mercoledì 11 agosto 2010

La fuga di Tolstoj


"Nell'autunno di trentun anni fa, a Parigi, andavo spesso a colazione con Alberto Cavallari. Lui prediligeva un eccellente lionese dalle parti dell'Assemblèe Nationale, io "Lipp", e quindi s'andava una volta dall'uno e la volta dopo dall' altra. Quel che non cambiava in quegli incontri erano invece i discorsi di Cavallari, che parlava ogni volta e senza posa di Leone Tolstoj. Ma non dei romanzi e racconti dello scrittore russo. Di questi avevamo lungamente conversato l'anno prima a Mosca, intrappolati nella neve di novembre e nelle inesorabili, letargiche lentezze della Novosti. Ai tempi dell'Urss, la Novosti era l'agenzia che combinava gli appuntamenti dei giornalisti stranieri con qualche grigio, insulso personaggio del regime sovietico. Noi eravamo lì, ciascuno per il proprio giornale, da almeno una settimana. Ma quando al mattino telefonavamo all'agenzia per sapere se fosse stato fissato un appuntamento, la risposta era sempre la stessa: "Oggi niente, forse domani". Per la verità, quelle giornate moscovite non erano niente male. La vita del giornalista è infatti una delle delizie terrestri. Nell'inverno di Mosca, Cavallari e io non avevamo nulla, assolutamente nulla, da fare. Così, ogni mattina decidevamo se tornare al museo Pushkin per rivedere Poussin, Corot e Gauguin, o alla Tetrjakova per soffermarci ancora una volta su Repin, la Goncharova e Denika, aspettando l'ora di metterci a tavola dietro una delle grandi finestre del "National" che danno sul Maneggio e la piazza Rossa. Ma tre o quattro volte ci avventurammo sino all'"Isba russa", l'unico ristorante passabile della Mosca d'allora, cui s'approdava dopo un lungo tragitto nella campagna tra isbe sbilenche e muri di neve. Dall'"Isba" uscivamo poi accalorati e allegrissimi per la molta vodka bevuta, già pronti per un lungo sonno pomeridiano. Ma, come ho detto, l'anno dopo, nell'autunno del '79, i discorsi non erano quelli che avevamo fatto a Mosca su Natascia e Pierre, sulla Karénina e Vronskij, sui Racconti del Caucaso e La sonata a Kreutzer, le divagazioni tipiche dei dilettanti che danno giudizi approssimativi e strampalati sui libri di questoo quel grande scrittore.
A Parigi Alberto Cavallari parlava infatti soltanto degli ultimi mesi del conte Tolstoj. Citava in lungo e in largo i Diari, mi spiegava la differenza tra i Diari e i Taccuini (Tolstoj aveva dovuto ricorrere a dei piccoli bloc-notes da nascondere negli stivali, per evitare che la moglie frugasse nei cassetti leggendo di nascosto le pagine dei Diari). Mi descriveva il conflitto familiare apertosi da anni a Jasnaja Poljana, e sempre più avvelenato dalla questione economica: il timore cioè della moglie e dei figli che lo scrittore avrebbe confermato sino all'ultimo il testamento in cui dichiarava le sue opere di pubblico dominio, "patrimonio dell'umanità", privando così la famiglia dei cospicui diritti d'autore che venivano dai suoi tanti capolavori. Nei grigi dell'autunno parigino, avvolti nel fumo delle nostre sigarette, la narrazione fluviale, nervosa, che Cavallari faceva delle ultime fasi della vita di Tolstoj, i nitidi dettagli sui giorni della fuga e della morte dello scrittore nella stazioncina di Astapovo, erano avvincenti. Pendevo dalle sue labbra. Come mai, gli chiedevo, s'era accesa in lui quella passione per lo scorcio finale della vita di Tolstoj? Cavallari non disse mai che stava pensando a un libro sull'argomento, e mi lasciava credere che si trattasse di un interesse lì per lì casuale che poi aveva finito per assorbirlo. Una specie di fissazione che durava già da qualche tempo,e che ad un certo punto si sarebbe esaurita. Ma non era così, come vidi alcuni anni dopo quando ricevetti una copia del suo La fuga di Tolstoj nell'edizione Einaudi. Agli amici che come me lo avevano subito letto, Guido Ceronetti tra questi, con cui ne parlavamo durante le nostre passeggiate a Cetona, il libro di Cavallari suggerì una sola possibile definizione: era, come dicono i francesi, un "petit chef d' oeuvre". Uno di quei libri perfetti anche se un po' marginali rispetto al gusto e al contesto letterario del loro tempo, che escono dalla penna d'uno scrittore senza un sovrappiù, un errore di gusto, una banalità, bensì asciutti, essenziali, e scritti in modo appunto perfetto. E adesso che lo rileggo nella bella riedizione di Skira, sono sempre più convinto che si tratti di un libro con pagine indimenticabili. L' asfissiante atmosfera che si era creata già dal 1904 a Jasnaja Poljana (Tolstoj che scrive della moglie Sof'ja: "E' velenosa per l'aria che respiro"), il seguito ininterrotto di "scene isteriche, pacificazioni, scontri, perdoni" che punteggiavano le giornate, l'impulso dello scrittore, sempre più profondo e irresistibile, ad abbandonare la casa e la famiglia. La decisione della fuga fu presa nella notte del 27 ottobre 1910. Ma partire per dove? Il vecchio era incerto, si arrovellava: "Fuggire o non fuggire", scrive Cavallari, "andare lontano ed anche vicino. Perciò il suo itinerario prese un disegno a zig-zag, diventò quello di un uomo che gira intorno alla sua trappola". In ogni caso, il viaggio avverrà in treno, dove su un fornello a spirito il compagno di fuga dello scrittore, il suo medico personale Dusàn Makovickij, riscalda di quando in quando un po' di tè. Nel secondo treno su cui sale, Tolstoj guarda dai finestrini il paesaggio: "La luce del giorno era grigia ma coloriva lontane betulle, olmi, dove volavano i corvi". Nel terzo treno si profila l'epilogo. Nevica, lo scompartimento è freddo, Tolstoj è colto da forti brividi. Il medico gli prende la febbre, che è molto alta, e decide che alla prossima fermata bisognerà arrestarsi. E la prossima fermata è nella stazioncina di Astapovo, dove l'autore di Guerra e pace, ospitato alla meglio in una stanza della casa del capostazione, il bravo Ivan Ivanovic Ozolin, giacerà agonizzante per sei giorni. "Delirò, si svegliò, spedì telegrammi, diede ordini, si commosse, svenne, delirò ancora, soffrì ciò che si soffre morendo". Nel gran numero delle biografie tolstojane, il più bel racconto sulla fine del massimo romanziere russo. Il caso ha voluto che mentre rileggevo il libro di Cavallari sia uscito da Adelphi un altro libro affascinante, Tolstoj è morto, di Vladimir Pozner. Pozner era un "émigré" che negli anni Venti potè tornare nella Russia sovietica, dove raccolse un vasto materiale sui giorni di Astapovo. I due libri non potrebbero essere più diversi. Tanto il testo di Cavallari è penetrante nei pensieri di Tolstoj, nella ricerca delle vere cause della fuga, nella descrizione dei personaggi che vi prendono parte o sopraggiungono più tardi ad Astapovo (il medico, le figlie Alexandra e Tatjana, la moglie e gli altri otto figli che non verranno però ammessi nella stanza dove giace lo scrittore), ed è dunque un vero romanzo, tanto il libro di Pozner è un anti-romanzo. Un "collage" spassionato, vagamente sarcastico, di materiali autentici sulla morte di Tolstoj, brani dei diari di quest'ultimo o della moglie, e soprattutto i telegrammi che attraversano la Russia nei giorni della sosta fatale nella stazioncina di Astapovo. Telegrafano tutti: il capo della Gendarmeria ferroviaria, generale Lvov, "che non apprezza affatto il trambusto creato da questa fuga", i capi della polizia, i giornalisti accorsi sul luogo e le direzioni dei giornali ai loro inviati, il pope della stazione, Gracianski, ai suoi superiori, il monaco Varsonofij direttamente al Sinodo. Tutti vogliono notizie sulla salute dello scrittore, e i gendarmi alla gendarmeria, i giornalisti ai giornali,i figli di Tolstoj ai parenti e amici, telegrafano il po' che sanno. Temperatura tot (un giorno 38, il giorno dopo 39 o 40), polso tot, ha dormito, non ha dormito, ha bevuto un po' di latte, un altro letto è stato aggiunto nella stanza del malato, la famiglia è riunita nel buffet della stazione. Ma il governatore della regione, la polizia, si scambiano telegrammi più concreti: "Prego Vostra Eccellenza di prendere le misure necessarie onde evitare manifestazioni e insurrezioni antigovernative o antireligiose". Tolstoj è infatti personaggio sgradito dalla corte imperiale, è scomunicato dalla chiesa ortodossa russa, insomma ritenuto una testa calda idolatrato da migliaia di altre teste calde. Sei giorni dopo, il 7 novembre, è la fine. I giornalisti telegrafano: "Lev Tolstoj deceduto ore cinque e sei del mattino. L'agonia è durata pochi minuti". Il capostazione avverte: "Preparate vagone bagagliaio" per il trasporto della salma, la compagnia ferroviaria offre un vagone a prezzo ridotto, la moglie Sof'ja Andreevna viene per la prima volta fatta entrare nella stanza del morto. A mattina inoltrata, la salma ormai composta, nella stanza dove la bara è stata innalzata su un semplice catafalco, entrano gli abitanti di Astapovo a rendere omaggio. I mugiki non conoscono bene il nome di Tolstoj, lo chiamano Tolstov." (da Sandro Viola, L'ultimo Tolstoj, "La Repubblica", 11/08/'10)

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