sabato 6 febbraio 2010

L'uomo verticale di Davide Longo


"La letteratura non dovrebbe legiferare il caos nominandolo, secondo una lezione di Calvino? Così fornendo, dispiegando, riga dopo riga, una testimonianza all’impiedi? Fin dal titolo, L’uomo verticale (Fandango), il terzo romanzo di Davide Longo (esordì, felicemente, con Un mattino a Irgalem, non mantenne le promesse nel successivo Il mangiatore di pietre) dissolverebbe il punto interrogativo.
Se non che, nella lunga traversata del Male che questa prova è, la lingua si rivela claudicante, inadeguata, dalla storia spesso fagocitata, relegata a un rango gregario. Ora criptica («... nell’aria c’era odore buono di resina e di terra calda. Quell’odore faceva pensare all’Umanesimo...»), ora disadorna, una sorta di brogliaccio, appena increspato. Non si tratta di comporre «quartine in un macello», come raccomandava Céline, ma occorrerebbe che la parola, discesa nell’inferno, vibrasse, reggesse, in posa verticale, la sfida del fuoco. E’ l’arte di «cantare il caos» interpretata per esempio, con esiti diseguali, da Antonio Moresco.
Non è un paese per vecchi l’agone geografico di Davide Longo. Un mondo innominato, ma battente - la segnaletica, ancorché cosparsa di asterischi, è un sicuro filo d’Arianna - bandiera italiana. In veste di martoriato virgilio, Leonardo, già professore universitario di letteratura (italiana), di cui un allievo incontrato per strada, la squartata strada, rammenta una lezione su Leopardi. Forse profetica. A modo loro le terre che via via si fanno abisso non richiamano alla memoria i versi di All’Italia? «Oimè quante ferite, / che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, / formosissima donna! Io chiedo al cielo / e al mondo: dite dite: chi la ridusse a tale?».
Bande di ragazzi ammazzano, stuprano, incendiano, si stordiscono di musica, affondano nella droga e nell’alcol. Scarseggia il cibo, e così la benzina, e i farmaci, e i soldi. Il campionato di calcio è sospeso. Gli orologi esauriscono le batterie, il tempo è «regolato unicamente dal giorno e dalla notte, come accadeva
per le fiere e gli animali privi di intelletto». La piccola carovana di Leonardo (la figlia Lucia; Alberto, figlio del secondo marito di Alessandra, l’ex moglie; il cane Bauschan; il «totem africano in tuta da ginnastica» Sebastiano) è catturata da una demoniaca tribù. La capeggia, plagiandola, Richard, saio chiaro di tela grezza, calzari di pelle, lunghi capelli castani, la barba incolta. Leonardo, che vedendo il guru pensò «è Cristo, o qualcuno che fa di tutto per somigliargli», ne patirà l’efferatezza, venendo, dopo varie umiliazioni, rinchiuso in una gabbia con un elefante e un’asina. Ma suprema passione sarà per lui la sorte di Lucia, da Richard abusata fino a ingravidarla.
Lungo il calvario, stazione dopo stazione, Leonardo riandrà a questo o a quel libro, una folta biblioteca, dal flaubertiano Cuore semplice a Bernhard, da Tolstoj all’Odissea: «Alcuni li avevo scelti come bastioni delle mie mura». A che cosa sono serviti se la conclusione è: «Amo infinitamente quelle storie, eppure
le so responsabili di quello che sono. Un uomo mancante»? Leonardo otterrà per sé e
per i suoi, zoo compreso, la libertà, assoggettandosi a un grave sacrificio. Quindi orientandosi verso il mare dove una comunità di sopravvissuti lo accoglierà fra sospetto e speranza: è forse un messia? «Sappiamo che conservi le storie - è accolto -. Vorremmo poterle ascoltare». (E il pensiero va al borgesiano Vangelo secondo San Marco, a Espinosa che dopo aver letto la sequela Christi ai contadini Gutre sarà crocifisso. Mentre i doni offerti a Lucia dopo il parto riconducono al monito dell’Eneide: timeo Danaos, et dona ferentes).
Davide Longo, in exitu, là dove abbraccia generosamente, poco importa se consapevole o meno, la forma della parabola, riaccende, nel lettore, il desiderio di ritrovarlo, di riascoltarlo, o prima o poi." (da Bruno Quaranta, Non hanno pietà i ragazzi in fuga, "TuttoLibri", "La Stampa", 30/01/'10)

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