sabato 17 dicembre 2011

Diario di lettura: Don DeLillo


"«Io per mestiere mi occupo del fatto che viviamo in tempi pericolosi». Comincia così, Don DeLillo, a raccontare cosa fa nella vita e come ci è arrivato.
L’occasione è la pubblicazione di The Angel Esmeralda, la sua prima raccolta di racconti, che uscirà in Italia a febbraio da Einaudi (l’editore, tra l’altro, di Underworld), con lo stesso titolo. La prima storia della collezione, Creation, risale al 1979, e l’ultima, The Starveling, al 2011. Quindi offre la scusa per riguardare l’intera carriera di un autore che, secondo il severo Harold Bloom, sta nell’olimpo dei quattro scrittori americani migliori dei nostri tempi.
Perché una raccolta di racconti proprio adesso? «Non lo so, è un’idea della mia editor. All’inizio ero scettico, ma dopo aver completato la scelta ho scoperto di esserne orgoglioso. Mi piacciono i racconti, la loro brevità mi guida».
Un lettore che non conoscesse le date in cui li ha scritti, potrebbe pensare che sono tutti di oggi. E’ lei che è bravo a prevedere il futuro, oppure i dilemmi
della nostra società non sono cambiati e restano irrisolti da quarant’anni? «Come dicevo, mi occupo della pericolosità dei nostri tempi, che sta aumentando. Siamo tutti concentrati sull’individuo, invece che sulla società, e la forma del racconto consente di cogliere meglio le nostre angosce, perché in genere si modella sulla storia di un protagonista. I romanzi sono più estesi, più esposti ai mutamenti e ai conflitti della cultura e della società».
Quando si è convinto che i nostri tempi sono pericolosi? «La mia vita personale è
stata segnata dall’uccisione di John Kennedy, che ha dimostrato la forza della violenza e la fragilità dei nostri sistemi di vita. Poi abbiamo sopportato quarant’anni di guerra fredda, con la perenne minaccia nucleare. Quando pensavamo di esserci liberati, è iniziata l’era del terrorismo, dove non puoi salire su un aereo senza pensare a quali strane idee potrebbe avere in testa il tuo vicino. Uno scrittore non può ignorare questa paura e l’instabilità che ci circonda».
Non era così quando aveva deciso di occuparsi di letteratura? «Ho cominciato tardi, in realtà. Per due ragioni: non avevo ambizione e non mi sentivo pronto. Il mio interesse per la letteratura è iniziato dalla lettura».
Come? «Da ragazzino facevo un lavoretto in un parcheggio di auto. Mi annoiavo e cominciai a leggere. Fu l’inizio dei miei anni d’oro della lettura, quando avevo venti e trent’anni».
Quali sono gli autori che l’hanno influenzata? «Molti. Non mi hanno influenzato
nel senso che ho cercato di imitarli nel lavoro riga per riga, ma perché mi hanno fatto scoprire il potere della letteratura. James Joyce, che mi ha mostrato la
bellezza della lingua inglese. Poi Hemingway e Faulkner, per l’abilità di descrivere il panorama americano. Ma anche tanti europei, che sono stati assai importanti».
Tipo? «Max Frisch, Italo Svevo, Cesare Pavese, Camus. Ho letto molto anche Nabokov».
Perché l’hanno influenzata? «Ci sono elementi nella narrativa europea, su varie tipologie di individualità, minacciate da forze esterne al loro controllo. Gli europei non sanno rendere la forza e il significato di un paesaggio come Hemingway, Faulkner o Steinbeck. Però quando Kafka descrive le forze che spazzano via le vite degli individui, senza che possano far nulla per opporsi, è insuperabile».
Nella sua casa, poco a nord del Bronx dove è cresciuto, quali libri ci sono? «Troppi, sono pieno di libri».
Maquali sta leggendo adesso? «Beckett e il catalogo delle opere di William De Kooning».
