non giacobino, si scaglia su disonestà e corruzione. In altre parole: nessuna Rivoluzione o Restaurazione si ribellerà quanto la Poesia. È la poesia che traccia i confini; è la poesia che ci stampa addosso il nome che portiamo. Essa ci dà il battesimo, dunque ci crocifigge come individui e uomini che, da soli, debbono cercarsi un posto nel mondo.
Anche sul finire dei Settanta del secolo scorso si riprese con la poesia. Allora l'Italia e il Muro di Berlino chiedevano e offrivano risposte reazionarie e rivoluzionarie. Amelia Rosselli mi diceva: «I poeti debbono rimanere poveri. La povertà è la bussola che non ti fa sbagliare». La vestale, con il padre e lo zio uccisi dai fascisti a Parigi, leggeva al buio, dialogava con i fantasmi, si imponeva il disprezzo per la volgarità, ricordava la timidezza di Pasolini che l'aveva aiutata a pubblicare da Garzanti. Amelia Rosselli spezzava le costole ai versi per renderli pazzi e cenciosi fino a quando, un giorno, volle provare a scriverli sul cornicione del palazzo. Io, foscoliano e manzoniano, dentro di me aggiungevo: bisogna cercare la perfezione nella nostra lingua, il silenzio, la concentrazione totale, il digiuno, la solitudine, l'amore, la sfida, l'orgoglio, la tenacia.
La letteratura di quegli anni era ingessata tra neo avanguardia e impegno politico; la lingua poetica e narrativa era ridotta a slogan. Sì, c'erano le impennate eroico-retoriche di Dario Bellezza, i travasi tra autobiografia narrativa e versi dell'appassionatissimo Renzo Paris, Area di rigore di Valentino Zeichen, le poesie con «zoppìa» di Maurizio Cucchi, il risultato morfinico di Milo De Angelis, il dettato opalinico e rinascimentale di Giovanni Raboni, e poi la grande abbuffata del Festival di Castelporziano (1979) con Franco Cordelli divo timido dietro i suoi occhiali Rainbow con le lenti a goccia verde bottiglia, che non sanciva la pericolosità del poeta «sotto ogni Stato», bensì la morte stessa della poesia. Si era giunti al capolinea.
La lezione dei poeti che serviva ai nuovi non si trovava tra le schiere dei Fortini, dei Sereni (pur poderoso), dei Porta, dei Pagliarani (pur intelligente), piuttosto nei colpi incendiari di Dino Campana («Nella stanza un odor di putredine: c'è/ Nella stanza una piaga rossa languente. / Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto ... Nel cuore della sera c'è, / Sempre una piaga rossa languente»), nelle preghiere del fanciullo straziato di Sergio Corazzini (Desolazione del povero poeta sentimentale: «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange» va imparata a memoria, come deve essere per Autunno di Cardarelli, per Il conte di Carmagnola di Manzoni). I «nuovi» avevano bisogno delle poesie liguri di Caproni, forse delle atmosfere ferraresi, raffinate e tocche di mente di Luciano Erba. Montale era il poeta di Ossi di seppia, ma anche l'intellettuale fotografato mentre fissa l'upupa imbalsamata. Sono convinto che ai poeti servisse soprattutto l'insostenibile luce di Giuseppe Ungaretti. Insomma pure quegli anni ebbero il loro Trattato di Campoformio. Ormai il linguaggio era ridotto a un vessillo agitato. Dunque la lezione di Pascoli (primo del Novecento, non si dimentichi), l'antilezione di Guido Gozzano (unica e possibile sintesi tra il Vate, l'attesa della morte e il raffinato modernariato), il pentagramma di d'Annunzio dove erano andati a finire? Così alcuni poeti (Salvia, Goroni, Scartaghiande, Del Colle, Antonella Anedda, Giovanna Sicari, Gabriella Sica per la collana del minuscolo editore Rotundo, diretta da Arnaldo Colasanti; mentre Crocetti a Milano faceva da polo per altri ancora più giovani: Antonio Riccardi, Stefano Dal Bianco) ripresero sillaba dopo sillaba a rinnovare la lingua infine pronta e servita ai narratori (sempre «nuovi» i narratori).
