martedì 17 giugno 2008

Vidiadhar S. Naipaul: quei silenzi sull'India


"'Il silenzio' dice Bacone 'è la virtù degli sciocchi'. Chi come noi si guadagna da vivere con le parole potrà essere magari meno perentorio, ma è verità evidente che il silenzio è ciò cui dà battaglia lo scrittore. Il silenzio motivato da pavidità o da giustificati timori appartiene alla brutale esperienza del secolo scorso. Martin Luther King disse che più delle parole dei nemici dobbiamo temere il silenzio degli amici. Nelle società oppresse taluni scrittori hanno infranto coraggiosamente questo silenzio, sfidando le censure e opponendosi alla tirannide che non vuole si manifesti la verità. Il mestiere dello scrittore, il mestiere delle parole, comporta la rottura del silnzio. Le due tradizioni religiose universalistiche che conosco un po', il monoteismo giudaico-cristiano e l'induismo dei miei avi, cominciano entrambe il loro discorso con la Parola, il Verbo. In principio, dicono entrambe, era la parola. Alla fine, secondo la tradizione indù, ci sarà quell'unica sillaba che comprende tutto l'universo e tutto il suo contenuto - una parola che abbraccia l'eternità -, 'Om!'. La parola è il primo segno della creazione, della vita. Penso, dunque sono: e le parole costituiscono la più chiara, la più nobile testimonianza del pensiero. No, meglio: sono gli avatar stessi del pensiero, le incarnazioni di concetti e giudizi. Non c'è pensiero senza parole; senza parole non ci sono giudizi, e in definitiva nemmeno civiltà. Il mestiere delle parole, il mesiere di scrivere, di rompere la stretta di un ostinato silenzio per me non è mai stato facile. In vari frammenti autobiografici e a tratti qua e là nei miei scritti ho accennato alla disperante difficoltà di mettere sulla pagina le parole giuste. La difficoltà col tempo non è venuta meno. Mi piacerebbe dire che da quando scrissi le prime righe del primo racconto di Miguel Street, descrivendo personaggi, vita e commedia del piccolo ambiente sociale di Trinidad dove sono cresciuto, mi piacerebbe dire che l'impresa è diventata più facile. Non è così. E' cambiata, magari, l'ottica. Quando per la prima volta viaggiai nel paese dei miei avi per preparare il il mio primo libro sull'India su incarico di un editore inglese, stavo insegnando a me stesso a vedere. Non sapevo che cosa cercassi, e di conseguenza non sapevo dove guardare. Da quel primo incontro con l'India venni via via ignorando se e quale forma avrebbe preso un libro su tale esperienza. Le parole giunsero ins eguito, dopo un periodo di scoramento e vano silenzio. Dal silenzio le parole si fanno strada senza preavviso. Cominciai a comprendere l'esperienza che avevo fatto, trovai un modo di dire ciò che avevo visto, e scrissi Un'area di tenebra. [...] Avevo smesso di leggere le recensioni del mio lavoro, favorevoli o meno, ma so che Un'area di tenebra suscitò scalpore in India e all'estero. Le parole avevano fatto breccia in un silenzio inutile e inibitorio. Non credo che il libro abbia trovato imitatori, ma mi dicono, e lo accetto come un complimento, che parecchi indiani che l'hanno letto, al momento della pubblicazione o in seguito, sostengono che esso li ha aiutati a trovare parole proprie per rompere quel silenzio perncioso, la volontaria cecità insensibile a verità imbarazzanti o insopportabili. Nel tempo trascorso da quel libro di osservazione e scoperta suppongo di avere un poco imparato come guardare, dove andare, che cosa evitare, come sondare l'argomento, il punto di vista o il modo di vedere che mi interessano. Non posso invece affermare con qualche sicurezza che ordinare e scrivere le parole per esprimere la nuova esperienza sia diventato più facile. Il silenzio conserva la sua forza. Ormai ho viaggiato e vissuto più volte in India, per periodi brevi e lunghi. Da viaggi, esperienze e letture sono nati parecchi articoli, altri due libri e storie di vite, e l'India è stata argomento di una parte della mia ultima narrativa. La mia determinazione, la mia disciplina verbale è che le mie parole siano nuove. [...] La parola ordinata, il libro, è un modo di vedere. In quello che leggo cerco sempre, per una predilezione di cui non so tracciare l'origine, un modo fresco e nuovo, un modo vero di vedere. In Dickens preferisco la freschezza, la singolare novità di visione degli Sketches by Boz o del Circolo Pickwick alla maniera studiata e ripetitiva di Una storia tra due città. Madame Bovary a una prima lettura e anche alla seconda anni fa, mi colpì come uno dei garndi libri della letteratura universale. era il modo di Flaubert di vedere gli aspetti superficiali e profondi di una società in trasformazione. [...] Il romanzo non può essere limitato o zittito da codici prescritti. La sua funzione è esplorare il mondo, e il mondo è quello che è. La parola coartata dall'ideologia o dalla religione, il racconto che segue gli schemi prescritti, diventa parabola o favola, comando o trattenimento. L'ideologia che la inquadra è ancella del silenzio. Il mestiere delle parole serve la società in cui quelle parole sono generate. Può servirla descrivendo o distruggendo le sue idee e presunzioni. Penso a Dickens e ai suoi giovanili Sketches by Boz. Luoghi e società, spontaneamente, generano i loro artisti, i loro gens e artefici della parola. Prendete il mondo ampio e e tratteggiato a perfezione dei racconti di Maupassant o la freschezza delle novelle indiane di Rudyard kiping. Nella vita di una società ci sono momenti in cui certi testi letterari riempiono un grande vuoto. [...]" (da Vidiadhar S. Naipaul, Quei silenzi sull'India, "La Repubblica", 17/06/'08; l'intervento dello scrittore al Festival di Massenzio di Roma)

Nessun commento: