venerdì 13 agosto 2010

Dipendenze senza sostanza


"Dal fumo. Dalle droghe. Da web e gioco d'azzardo. Affettiva. Da tv, religione, sesso, shopping. Dall'infanzia. Persino dal dolore. La dipendenza è l'attimo in cui la devozione deraglia e muta. Il passaggio senza ritorno: dallo star-bene-con allo star-male-senza. Cambiano i tempi: l'addiction cambia con noi. Dilaga. Si mangia tutto. Come è scritto in Dipendenze senza sostanza (Psiconline, 2010) raccolta degli atti del I Convegno nazionale sulle addiction del XXI secolo, dove vengono catalogate e definite da «distorsioni dello stile cognitivo, comportamenti compulsivi e problematici, ossessioni, disturbi di personalità, difficoltà relazionali e affettive, isolamento e ritiro sociale». Ci sono ambulatori per curare la dipendenza dalla Rete mentre l'amore rivela la sua natura "patologica": per l'Italian Psychiatrists Association, il cervello dell'amante lasciato impazzisce, come fosse in astinenza dalla droga. Innovazione e tradizione, si direbbe, se l' addiction fosse una corrente artistica. Se. La dipendenza genera frustrazione. È un buco nella testa. Risucchia tutto il resto, lo rende nullo, inutile. È il fulcro degli studi psicologici di oggi: come nel primo '900 l'isteria. Secondo Goodman ha due caratteristiche: non si può controllare, si reitera nonostante provochi conseguenze negative. È questo il punto, io credo: dipendere da qualcosa - di tangibile come la droga, di impalpabile come l'affetto - è il tratto distintivo della nostra era.
Il Financial Times dello scorso 31 luglio riconosce persino un genere letterario dipendente: il memoir che racconta un'addiction e il suo superamento. Dall'inferno alla redenzione. Il memoir come autobiografia artistica tout-court è acqua passata: il punto adesso è il trauma. Eppure, la dipendenza è atavica. Nella Divina Commedia (Inferno, Canto VI), Cerbero, simbolo dell'ingordigia, è la dipendenza per eccellenza: due teste che combattono tra loro, il desiderio che diventa compulsione contro la compulsione che diventa morte. La dipendenza, che ha una lunga storia letteraria tra fumatori d'oppio ed eccessi beat, è il momento in cui una passione smette di essere una cosa e diventa una persona senza la quale ci si sente straziati: nel 1930, quando la censura stalinista lo priva della possibilità di pubblicare, Bulgakov subisce un repentino peggioramento, e muore. Del resto anche il suo Maestro è dipendente: da Margherita, certo; ma cos'è Margherita se non una donna-romanzo, la letteratura in forma di persona? La dipendenza dall'amore non è più salutare: «Non siamo mai così privi di difese, come nel momento in cui amiamo», scrive Freud. Legata «alla ricerca di soddisfazioni forti ed immediate», la dipendenza di oggi - senza più età né sesso - è però qualcosa di ancor più totale e devastante: una sorta di gigantesco effetto collaterale dell'era consumista, l' unico modo per riempire i vuoti creati di continuo dal desiderio della merce. Da sempre, uno dei suoi caratteri più atroci è la coazione a ripetere: ma la compulsione al consumo ci trasforma in una straziante-splendida astinenza eterna. Siamo vuoti senza possibilità di scampo. La dipendenza è auto-tirannia: «O poesia, non venirmi addosso, / sei come una montagna pesante», scrive Alda Merini. Allo stesso tempo, l'addiction solleva dal peso di crescere. È un abuso di cura, di sollievo, finge un controllo dell'ambiente esterno e una «prevedibilità del mondo interiore»: il lutto non arriva mai. Se «la maturità psichica è la capacità di essere solo in presenza di un'altra persona», la dipendenza patologica è l' opposto: bloccarsi su una sensazione, un'azione, compulsivamente, ripara dalla solitudine, allevia l'horror vacui, elimina la domanda io-chi-sono, cosa voglio. La dipendenza non ha gradi, né ne esistono di nobili. Voglio essere amato, voglio fare la velina: la natura della cosa da cui si dipende non c'entra. C'entra solo, e sempre, la smania di vedere riempito il proprio buco personale. Ma non dura, perché la dipendenza non dà tregua. Se negli ultimi decenni gli addicted sono cresciuti esponenzialmente, è anche vero che comportamenti prima ritenuti bizzarri gioco d' azzardo, addizione sessuale - oggi sono riconosciuti come dipendenze. L'uomo del Duemila è un «io astenico»: un individuo debole che, paradossalmente, nel tentativo di dominio della propria addizione esercita la forza. Alcolisti, Narcotici e Debitori Anonimi, Mangiatori Compulsivi, Giocatori d'Azzardo, Sex and Love Addicts: i gruppi si moltiplicano, poiché il rapporto con l'Altro è nodale nel superamento della dipendenza patologica.
Ma esiste una dipendenza non patologica? L'addizione, in fondo, non è che un rifugio della mente: potrebbe servire a controllare lo sconforto per la morte di Dio. Purtroppo, io credo, non c'è dipendenza positiva: nel momento in cui si perde la capacità di vivere senza una cosa, un'idea, si annulla ogni possibilità di rendere creativo il rapporto con quella cosa, quell'idea. Il confine sta in una parola: devozione. Fino alla devozione c'è passione, amore all'ennesima potenza. Fino alla devozione siamo ancora in grado di creare, agire. Ma se la smania per l'oggetto cui siamo devoti diviene incontrollabile: la devozione diviene dipendenza, e da lì in poi siamo solo in grado di subire. Toglie la vita anche la schiavitù verso i personaggi mediatici: quando la devozione per Padre Pio si trasforma in addizione non è diversa dalla smania per Michael Jackson. Lo scrive D. F. Wallace in E Unibus Pluram: «Guardare la tv può diventare una forma di nociva dipendenza» da una certa immagine vincente di noi stessi, attiva e avventurosa. Antitesi assoluta di azione e avventura, come la pubblicità anche il mezzo televisivo genera però la domanda e la risposta, tutto insieme: «il tuo migliore e unico accesso a quel mondo (attivo e avventuroso) è la tv». E nasce lo stare-male-senza. Lo stare-male, a pensarci, anche-con. Prevenzione, formazione, informazione: l'antidoto all'addizione patologica è la presa di coscienza. La devozione è connaturata all'essere umano, alla sua nostalgia della felicità: così la dipendenza. Non è, allora, ciò che desideriamo: è quanto ci perdiamo nel desiderio, quanto ci alieniamo. Lo raccontava già Il memoriale di Volponi (Einaudi): la dipendenza è una macchia di umidità sul muro, che a furia di guardarla muta, prende forma umana. Prima sembra, poi diventa un indiano. Cominci a parlarci, a litigarci. E un giorno non ne puoi più fare a meno. Liberarsi dalla dipendenza è, forse, impossibile, invertire il processo in modo creativo invece no. Non ritrasformare l'indiano (la cosa da cui si dipende, trasfigurata dal nostro desiderio astinente) in macchia (la nuda realtà dell'oggetto da cui dipendiamo, il suo essere «cosa» mai indispensabile né magica); ma accettare di guardare la nostra natura come contraddittoria. Avere un poco di coraggio. Vedere, dunque, sia la macchia che l'indiano. È questo, io credo, l'unico modo." (da Antonella Lattanzi, Breve storia della dipendenza. Dal gioco all'amore il nostro bisogno di tutto, "La Repubblica", 12/08/'10)

Nessun commento: