venerdì 26 giugno 2009

Il bambino che sognava la fine del mondo di Antonio Scurati


"Un angelo con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. Lo sguardo fisso, rivolto al passato; un'immane catastrofe accumula rovine ai suoi piedi. Senza tregua. Lui vorrebbe trattenersi, destare i morti, ricomporre l'infranto. Ma le sue ali dispiegate, impigliate in una tempesta che spira dal paradiso, lo spingono verso il futuro, cui volge le spalle. La tempesta è ciò che un tempo chiamavano progresso, l'angelo è l'angelo della storia di Walter Benjamin. La narrativa contemporanea deve, forse, chiedersi: che ne è stato di quell'angelo nuovo? Stando a Francois Hartog, le società pensano il rapporto tra passato, presente e futuro in modi diversi. Nella nostra, dopo che fino agli anni '60 ha prevalso un orientamento al futuro, è subentrato il 'presentismo', un regime di storicità caratterizzato dall'egemonia del presente. Il che pone la domanda: come si racconta il presente quando non c'è che quello? La letteratura - quell'idea nata con l'età moderna votandosi al culto degli antichi e alla promessa, mai mantenuta, dei posteri - deve oggi accorciare le distanze. Si vede spinta nella zona di contatto con il presente. Tutto il passato sembra averci dimenticati e il futuro non dura più a lungo. Impazienza assoluta. Giù per questa china, la narrativa contemporanea diventa narrativa del contemporaneo. Entrano, allora, in crisi le poetiche dello scarto otto-novecentesche. Il secolo della Storia, radicalmente futurista si era imposto di scartare a ogni costo e a tutto campo: dal linguaggio ordinario, dall'ideologia dominante, dal tempo presente. Ma l'obbligo di aderenza impone, oggi, la fuoriuscita da quel'idea moderna di contemporaneità. Tanto dal'inattualità nicciana quanto dalla negatività adorniana. Insomma, il Ventesimo è stato, nelle arti, nel pensiero e in letteratura, un secolo di sistematico smarcamento. Il Ventunesimo si apre all'insegna del marcamento a uomo, asfissiato e asfissiante, sul presente. Personalmente, avverto questo 'presentismo' declinarsi in 'cronachismo'. Sotto la pressione dei linguaggi mediatici, l'orizzonte ampio della Storia e delle sue storie si frantuma in cronaca di un oggi assoluto, e perciò deprivato della possibilità di entrare in un racconto più grande, sia esso magari anche un racconto del Male. Il risultato è un triste cronicizzarsi dell'esistenza, individuale e collettiva. La vita, se letta nelle pagine dei giornali o vista in tv, scade a teatro di fattacci e fatterelli. Finisce con l'apparirci come una malattia inguaribile di lungo decorso. Un'illusione che per dare prova di autenticità si cala sempre più nei toni crudi, nel sangue, nello sperma, rimesta nel torbido, nel triviale, nel sozzo. Ogni giorno un delitto e un delitto al giorno. Questa la regola della miopia cronachistica. E non si tratta di un 'ritorno alla realtà'. Sul modello degli spettacoli gladiatori, il mondo della comunicazione trionfante è qualcosa di finto che per essere creduto ha bisogno di un eccesso di realtà. La nostra maggiore, obbligata aderenza al reale è, insomma, del tipo del cerotto sulla ferita. Fino alla cauterizzazione dello spirito, fino all'indifferenza e alla cecità assolute. Nella mia pratica di scrittore, ho sempre alternato romanzi storico - epici a romanzi scritti in un corpo a corpo con la cronaca. Sono, per me, due fasi di oscillazione di uno stesso pendolo impazzito. Con il mio ultimo libro, Il bambino che sognava la fine del mondo, ho preso i frantumi di molti delitti narrati, in modo slegato e disperso, dalle cronache di questi anni e ci ho costruito un racconto d'invenzione che li ricapitolasse tutti in un'unica figura discernibile del Male. Per farlo ho perfino utilizzato molti articoli di commento che avevo scritto, non senza disagio, per "La Stampa". E' stato il mio tentativo di sfuggire alla prigione della cronaca seguendo il consiglio di Genet: per sottrarti all'orrore, sprofondaci dentro. Ma è stato anche un modo di mettere in pratica tre principi di una narrazione del contemporaneo. Esercitare un'intelligenza delle superfici (divenire superficiali per profondità; atterrirsi, come astronauti in ricognizione lunare, allineando l'occhio alla superficie desolata e scabra dell'immediato). Stabilire un rapporto di vicinato con il proprio qui e ora (non necessariamente di buon vicinato; si tratta, anzi, di una rivalità mimetica, di scendere sul suo terreno, rischiando risposte parzialmente isomorfe; di farsi sotto, come in una bagarre pugilistica, per piazzare il proprio colpo). Sapersi prigionieri di una bolla di immanenza (e non più quella della concezione postmoderna del linguaggio come prigione di segni ma quella di un tempo senza vie di uscita). [...]" (da Antonio Scurati, La letteratura al tempo della cronaca, "La Repubblica", 26/06/'09)

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