martedì 12 gennaio 2010

Il reato di scrivere di Juan Rodolfo Wilcock

"Solitario e seducente. Disincantato e ammaliante. Appassionato e snob. Un’armonia degli opposti fa l’appeal del poeta italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock, che nacque nel 1919 a Buenos Aires e morì nel 1978 a Landriano (Viterbo) dove visse da cittadino elettivo del Belpaese e figlio adottivo della lingua italiana. Gli avrà fatto gioco, nel comporre in amalgama tanta eterogeneità, la varietà delle esperienze da cui proveniva: la formazione giovanile da ingegnere che in madrepatria sovrintese alle ferrovie transandine; la vocazione precoce di traduttore che, nella madrelingua spagnola, riscrisse le opere di Marlowe, Aubrey, Joyce; la vicinanza della «luminosa trinità», Borges, Bioy Casares e Silvina Ocampo, dai quali aveva imparato l’ozio pensoso, l’intelligenza attiva, la stranezza dell’universo.
Accompagnato da quei tre numi tutelari approdò in Italia nel 1951, e si persuase poi a restarvi: sedotto dalla lingua di Dante che aveva scelto come proprio idioma e riconosciuto come codice della poesia tout-court. Oltre all’amore per il verso, furono la curiosità per le scienze e la passione per la filosofia di Wittgenstein, coltivati come antidoti alle certezze della ragione, a formare la sua «eccentrica saggezza», il suo «sottofondo di felicità» - scrisse il suo editore Roberto Calasso - e a consolidare il suo spirito critico e il suo temperamento ruvido, scostante, charmant.
Era «sprezzante» per talento di «sprezzatura», la virtù inventata da Baldassar Castiglione e celebrata da Cristina Campo, dice di lui Edoardo Camurri curatore degli scritti che Wilcock pubblicò sulla stampa italiana negli anni 60 e 70, raccolti nel libricino Adelphi Il reato di scrivere (da domani in libreria) di cui in questa pagina anticipiamo un brano.
Su quotidiani e periodici - Il Mondo di Pannunzio, Tempo presente di Chiaromonte, La voce repubblicana - Wilcock scrisse di caste intellettuali, conventicole accademiche, scuderie editoriali. Delle «confraternite» dei letterati, del «racket dei premi letterari»: così definiti, più che con risentita intenzione di denuncia, con l’innocenza stralunata di chi nota la nudità dei potenti. Scriveva dell’onestà scoraggiata nei giovani artisti e delle prevaricazioni esercitate dai loro (re)censori. Della tirannia della cultura al potere e del suo asservimento alle «aspirazioni più bestiali» dei sudditi. Delle mistificazioni dei letterati, dell’arrivismo degli scrittori. E poi del perbenismo culturale, della smania distruttiva di stroncare, di egotismo permaloso spacciato per originalità e di valutazioni omertose distribuite con l’etichetta del «buon gusto». Per risollevare lo spirito e alzare lo sguardo scriveva del «suo» Dante. Ovvero di poesia: della quale Wilcock - «poeta di cultura europea», disse di sé, e autore, oltre che di giornalistici pezzi di bravura, di varie raccolte di versi - proclamò l’esaurimento e la morte. Salvo annunciarne la rinascita nelle forme e nei ritmi della prosa italiana.