Perché? «Beckett è il campione della frase. Rileggerlo è una sfida, perché mi stimola ad immaginare attraverso quale percorso sia arrivato a scegliere le parole che poi ha messo in fila. Sempre sorprendente».
E le opere di de Kooning, cosa c’entrano? «Sono stato tre volte e vedere la sua mostra al Moma. La pittura astratta espressionistica è stata sempre una delle ispirazioni della mia scrittura. Pollock, Rothko, de Kooning: mi piace perdermi davanti ai loro quadri. E’ una grande esperienza, e presenta il vantaggio che poi non devo scriverne».
Quali sono i tre libri che obbligherebbe tutti a leggere? «Ulisse di Joyce, e poi qualunque cosa di Hemingway e Faulkner: scegliete voi, tutta la loro opera è essenziale. Mi è piaciuto molto anche JR di William Gaddis».
Uno dei fondatori del postmodernismo, come lei. «Lasciamo perdere le etichette.
Mi affascina la sua satira sul caos della società».
Infatti un racconto di Esmeralda, «Hammer and Sickle», fa ironia su
un gruppo di banchieri rinchiusi in prigione per reati finanziari. Stiamo vivendo solo una crisi economica, oppure qualcosa di più grande? «Se guardate le proteste come quella in corso a New York, "Occupy Wall Street", si capisce che siamo di fronte ad una grave insoddisfazione generale. L’economia è il centro, ma la gente è preoccupata soprattutto per la mancanza di leadership. Abbiamo la chiara sensazione di vivere in un mondo dove succedono cose enormi senza controllo».
Perciò, nel racconto che dà il titolo alla raccolta Esmeralda, un’anziana
suora va a caccia di miracoli nel Bronx? «La fede non è più quella tradizionale
con cui sono cresciuto. Ora è un credo costruito su misura per ciascun cliente. Ci interessa solo la dimensione locale, quello che è vicino a noi, e paradossalmente
internet ha contribuito a creare questa mentalità. Tanto per capirci con una metafora letteraria, ognuno crede di poter scrivere un romanzo il cui protagonista
è se stesso».
Ce l’ha con la tecnologia? «Tutti questi aggeggi che ci portiamo dietro hanno creato un obbligo di usarli e comunicare, anche quando non abbiamo nulla da dire. E’ contagioso».
E’ vero che lei si rifiuta di usare l’e-mail? «Diciamo che mi rifiuto di moltiplicare le comunicazioni non necessarie. Non è detto che dobbiamo fare tutti certe cose, solo perché la tecnologia lo consente».
La protagonista di un racconto di Esmeralda si ritrova minacciata da una serie di terremoti in Grecia, ma non trova la forza di scappare: siamo tutti intrappolati in questa fragilità? «Siamo molto assorbiti da noi stessi, e le nostre paure spesso nascondo proprio dall’incapacità di guardare fuori. Se lo facessimo, magari anche attraverso la letteratura, capiremmo che la fragilità è una minaccia costante del genere umano, ma almeno sapremmo che non è un problema personale».
Come Leo, protagonista del racconto The Starveling, che chiude la raccolta
Esmeralda. Lui, per scappare dalla società, passa la vita dentro un cinema.
«E’ incapace di adattarsi alle situazioni, di fingere per essere accettato. Si rifugia nel buio di un cinema perché questo gli dà la sicurezza di non dover interagire. La maggioranza degli esseri umani oggi sembra spinta al comportamento opposto: comunicare a tutti i costi, anche se non si ha molto da dire».
Questa frenesia, però, è anche il fenomeno che trasforma interpreti della società
come lei in icone globali. «Io sono nato come scrittore marginale, e non so dirvi perché ho avuto tutto questo successo. Però non ho alcun problema a tornare nell’angolo della stanza, per osservare»." (da Paolo Mastrolilli, “Oh, Beckett: è il campione della frase”, "TuttoLibri", "La Stampa", 17/12/'11)

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