Ornatissimo codice. La biblioteca di Federico di Montefeltro, Urbino, Palazzo Ducale, dal 15 marzo al 27 luglio (Catalogo Skira - Libreria editrice Vaticana)
"Nel celebre ritratto di Federico da Montefeltro eseguito verso il 1476 dal Berruguete, il duca siede come in quello per mano di Piero della Francesca col profilo di sinistra e col suo altrettanto celebre naso adunco che, vuole la storia, egli stesso si procurò per praticare un pertugio onde vedere anche a destra con l'occhio sinistro dopo aver perso l'altro in un torneo fin dal 1451, quando aveva ventinove anni; dunque, nel ritratto del Berruguete il duca è assiso su alto scranno, assorto a leggere come se nulla fosse, rivestito di un'armatura e di un ampio manto, con le insegne dell'Ordine inglese della Giarrettiera e di quello aragonese dell'Ermellino, di fronte a una mitria ingioiellata donatagli dal sultano di Persia. Il condottiero solenne e temibile, elmo ai piedi, spada al fianco e quei segni intorno, ha un libro in mano. Molte, dirà Baldesar Castiglione all'inizio del Cortegiano, sono le testimonianze del suo 'animo invitto'; ma egli anche 'con grandissima spesa adunò un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici, quali tutti ornò d'oro e d'argento, estimando che questa fusse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo'. Tale è l'immagine che di sé Federico costruì e volle tramandare, vissuta con le opere e realizzata con la massima visibilità e pienezza nella biblioteca del grandioso palazzo di Urbino; biblioteca poi passata al Comune della cittadina umbra e da questo ceduta per mancanza di fondi alla Vaticana ai tempi di Alessandro VII (1657); di dove ora torna in patria e vi è esposta per qualche mese con tutto il suo lustro. Scrutarla in questa occasione irripetibile, evidenzia tangibilmente il progetto ducale, quello del nuovo mondo umanistico ispirato dagli antichi e duraturo ben oltre il proprio tempo. Non si potrebbe né converrebbe immaginarlo che nel contesto, con la struttura e decorazione dell'ambiente come da quelle degli stessi codici commissionati e voluti da Federico con i loro fregi 'd'oro e d'argento', i loro motti, i loro simboli. Di fronte agli esemplari esposti nella mostra urbinate vien quasi da dar ragione al duca stesso, che tenne lontano da questa biblioteca le opere a stampa ormai prodotte e rapidamente diffuse. Nella sala, due tavoli, tre scale, un braciere. Sopra la porta d'ingresso e a decorazione delle otto 'scanzie' con sette ripiani ciascuna, i motti in distici latini dettati dal copista urbinate Federico Veterani che illustravano la disposizione dei testi: 'La destra conserva i volumi sacri e giuridici, / né mancano i filosofi, gli scienziati e i geometri, / mentre la sinistra ti dà tutti gli scritti / dei cosmografi, dei poeti e degli storici'. Federico amava anch'egli, al pari di tutta la sua epoca, gli emblemi e le scritte, come sottolinea Claudia Caldari. Oltre alle sigle di Federico Conte (F. C.) compaiono inseriti sui suoi libri simboli e motti: l'ermellino dell'insegna aragonese con numquam e non mai (mai macchiarsi); una granata che esplode, come il valore militare ardet ut feriat, brucia per colpire; e lo struzzo con un ferro nel becco e in tedesco posso digerire un grosso ferro (Spiritus durissima coquit si vedrà nell'emblema dell'editore Einaudi). Entro questo scenario gustoso e significativo, oltre novecento manoscritti miniati disposti secondo l'ordine cronologico degli autori. Ce ne dà la classifica, assieme a molte altre notizie, Marcella Peruzzi in un altro saggio, su La formazione della biblioteca e i manoscritti latini. Seicento questi, centosessantotto i greci, ottantadue gli ebraici, due gli arabi: più di quanti ne possedessero allora gli Sforza a Pavia e i Medici a Firenze, là dove il nostro aveva un suo fidato fornitore in Vespasiano da Bisticci. Pochissimi i testi volgari (una settantina) voluti da questo ex allievo di Vittorino da Feltre: tanto più pochi se si confrontano con la non lontana biblioteca degli Estensi a Ferrara. Capitano e vessillifero di Santa Romana Chiesa, Federico non possiede di testi sacri che una ventina di volumi, il 2%, ed essenzialmente la Bibbia o parti di essa, fra cui un Salterio litteris ebreis grecis et latinis su tre colonne affiancate. Di lì tuttavia si parte fra le pareti delal biblioteca per proseguire con i Padri della Chiesa: san Gerolamo e sant'Agostino, poi san Tommaso, il teologo prediletto dal signore, e l'autore in assoluto più rappresentato. Accanto a lui, il Maestro suo e di tutti color che sanno: quindici manoscritti di Aristotele. Poi Seneca, Boezio, opere tecniche di astrologia, matematica, medicina, architettura. Poi la geografia, la storia, altra grande passione del proprietario (sono più del 10% del totale); le opere retoriche di Cicerone e infine i poeti, primo Virgilio in quel celebre codice Urbinate confezionato a Firenze e a Urbino stessa, fulgido della miniatura a piena pagina di Guglielmo Giraldi. Per Dante, Petrarca e Boccaccio basti dire che ci sono, con le loro opere volgari e latine, ma appunto, in sordina. Allo sfarzo pittorico della biblioteca e dei codici esposti anche nella mostra urbinate fa dunque riscontro una vera idea della cultura, e una sua idea armonica e precisa, principesca e poco condiscendente verso gli 'inepti ed ignoranti, immundi e stomacosi' (così in un opuscolo sulla vita di corte). Una sezioncina, poi, era voluta dalla moglie di Federico, la Battista Sforza, donna colta ma non bellissima se dobbiam credere al dittico di Piero della Francesca. Un codice con l'anello sforzesco miniato dal Veterani in frontespizio contiene testi metrici, un altro testi grammaticali e retorici. La signora voleva conoscere syllabarum quanta quaeque sit, la quantità delle sillabe; e come ancora sappiamo dal suo maestro Martino Filetico, curiosava persino tra i filosofi stoici. Gustava a fondo i poeti, ma voleva aver anche coscienza a fondo della vita." (da Carlo Carena, Federico, che biblioteca!, "Il Sole 24 ore Domenica", 16/03/'08)
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