I promotori di un’inchiesta mi hanno domandato: «Che cosa significa per Lei, oggi, Dante?». Poiché Dante fu il poeta massimo della letteratura europea, per me è come se mi domandassero: «Che cosa significa per Lei, oggi, la poesia?». Ciò non mi provoca il fastidio che mi provocano certe inchieste, da critici-portinai, come per esempio: «1. Che pensa Lei del romanzo sovietico contemporaneo? 2. Che pensa Lei del nouveau roman?». E così via. Perché il romanzo sovietico contemporaneo e il nouveau roman mi riguardano quanto la temperatura minima dell’altro ieri a Manila; invece la domanda su Dante, cioè sulla poesia, non solo mi riguarda, ma mi coinvolge.
Allo stesso modo coinvolge migliaia di persone che scrivono o hanno scritto poesie, che si occupano o si sono occupate di poesia. Non è una domanda locale, italiana: è una domanda intorno a una grande cosa finita, compiuta, senza seguito: la poesia in Europa, nelle due Americhe e in tutte quelle parti del mondo che si servono delle lingue europee. Non si tratta di Leopardi o di Torquato Tasso, si tratta del miglior poeta che ebbero le nostre lingue. Ossia il più grosso produttore di un prodotto che non si produce più. La domanda interessa quasi tutti noi, perché fino a poco tempo fa quasi tutti noi partecipavamo, sia pure come consumatori, a questa produzione, o al suo simulacro, e l’abbiamo vista scomparire sotto i nostri occhi. Scomparire come mestiere per diventare vizio. [...] Il mestiere consisteva nello scrivere «Dolce color d’oriental zaffiro» e consegnare al linguaggio quest’alba nuova e memorabile; il vizio sta nello scrivere di nuovo «Dolce color d’oriental zaffiro» e infilarcelo nel taschino, o legarlo alla coda del gatto; perché, dove altro possiamo metterlo? Dante si serviva della poesia per attestare la sua convinzione, gloriosa ma scaduta, che non siamo nati per vivere come bruti. Scaduta, dico: adesso sappiamo, o sospettiamo, di essere nati per vivere come bruti. [...]
Vorrei però che tutto questo fosse un’ipotesi sbagliata (non si può essere pessimisti e desiderare inoltre di aver ragione). Ho parlato finora a nome dei letterati; ho considerato l’insieme enorme di prodotti poetici di questo ciclo concluso e l’impossibilità, per loro, di aggiungerci qualcosa: non perché non lo sappiano fare, bensì per la mancanza sia di movente che di scopo nel farlo. [...]
Credo che «quell’insieme enorme di prodotti poetici» sta a condizionare ancora le nostre possibilità di espressione, ossia di pensiero, e che ciò non sia sempre un bene. Quante volte non vediamo la realtà attraverso un verso che, pur esprimendo un pensiero questionabile, riesce magicamente a presentarsi come pensiero delicato. I più ovvi, anche se i più rozzi esempi, sono i proverbi in versi, feccia dell’insipienza, eppure magicamente accettati: «Moglie e buoi [...] dei paesi tuoi», «Tra moglie e marito [...] non mettere il dito», o peggio ancora: «Al contadino non far sapere [...] quant’è buono il cacio con le pere».
Sul piano più dignitoso possibile, lo stesso vale purtroppo per la Divina Commedia. Fin dall’inizio: «Nel mezzo del cammin di nostra vita»; e subito tutti a supporre che la vita sia un cammino, senza alcun motivo. E una volta storta la mente in quella direzione, e con tanta forza - con tanta forza, soprattutto -, nessuno la raddrizza più. Un altro grande poeta scrive che «la vita è sogno», dunque bisogna credere che la vita sia un cammino e un sogno contemporaneamente; è strano che ciò non comporti per noi alcuna difficoltà. «Quell’insieme enorme di prodotti poetici» è un gran dono e un gran pericolo. [...]
Il pericolo peggiore (ma perché pericolo? Semplicemente prospettiva) è questo: che una miliardaria proliferazione di esseri umani, come dice Morante: «soprannumerari conciati, televisati e lustrati per la bomba atomica», estenda il nominalismo delle ideologie puerili a oggetti sempre più complessi, fino a mummificarli e convertirli in puri nomi, semmai connessi a piccoli riti: «San Marco», un posto dove si entra e dopo un quarto d’ora si esce; «Golfo di Napoli», golfo bello da guardare; «Debussy», musica che faceva la borghesia mentre decadeva; «Cechov», attività dei teatri sovvenzionati; «Shakespeare», varietà di dialoghi e vestiti del Seicento con delitti; «Picasso», disegni storti per appartamenti; «Tiziano», quadri per musei; «Leonardo», «Michelangelo» e «Raffaello», navi e geni; «Dante», poeta nazionale. E una volta svuotati di ogni senso, al contrario del Geova ebraico, di loro non sia permesso dire o sapere altro che il nome." (da Alessandra Iadicicco, Wilcock, se scrivere è un reato, "La Stampa", 12/01/'10)

Nessun commento: