sabato 28 marzo 2009

Giardini. Riflessioni sulla condizione umana di Robert Pogue Harrison


"Secondo molti miti di fondazione il genere umano inizia il suo percorso da un Giardino. È anche il caso del Genesi: nel quale però la storia umana propriamente detta inizia con la Cacciata, da quel Giardino. Sin dall'Origine l'umanità ha sentito il bisogno di rifugiarsi in un luogo chiuso (il greco parádeisos - «giardino» appunto - viene dal persiano pairideiza, «luogo recintato») il quale finisce, però, per apparirle soffocante. Il tranello dell'Avversario è in realtà il primo Atto Mancato: e il Frutto Proibito una trasgressione necessaria. Destino dell'umanità non era l'Eden, ma la Caduta. Questo il presupposto di Robert P. Harrison in Giardini, che coi precedenti Foreste (Garzanti 1992) e Il dominio dei morti (Fazi, 2004) compone una splendida trilogia dedicata al rapporto fondativo che il genere umano intrattiene con la Terra. Al centro del giardino verbale di Harrison c'è un'acuta lettura della Commedia: alla fine del Purgatorio, rincontrata Beatrice nella «divina foresta spessa e viva», l'everyman s'è liberato della propria Colpa (e ha riconquistato, infatti, la sua sede originaria). Ma «la storia non finisce qui». Per Harrison l'insoddisfazione di Dante per le Delizie Terrene, la pretesa di avventurarsi nel Paradiso celeste - insieme alla fuga di Ulisse dall'Isola dei Feaci e a quella dei Paladini dai giardini dell'Orlando Furioso - è tipica dell'uomo occidentale: il quale (sempre più catastroficamente nella modernità, con la coazione capitalista allo Sviluppo) è sospinto in avanti da una forza senza nome, che si alimenta da sé stessa. Il Paradiso dell'Islam - annota Harrison in pagine si capisce quanto delicate, ma assai equilibrate - è invece solo Terrestre, e suo valore supremo la Pace: la sua aggressività recente non fa che difendersi da uno stile di vita - il nostro - che anche quando si professa pacifico è improntato a una frenesia senza scampo. A contrapporsi a tale movimento distruttivo è l'archetipo del Giardino. Il Giardiniere è l'uomo della Cura, in termini heideggeriani: che Coltivando difende, cioè, Quello Che Va Difeso (un pensiero simile ispirava, negli anni Ottanta, le celebri performance di Joseph Beuys). Dopo il trauma della morte di Socrate la filosofia s'è separata dalla pòlis, con l'Accademia di Platone e il Giardino di Epicuro. È la chiave concettuale del libro: Harrison legge la separazione da una società improntata a valori che rifiutiamo, l'invito di Voltaire a «coltivare il nostro giardino», alla luce delle considerazioni sull'Umanità in tempi bui di Hannah Arendt: «La fuga dal mondo […]si può sempre giustificare finché la realtà non viene ignorata, ma è costantemente riconosciuta come ciò da cui si deve fuggire». La comunità dei giovani narratori nel Decameron di Boccaccio ci mostra la natura sociale di questo Rifugio: nel quale l'esistenza terrena prende valore dalla presenza, in negativo, dell'Inferno - la Peste - dal quale rifugge. Certo non è un caso che sia questo il tempo, non meno che infernale, in cui l'arte paradisiaca dei Giardini assume tale rilievo (ben due importanti collane le sono, da noi, espressamente dedicate: «Giardini e paesaggi», curata per Olschki da Lucia Tongiorgi Tomasi e Luigi Zangheri, e «Oltre i giardini», diretta da Manuela Pasquali per Bollati Boringhieri). Ma pare eccessiva la fiducia di Harrison nel valore salvifico del Giardino. La modernità ci ha mostrato l'altra faccia di questa metafora: nel Paradiso di Dante troviamo, a designare il nostro mondo di violenza e sopraffazione, una metafora come «l'aiuola che ci fa tanto feroci»; mentre Leopardi nello Zibaldone ha la splendida pagina del giardino della souffrance: in cui, avvicinando lo sguardo al locus amoenus, scopre un formicolare di «patimenti»: «ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio)». Decisamente meno ottimista di Harrison è un altro eccellente studioso, lo svizzero Michael Jakob (il quale per un piccolo editore di Verbania, Tararà, cura una deliziosa collana dedicata alle Montagne letterarie). Se Harrison ci dà una Filosofia del Giardino, Jakob ce ne propone la Semiotica. Il suo saggio, breve quanto acuminato, è dedicato infatti ai vari linguaggi coi quali il Giardino è stato raffigurato: dalla pittura, dal cinema e dalla fotografia. Si va dai giardini seriali di Monet e Paul Strand ai tableaux fotografici di Eugène Atget; dal giardino devastato nel Quarto potere di Orson Welles all'Eros e Thanatos del Resnais dell'Anno scorso a Marienbad, dell'Antonioni di Blow up e del Greenaway dei Misteri del giardino di Compton House, sino all'incipit folgorante di Velluto blu di Lynch (col giardino delle delizie che «leopardianamente» nasconde un inferno entomologico); per giungere ai poco rassicuranti giardini realizzati da artisti d'oggi come Derek Jarman e Ian Hamilton Finlay. Per Jakob il Giardino, al di là del suo eventuale uso «sociale», è essenzialmente Rappresentazione del Potere di un «monarca», letterale o metaforico. Eloquente la storia di come nacque il «giardino formale» di Resnais e Greenaway: il primo fu quello di Vaux-le-Vicomte che si fece costruire il ministro delle Finanze di Luigi XIV, Nicolas Fouquet. Il Re Sole, oltraggiato da quell'esibizione di sé, alla prima occasione fece imprigionare il ministro. Da quell'Augusta Invidia nacque l'idea di un Giardino simile ma ancora più sfarzoso: e fu la Reggia di Versailles. Giustamente, però, Harrison conclude il suo libro su una nota ambigua. Nel grande romanzo di Malcolm Lowry, Sotto il vulcano, la figura indimenticabilmente autodistruttiva del Console Firmin vive sospesa fra l'educato giardino del vicino Quincey e il burrone, la burranca, nel quale i fascisti messicani alla fine getteranno il suo cadavere. La frase ricorrente nel libro è quella, letta su un cartello, che perseguita il Console: «LE GUSTA ESTE JARDÍN? QUE ES SUJO? EVITE QUE SUS HIJOS LO DESTRUYAN!». Assediato dall'Inferno del Mondo, l'Occidente oggi non fa altro che alzare le mura del suo Giardino. Ma la vera minaccia non sono i Barbari. Siamo noi, i figli dell'Occidente, che dall'interno stiamo devastando il Giardino dei nostri padri. Forse l'unica risposta è quella di uscire, finalmente, e spingerci Oltre il Giardino: come per primi fecero Adamo ed Eva." (da Andrea Cortellessa, Uscire dal Giardino, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/03/2009)

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