lunedì 11 gennaio 2010

Ezio Raimondi: "La modernità uccide la letteratura"


"Un uomo d'altri tempi, e non solo per motivi anagrafici: Ezio Raimondi lo sarebbe anche se non avesse 85 anni. Probabilmente lo è sempre stato. E quando si dice 'uomo d'altri tempi' non è necessario pensare al passato, perché ascoltarlo è come sentire la voce di una coscienza che proviene da lontanissimo pur essendo profondamente radicata nel presente. Esploratore onnivoro di un'infinità di autori, non solo italiani, da Dante a Manzoni, da Broch a Gadda, da Nabokov a DeLillo. Un critico che riflette, un teorico che vede il particolare. Alto, asciutto, elegante, chiuso tra muri di libri inseriti di traverso, incastrati, pigiati dentro scaffalature che dal pavimento arrivano al soffitto e da pile che si innalzano ovunque, Raimondi ha una reotrica limpida, dalle volute ariose. 'La letteratura - dice - è in una condizione difficile, ha subito una sorta di lesione che si traduce quasi in una disfida contro la vita contemporanea, un'epoca che non favorisce la meditazione. Per questo, oggi più che mai è chiamata a trovare un senso in un mondo che vuole un accumulo di esperienze istantanee, mentre la letteratura utilizza la memoria e diventa forte quando l'io torna a chiedersi: chi sono? L'invocazione della letteratura è una sola: facci essere umani, per citare Wittgenstein'. Una tale fede nella letteratura non si può facilmente distinguere da una vera e propria tensione etica, civile, religiosa che ha radici familiari: 'Carlos Fuentes ha detto che alla letteratura spetta di parlare di ciò che è invisibile dentro il visibile. La parola della letteratura è a suo modo una rivelazione di noi stessi a noi stessi, una sorta di epifania, una prova a cui si è chiamati: creare un universo che prima non esisteva e in cui le risposte sono interrogativi. Ed è da lì, dagli interrogativi, che comincia la dimensione religiosa'. C'è una curiosità, in Raimondi, che supera i confini geo-letterari, sicché a rigore non è lecito parlare di un italianista punto e basta. In un saggio intitolato Novecento e dopo, del 2003, Raimondi esponeva le sue considerazioni su un secolo di letteratura, chiamando in causa Conrad, Kafka, Canetti, Céline, Benn. Scrittori apparentemente lontanissimi tra loro. Che cosa li unisce? 'La difficoltà di essere uomini moderni in un mondo molto complesso, complessità delle cose e dei drammi vissuti: l'essere vigili nel presente e interpretare le situazioni storiche in una prospettiva critica. La letetratura, ben prima di altre forze, ha sperimentato il doppio binario della globalizzazione e della localizzazione, i classici per definizione vivono nelle dimensioni più varie e rivelano una straordinaria disponibilità a tempi e luoghi diversi'. Domanda da cento milioni: che rapporto si stabilisce per un critico tra la propria biografia intellettuale e gli scrittori di cui ci si occupa? 'E' una domanda che alla mia età ci si pone spesso. Guardandosi indietro si scopre che nella coerenza, se c'è, hanno avuto un ruolo importante la casualità e l'imprevisto. Sempre Fuentes dice che nel mondo dei libri la vita è un complesso di possibilità che trasformano il desiderio in esperienza e l'esperienza in destino'. [...]" (da Paolo Di Stefano, 'La modernità uccide la letteratura', "Corriere della Sera", 10/01/'10)

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