martedì 24 agosto 2010

Città in giallo: la Los Angeles di Philip Marlowe


"Non troveremo la porta a vetri con scritto «Philip Marlowe, Investigations» e neanche la monacale cella (sedia girevole, letto a scomparsa, ventilatore al soffitto e bottiglia sempre pronta nel cassetto della scrivania) dove il principe dei detective si metteva al servizio, per poche decine di dollari più spese, di gangster, ricchi infelici, bionde platinate, elegantoni e relitti di ogni specie giunti dai boulevard cittadini, dai canyon e dalle colline di Los Angeles.
Non troveremo quel celebre vetro smerigliato, ma parecchi luoghi in cui Raymond Chandler faceva ininterrottamente viaggiare «il suo paladino scoglionato e sentimentale» - come ha scritto l’indimenticabile giornalista-scrittore (e traduttore) Oreste Del Buono - in una plaga di fasulli e prepotenti, «di indolenti, di truffatori di professione e di imbrogliati per vocazione, di carnefici e di vittime [...], di angeli falsi e di mostri più che veri».
La città di Raymond Chandler e del detective più cinico e malinconico di tutti i tempi è ancora riconoscibile - quasi un miracolo per metropoli in cui gli Anni 40 sono Medioevo - sebbene l’ubicazione dei principali «rifugi» rimanga incerta: una cuccia forse era al sesto piano di un modesto edificio all’angolo tra Hollywood Boulevard e Ivar Avenue (interno 615) o a un isolato di distanza verso Est, nel palazzo ora sede di Scientology. Di certo nel suo anonimo appartamento Philip Marlowe dormiva poco; lo stropicciato e romantico padre dei tanti (troppi) detective odierni vi andava a cercare «una doccia, un cambio d’abito e una cena tardiva», mettendosi a letto «pieno di whisky e malato di sconforto» (Il grande sonno).
Chandler lo fa muovere un po’ in tondo: punta a Nord, si allontana da Los Angeles, gira in direzione dell’Oceano, imbocca la costiera che lo riporta in città. Se deve risolvere un caso sale in macchina e fa un giretto per Santa Monica Pier, Ventura Boulevard, San Bernardino Freeway, Beverly Hills. Idle Valley, location del Lungo addio, il più tragico e bello dei suoi romanzi, è Malibu. Esmeralda è nom de plume per la banale La Jolla, sobborgo per pensionati dove Chandler andrà assai prosasticamente a morire nel 1959, disperato e solo. Bay City, la cittadina della «pittoresca baia azzurra», protagonista di La signora nel lago, è Santa Monica. Ha un porticciolo per gli yacht, strade tranquille, prati verdissimi. «Conoscevo una ragazza che abitava nella Twenty-fifth Street», dice Marlowe. «Una bella strada. Una bella ragazza. Lei amava Bay City. Non ci voleva molto per amare Bay City. Bastava non perder tempo a meditare sulle catapecchie dei negri e dei messicani ammucchiate nelle squallide distese di là dalle vecchie carraie interurbane».
Immensa e schizofrenica, Los Angeles contiene varie città, è piena di chiaroscuri. Chandler l’ha sognata e descritta meglio di tutti, sulla pagina; lui che non ebbe mai rapporti con la malavita, ma un’educazione inglese (la public school di Wodehouse e dell’esploratore Shackleton), un’aria da professore di Oxford, diceva Maugham. Arrivò a L. A. nel 1913, giovanotto di 25 anni very british, «un bel guardaroba, un accento da scuola elegante, una quasi assoluta incapacità di guadagnarsi la vita e un disprezzo per la gente del luogo», confesserà.
Il grande sonno è probabilmente il romanzo - con Il lungo addio - nel quale Los Angeles si rivela più crudamente. Il memorabile incipit descrive Sternwood Palace, magione alle spalle di Sunset Boulevard, a Beverly Hills, oggi molto probabilmente Doheny Mansion, castello in stile Tudor del 1925. L’atrio alto due piani ha portoni d’ingresso «abbastanza ampi da far passare un branco di elefanti indiani». Qui Marlowe incontra la giovane e ingovernabile Carmen Sternwood, che cerca di sedurlo. La liquida con un indimenticabile «Fareste bene a cominciare a svezzarla. Non è più una bambina», detto al maggiordomo. La sorella Vivian, nel film capolavoro di Hawks del 1946, ha il volto di Lauren Bacall. Lui è Humphrey Bogart.
Downtown, la vecchia Los Angeles, a Chandler piaceva molto. In La finestra sul vuoto descrive «Belfont Building», ovvero il Bradbury, tra Terza e South Broadway, edificio del 1893 con un atrio alto cinque piani e ascensori a giorno immortalati anche da Ridley Scott in Blade Runner. Poco distante, tra Olive Street e la Sesta, c’è l’Oviatt Penthouse Building, il Treloar Building dell’incipit di La signora nel lago, pazzia Art Déco del 1925. Tre miglia a Nord di Santa Monica, sull’oceano, a Castellamare («Montemar Vista», per Chandler) c’è una costruzione in stile spagnolo che fu un tempo il Thelma Todd Cafe e ora è sede delle Edizioni Paoline Usa: compare in Addio mia amata, pare abbia ispirato Chandler la misteriosa morte dell’attrice Thelma Todd, trovata cadavere in garage con pelliccia e gioielli.
Altre suggestioni riserva Marlowe, il detective che conosceva Eliot e Proust, che poteva appassionarsi a un insetto rosa su una scrivania della Squadra omicidi (Addio mia amata) o apprezzare un filare di grevillee fiorite sul Foothill Boulevard di Ontario. Ma nulla è immutabile, sotto l’ingannatore sole californiano, nemmeno il suo viso, per qualcuno «Bogey» Humphrey Bogart, per altri Robert Mitchum, Dick Powell o Elliott Gould del grande Altman. Chandler avrebbe preferito Cary Grant.
Non resta che aggirarsi inquieti nelle sue atmosfere letterarie, fatte di palme ed eucalipti, motel scalcinati, botte in testa e sparatorie, fatine bionde e donne fatali, poliziotti impacchettati come tacchini al forno. Inquieti come Raymond Chandler, che continuò a spostarsi da Bel Air a Cathedral City, da Echo Park a Hollywood, da Palm Springs a Santa Monica, nella grande città stretta fra il deserto e l’oceano, che gli deve tanto, che solo grazie a lui è entrata nella letteratura. Perché con il suo stile unico, nel quale si riconoscono Hammett e Hemingway, ricco di metafore colorite e geniali, di descrizioni che spesso ricordano i piani sequenza del cinema, consente di riconoscere il suo eroe anche senza averne mai visto i luoghi: basta sentirlo parlare, anche al buio." (da Carlo Grande, Bionde fatali e botte in testa la Los Angeles di Marlowe, "La Stampa", 24/08/'10)

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