venerdì 7 marzo 2008

Anna Maria Ortese


"Pochi anni or sono, invitata a parlare di letteratura e architettura a un convegno per studenti della Federico II, lessi alcune pagine tratte da La città involontaria di Anna Maria Ortese, racconto della silloge Il mare non bagna Napoli che descrive la struttura dei Granili I e II: enormi edifici fatiscenti, in prossimità del porto commerciale, destinati a ospitare nell'immediato dopoguerra gli sfollati dei bombardamenti. Il racconto non si limita a questo: intrecciando uomini e mattoni, dimostra con passione il risultato essenziale di umanità deragliata che conseguiva a una scelta politica di quel genere. Avevo criptato la copertina del libro in un foglio di giornale, e alla fine della lettura chiesi agli studenti di cosa, secondo loro, si stava parlando. Furono unanimi nella risposta: le vele di Scampia. Nessuno come Anna Maria Ortese ha saputo dire la nostra città con tanta lucidità e precisione e nel modo più generoso in cui ciò si può fare: proiettando se stessa sugli altri e offrendoci l'immagine di ritorno. Cosa è infatti Napoli oggi se non 'una città squinternata, strade cariche di immondizia, le case in rovina, i fanali rotti, vetture abbandonate senza ruote, cocci di bottiglie di champagne che attestavano feste recenti' e insieme 'la folla di un qualsiasi più elegante corso del mondo, quella che può incontrarsi alle cinque del pomeriggio nei quartieri più ricchi di Parigi, Madrid, o Tokyo? Quando, nel racconto Grande via, ricorda di sé bambina affascinata dalle immagini degli scolaretti che sbirciavano le copertine degli illustrati, conclude: 'molti di quei fanciulli adesso non c'erano più, o erano diventati uomini corrotti' che è esattamente il sentimento di rabbia impotente e drammatica compassione che ci attanaglia nel vedere sperperati i bambini, nel saperli crescere per ritrovarli uccisi a diciannove anni in un regolamento di conti. Nessuno ha saputo, come lei, indovinare nella chiusa massoneria degli intellettuali napoletani dell'epoca quella tendenza così evidente oggi, del parlare di letteratura, editarla, farla, senza saperla amare mai. Ha raccontato per tutti l'energia dispersa del sapere quando essa non trovi alcuna ricaduta civile ma scelga invece di rimanere monolitica e immobile espressione di se stessa. E facendolo ci ha riscattati da questo pericolo e mostrato come essere scrittori, operatori culturali, cittadini pensanti. Che tutto ciò e molto altro, così vero - così contemporaneo e attuale da diventare subito, nelle menti dei suoi lettori, l'essenza di ciò che acacde, le sue parole a sostituire e vicariare e dare profondità allo scempio quotidiano che Napoli offre agli occhi di tutti - sia stato scritto cinquanta anni fa rende subito la dimensione fondamentale di un'autrice che continua a crescere nel tempo, cresce perché si invera, si incarna, anno dopo anno, senza sbagliare colpo, nella Napoli che diviene. E non solo nel senso acquisito ormai dai lettori, che ciò che si nomina e bene, per la prima volta, finisce con il fondare. Ma soprattutto nel senso che la sua scrittura ci ha aiutato a vedere, ha rivelato con quella sua luce visionaria (così la critica ama definire una certa cifra sua stilistica), con gli Occhi obliqui quella tanta parte di città, di realtà che era nei racconti dei nostri genitori, che è nella nostra memoria pristina, che ancora oggi continua a essere oggetto della cronaca, incontro, quotidiano vivere. Più vera proprio perché più surreale: come avesse colto l'unica chiave possibile con cui interpretare e raccontare. Dopo avercelo lei suggerito è stato ovvio che il mare non bagnasse Napoli. E solo la mente criminale perché colpevole di non voler capire, di voler nascondere, ottundere, sempre e comunque assolvere la tragedia di questa terra, la mente istituzionale di ieri come di oggi, ha potuto negarsi la necessità della presa di coscienza. '... così, quella città non aveva mai pace. Ballava e si dimenava, la Città senza testa, la Città Malata'. In quella città, in questa, aveva notato compagnie di 'studenti, neogiornalisti, maestri, signori, e a volte anche tipi di operai ... essi sono gli amici', quelli che coltivano 'la passione della parola intesa come dono'. Aveva visto in chiunque 'occhi incassati, bruciati dalle lagrime e insieme scintillanti della più maliziosa contentezza'. A darle il credito che merita si direbbe che questa è una delle essenze di cui ci facciamo forti per andare avanti lungo quelle stesse strade." (da Valeria Parrella, Anna Maria Ortese, quella Napoli così viva e malata, "La Repubblica", 07/03/'08)
Anna Maria Ortese (da ItalicaRai)

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