"Sta come il pesce / che ignora l'oceano / l'uomo nel tempo"
"'E' di rugiada / è un mondo di rugiada / eppure, eppure' scrive Kobayashi Issa, l'ultimo maestro dello haiku, dopo aver perso il figlio. Sarinagara, eppure: l'ultimo romanzo di Philippe Forest si costruisce a partire da questa parola; l'avverbio occupa, delle diciassette sillabe che compongono un haiku, un intero verso. E' un mondo fragile come rugiada, ma si può ancora viverlo, e raccontare. Philippe Forest (dopo Tutti i bambini tranne uno e Per tutta la notte, premio Grinzane 2007) parte con la moglie per il Giappone, lontano dal lutto della figlia che hanno perduto. Ma il viaggio non è davvero raccontato. Forest narra invece tre vite di giapponesi: di Kobayashi Issa (1763-1827), appunto; di Natsume Soseki (1867-1916), creatore del romanzo moderno giapponese; e di Yamahata Yosuke (1917-1966), il primo fotografo entrato a Nagasaki resa polvere dalla bomba atomica. I tre hanno qualcosa in comune: di nuovo, un lutto infantile. Ma le tre biografie non raccontano la rugiada; stanno dalla parte dell'eppure. Quando Issa abbandona la vita di poeta vagabondo, e torna tra i contadini del villaggio natale, Napoleone sta mettendo fuoco a Mosca. Soseki, il cui matrimonio tradizionale è stato combinato da mezzani, che scambiano le foto dei promessi, è contemporaneo di Proust. Mai Forest racconta il Giappone senza straniarci con l'Occidente. 'All'epoca dei maestri, lo haiku figura raramente da solo: è una creazione collettiva, il renga, dove è abolita la nozione di proprietà letteraria, esattamente' spiega ad esempio Forest, 'come nel cadavre exquis surrealista'. Lo haiku però può anche essere inserito in un diario di viaggio (nikki o haibun), che gli dà il giusto senso. Bambino abbandonato, Issa ha vagato per tutto il Giappone; il suo diario dell'anno 1819, Ora ga haru, La mia primavera (è un titolo ironico: il poeta ha più di cinquant'anni) contiene questo haiku: 'stanno giocando / guardo e il mio bambino non c'è / stanno ballando'. Soseki il romanziere accenna anche lui pudicamente a quello che resta dopo il lutto; Sorekara è un suo titolo, E poi. Yosuke Yamahata ha avuto la sua prima Leica a diciott'anni; lascia l'università e diventa fotografo per i Sevizi informativi che suo padre dirige. Gli viene assegnata la missione di accompagnare la Marina giapponese a Singapore, in Malesia, in Cina. Alla vigilia del 6 agosto del '45 - compie 28 anni ed è il giorno di Hiroshima - Yamahata passa velocemente per la città, diretto alla sua nuova guarnigione, nella più meridionale delle grandi isole del Giappone. La raggiunge mentre cominciano a sorgere le voci sulla sorte della città. Si trova a soli 160 chilometri da Nagasaki, e viene spedito dai superiori a raccogliere testimonianze fotografiche sull'esplosione. Arriva di notte; nel buio si accendevano fosforescenze fugaci, azzure sull'orizzonte assente, e si spegnevano. Yamahata si siede a fumare, aspettando che la luce gli consenta di lavorare. Non sa esattamnete cosa vedrà, per primo. Il racconto della notte ignara di Yamahata è indimenticabile ('sta come il pesce / che ignora l'oceano / l'uomo nel tempo', aveva scritto Issa). In un francese superbo, teso e terso, che mette in poesia il racconto (e ci vuole la grazia di Gabriella Bosco per tradurre tanta sospesa emozione) Forest spiega la natura dello haiku, 'algebra vuota' fedele alla 'fibra triviale e modesta del mondo', cui l'Occidente a torto presta sensi e simbologie. O indica la foto di una porta vuota sul silenzio carbonizzato di Nagasaki, con scritto l'ideogramma domanda. Eppure." (da Daria Galateria, Haiku e cognizione del dolore, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 29/03/'08)
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