sabato 6 febbraio 2010

Gormenghast è fantastico più di Avatar


"Le coincidenze a volte sono salvifiche, e certo lo è che Via da Gormenghast, l'ultima parte della trilogia di Mervyn Peake (1911 - 1968), venga pubblicato in Italia (trad. di R. Serrai, Adelphi) nel momento in cui un film come Avatar sbanca il mercato, e in cui la letteratura fantastica pare essere diventata un affare editoriale, purché seriale e banalizzata. Le immagini perfette che ci regala il computer saranno certo il nostro futuro di lettori e cinefili, ma lasciano, paradossalmente, un senso di incompiutezza. La lettura di un testo, la visione di un film o di un quadro, implicano un contratto tra autore e fruitore. Nel fantastico, del contratto fa parte una sorta di sospensione dello sguardo, che permette di entrare in un mondo Altro, collaborando con l'autore alla sua costruzione.
L'inesorabile perfezione tecnica di Avatar ci costringe in breve a una fruizione normalizzata e soprattutto passiva, in cui il nostro spazio interpretativo e la nostra possibilità di provare e creare risonanze personali diminuiscono drasticamente. Tutto è già davanti a noi, tutto è espresso in particolari così vividi che a patirne è la nostra stessa immaginazione. Ulteriore conseguenza è una sorta di assuefazione al meraviglioso, che non viene più evocato, ma mostrato direttamente. Con un paragone ardito potremmo dire che un libro come quello di Peake sta ad Avatar come l'erotismo alla pornografia. L'erotismo ci indica come misterioso e ricco di infinite possibilità quello che nella pornografia è evidenziato e meccanico, ginecologico. L'erotismo ci permette di costruirci una fantasia personale, di entrare nell'immaginazione creatrice o in quello che Winnicott chiamò spazio transizionale. La pornografia ci impone uno sguardo del tutto concreto, privo di proiezioni personali. E, come dice Jung, il mondo senza proiezioni diventa grigio. Per analogia, chi viaggia intorno ai 50 anni, ricorderà lo sconcerto provato nel passare dalle prime scatole di Lego, in cui i pezzi, anonimi, permettevano di seguire l'ispirazione del momento, a quelle dedicate a uno specifico soggetto: la gru, la jeep. La gru e la jeep e solo quelle, appunto.
Di questa contrazione dell'immaginazione e del conseguente, inevitabile, impoverimento emotivo, possiamo renderci conto, per contrasto, attraverso la
lettura di un libro come Via da Gormenghast.
Non si provi a citare il fantasy, parlando della trilogia di Peake, scritta fra il 1946 e il 1959, e pertanto anche di questo terzo, atteso volume. Già il termine va assai stretto a Tolkien, ma adoperarlo per indicare la labirintica opera di Mervyn Peake suona, per gli appassionati, del tutto inesatto se non blasfemo.
Come sapranno gli audaci e i fortunati che si sono inoltrati nei primi due volumi (Tito di Gormenghast, Adelphi, 1981 e Gormenghast, Adelphi, 2005), in cui si narrano le vicissitudini del giovane Tito de' Lamenti, erede del conte Sepulcrio e nuovo signore di Gormenghast (enorme castello sulla cima di un monte omonimo), la trilogia è un'opera a sé, che giustifica il geniale neologismo di C. S. Lewis, che introdusse la categoria del gormenghastly, ibrido con ghastly: orrendo, spaventoso, spettrale. Parola chimera, come chimerico è il castello, al centro dei primi due volumi, affollato da personaggi dagli echi dickensiani e grotteschi, e percorso a ogni pagina dall'oscurità di un mistero insondabile. Un linguaggio barocco e però di estrema precisione, quasi shakespeariano, capace di evocare nel lettore immagini intense e disturbanti, narra eventi a volte minimi di un Altrove assoluto. Assoluto perché Peake pare raccontare emozioni e ossessioni eterne ma al tempo stesso nuove, come viste in uno specchio sghembo.
Opera a parte, ho detto (e opera aperta, in quanto mai conclusa: a questo terzo avrebbe dovuto seguire un quarto volume, mancante a causa della morte di Peake, da anni affetto dal Parkinson): meteorite piombato nelle terre talvolta troppo piane della letteratura, in cui porta potenza, stranezza, senso di un mistero e di una complessità mai completamente indagabili.
Libro - l'intera trilogia - in cui rintracciamo i temi dell'individuo e del collettivo cari a tutto il secolo scorso; l'incomprensibilità e la conseguente ineluttabilità dei rituali (come in Kafka); la capacità di costruire plausibili mondi altri che segna tanta della letteratura inglese a cavallo tra Otto e Novecento, da Carroll a Morris; l'assenza di Dio e la sua conseguente immanenza.
Il castello di Gormenghast può essere apparentato solo al Castello di Kafka o a Moby Dick di Melville: minerale e organico a un tempo. Non si tratta di un non-luogo, come afferma un'intelligente recensione da poco apparsa, ma piuttosto di un ur-luogo, di un luogo germinale, da cui sembrano provenire la potenza e la stranezza dei nostri stessi sogni.
Questo luogo unico è assente in concreto (ma incombente sullo sfondo) in tutto il terzo libro, in cui Tito fa ciò che mai ci saremmo atteso da lui, prigioniero e signore del luogo, se non nelle ultime pagine del secondo volume. Se ne va. Va
per il mondo, in cerca di qualcosa che né conosce né intuisce, ma che lo spinge con l'urgenza della ricerca d'identità, con la crudele necessità di distinguersi dalle pietre che gli hanno dato vita. Anche qui incontriamo rischiose avventure, personaggi fitti e grotteschi, dall'avventuriero Musotorto, con il suo naso a timone, alla splendida Giuno, dalla testa classica e tropicale, ai reietti del Sottofiume, che altro non sembra se non le segrete del castello avito.
La scrittura di Peake si fa apparentemente meno controllata, ancora più immaginifica e barocca, nel descrivere luoghi e oggetti inimmaginabili dalla clausura di Gormenghast: automobili-squalo che paiono esseri viventi, aerei che ricordano le pagine di Wells, città tra medievali e futuriste ... E compaiono anche l'amore e il sesso, la spinta urgente che muove talvolta le scelte di Tito, adolescente che brucia di desiderio di ritornare a casa (una casa della cui esistenza nonè più certo) e del fuoco dei suoi ormoni. Andremo a vedere anche l'inevitabile sequel di Avatar, ma intanto ci piace pensare di poter ancora essere «così alla mercé delle parole», come dice uno dei personaggi minori di Peake. Frase in cui non è difficile riconoscere lo stesso scrittore e, perché no, anche noi stessi." (da Alessandro Defilippi, Gormenghast è fantastico più di Avatar, "TuttoLibri", "La Stampa", 06/02/'10)

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