Da tempo sono convinto che i poeti e gli scrittori debbano riproporre non un neo romanticismo (ricordo i primi anni Ottanta), bensì il Romanticismo. Senza Manifesti, Progetti, Convegni. Per troppo si è stati persuasi, appunto, che il Romanticismo fosse un archetipo letterario. La post modernità, soprattutto, ne ha fatto un involucro per scriverci sopra la parola «cuore». Invece ogni crisi riparte dalla poesia «romantica». In pieno conflitto tra papato e impero si parte da lì; nel feroce e dorato Rinascimento si parte da lì (Ariosto); le Rime del Tasso ripartono da lì; i tedeschi, gli inglesi, gli italiani per strapparsi di dosso le rovine del neo classicismo ripartono da lì. Quindi, ora che ci sembra di assistere allo schianto di tre quattro imperi contemporaneamente, e di vedere come lo scambio di merci e corpi pare un precipitato apocalittico, è bene osare e dire che la povertà della passione e della sua corte vince non solo quando la ragione è in forma, tocca lo zenit, ma soprattutto quando la crisi divora la cultura, il tempo antropologico delle culture.
Ogni poeta che è sceso nell'Ade è stato romantico (Virgilio su tutti); ogni passione si trascina dietro la miseria (in poesia si trasforma in lusso e sfarzo, vedi Verlaine, Rimbaud, Baudelaire) si porta con sé la forma, la velocità, la semplicità dei linguaggi che nella sinestesia sconvolge ogni interferenza e ci offre la possibilità di scrivere ancora il nostro nome." (da Aurelio Picca, La (vera) rivoluzione si fa in versi, "Corriere della Sera", 21/12/'11)

Si comincia con Szymborska, poi arriva Kavafis
Dal lavorìo riflessivo della Szymborska che «spalanca al nostro sguardo le cose prime e ultime della vita» (la definizione è di Franco Marcoaldi), fino ai «versi liberi modernissimi e vetusti» com'erano i componimenti di Kavafis secondo Marinetti, e così via attraverso Walcott, Neruda, Pessoa, e poi Merini, Pasolini, Luzi e molti altri: la nuova collana del «Corriere», «Un secolo di poesia», curata da Nicola Crocetti, proporrà 30 volumi monografici dedicati ad alcune delle voci più interessanti del Novecento (prima uscita del 27 dicembre 1 euro più il costo del quotidiano, le successive uscite 7,90 euro più il costo del quotidiano). Il primo volume sarà dedicato a Wislawa Szymborska, Elogio dei sogni, con testo originale a fronte e introduzione e cura di Pietro Marchesani, il grande polonista recentemente scomparso. Il 3 gennaio sarà la volta di Costantino Kavafis, con La memoria e la passione (introduzione e cura di Filippomaria Pontani), seguiranno il 10 gennaio Pablo Neruda con Tra le labbra e la voce (introduzione di Ranieri Polese, a cura di Giuseppe Bellini), il 17 gennaio Fernando Pessoa con Nei giorni di luce perfetta (introduzione di Marco Missiroli, a cura di Paolo Collo), per continuare il 24 gennaio con Derek Walcott (Nelle vene del mare, introduzione di Sergio Perosa, a cura di Matteo Campagnoli), il 31 gennaio con Alda Merini (Il canto ferito, introduzione di Vivian Lamarque, a cura di Nicola Crocetti), il 7 febbraio con Federico García Lorca (Nuda canta la notte, introduzione di Giorgio Montefoschi, a cura di Valerio Nardoni). Ciascun volume conterrà, oltre ad alcune delle poesie più importanti dell'autore (talvolta con componimenti inediti), anche nuove introduzioni. Tra le uscite successive, i volumi dedicati a Pasolini, Prévert, Luzi, Brodskij e numerosi altri. (Ida Bozzi)

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