venerdì 29 febbraio 2008

Raccontami un altro mattino di Zdena Berger


"All'amico Oskar Pollak, compagno di scuola al ginnasio, il 27 gennaio di più di un secolo fa, Kafka scrive press'a poco così: bisogna leggere soltanto i libri che 'mordono e pungono'. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un 'pugno sul cranio', a che serve? Oskar non sarà così ingenuo da leggere un libro 'perché ci renda felici'? Quanto a sé, Franz non ha dubbi: va in cerca di libri che agiscano 'come una disgrazia che fa molto male, come la morte, come un suicidio'. E in modo perentorio conclude: 'Un libro deve essere come la scure per il male gelato dentro di noi. Questo credo'. Siamo nel 1904. Kafka non poteva leggere questo romanzo di Zdena Berger che ho sotto gli occhi - Raccontami un altro mattino (Baldini Castoldi Dalai), uscito in America nel 1961. Ma sono certa che gli avrebbe procurato quell'emozione. A me tremava il cuore leggendo e più volte ho smesso, sono uscita per strada per respirare. Ma allora accadeva una cosa strana; non smettevo di leggere. O meglio, il romanzo mi abitava la mente, mi frugava nel cuore. Per un coinvolgimento morboso nella vicenda? Per una identificazione smodata? Fatto sta che ero lì con Tania e Ilse e Eva. E con Zdena Berger, la quale semplicemente racconta, non accusa nessuno. E proprio per questo, tanto più irreparabile e profonda si mostra l'offesa; a chi chiedere il conto? A quale potere presentare reclamo? Quale giustizia risponderà di tale scandalo? [...] Tiene a dirci che, scampata ai campi di Terezin, Auschwitz e Bergen-Belsen, dove si trovava nell'aprile 1945, quando l'esercito britannico arrivò a liberare quanti restavano, in quello stesso aprile tornò a Praga dopo quattro anni di prigionia. Aveva compiuto nel campo vent'anni. E ora tornando alla città dov'era nata, scoprì un'estraneità sradicante, che la spinse altrove. Prima a Parigi, poi in California. In quella distanza il libro cominciò a crescere dentro di lei: aveva bisogno di raccontare. Noi sappiamo bene che cosa significa. Ce l'ha spiegato un nostro grande scrittore, Primo Levi. Il superstite giustifica, diciamo così, il peccato di essere sopravvissuto trasformandosi in testimone. Allo stesso modo Zdena si trasforma in Tania, racconta di sé attraverso quella ragazza che è in lei e non è lei. Zdena ha bisogno di essere e non essere quello che è stata. E' la grande prova alchemica della letteratura. Se l'operazione negromantica riesce, se si riesce a scrivere un romanzo con la materia nuda e cruda di un'esperienza così tremenda, non che si guarisca ma si diventa scrittori. Altrimenti si depositano nelle pagine di un libro le spoglie inerti dei propri ricordi. Forse ci si solleva di un peso, ma non si raggiunge nessuno. Nel suo bel saggio su Primo Levi, Le virtù dell'uomo normale (Carocci, 2003), Roberto Gordon, studioso inglese di letteratura italiana, indaga sul profondo legame tra letteratura ed etica. Un rapporto c'è, non potrei essere più d'accordo. Per questo leggo, vi confesso, perhcé ho smepre più bisogno di una parola dove convivano verità e rettitudine. Ho sempre più bisogno di riconoscere in chi parla il senso della propria responsabilità alla lingua. Ritrovo questo tono in Raccontami un altro mattino: nella sua semplicità e potenza, un piccolo capolavoro, come tale accolto quando uscì. Ma non salì in vetta a nessuna classifica. Non diventò un bestseller. Venne dimenticato. Dopo mezzo secolo, eccolo risorgere in America; e ora ricomparire in italiano per la traduzione di Marina Premoli. E' bene che sia così, è giusto che non si dimentichi questo romanzo, che porta inscritto nel suo cuore la virtù della memoria, e nella sua stessa trama la forza, non certo trionfante, ma dolente, della sopravvivenza.

Tania, Ilse e Eva sono tre ragazze poco più che adolescenti che nei campi tedeschi dove si fabbricano cadaveri, affrontano il viaggio nel cuore delle tenebra. Lì non muoiono. Sopravvivono, anche se nel loro caso il termine è impreciso; perché fanno di più, durano a vivere nelle condizioni più estreme. E se questo accade è perché mai si spegne in loro l'energia degli affetti. Non la speranza dell'evasione - troppo immateriale, troppo astratta; ma il legame di affetto concreto, quotidiano, le salva. [...] 'Raccontami un altro mattino', chiede il bambino febbricitante a Tania. E' la domanda di immaginazione che dà il titolo al libro: perché l'estro della fantasia trasporti il povero bimbo fuori dal campo, e gli permetta di sopportare un attimo ancora, un istante di più. [...] Ma una domanda tremenda, ingiusta, a cui nessuno dovrebbe mai più rispondere, rimbomba fragorosa nel libro e ci assorda: davvero l'immaginazione serve? O meglio: si può, si deve continuare a immaginare nel campo? Non è vero piuttosto che riuscirà a sopravvivere proprio chi ha scarsa immaginazione, chi spende l'intelligenza nella quotidiana furbizia di procurarsi un pezzo di pane in più? Ma chi si adatta e nel farlo rende la possibilità di vivere nel campo reale, non si allea così facendo con il proprio torturatore? [...] Alla fine del romanzo, viene voglia di contraddire Levi, quando dice che nei campi 'i migliori sono morti tutti'. So che cosa intende. E' giusto che ci educhi a pensare che non furono gli eletti, né i predestinati a sopravvivere. E' giusto che ci insegni la sconcertante casualità del bene, accanto alla banalità del male. E' giusto che ricordi la vergogna del sopravvissuto; perché coloro che non ce l'hanno fatta non sono certo i colpevoli, sono semplicemente coloro le cui virtù li rendevano i meno adatti. E proprio perciò paradossalmente i più 'umani'. Ma mai per un momento dobbiamo dimenticare - e questo romanzo non ce lo permette - che i veri non umani sono gli altri: gli impiegati solerti della fabbrica nazista. Che l'uomo porti in sé le stimmate dell'inumano lo testimoniano coloro che non provarono vergogna. I torturatori sono apparsi incapaci di testimoniare, osserva Giorgio Agamben in Quel che resta di Auschwitz (Bollati Boringhieri, 1998). E' straziante, fa male, ma è accaduto: c'è stato un momento della nostra recente storia in cui l'azione di vivere e morire furono sottoposti a tale prova. E' in effetti tremendo perfino pensarlo. Eppure, è accaduto (ma non si sentì, mi pare, la voce di nessun papa alta e chiara a difendere la vita). E a ben guardare accade ora, mentre scrivo. Nei campi profughi, nelle prigioni, nella foresta della Colombia, c'è chi toglie senso e significato alla vita (ma le urla di chi difende la vita a colpi di moratorie assordano le orecchie di chi vorrebbe ascoltare le vittime)." (da Nadia Fusini, La virtù della memoria, "La Repubblica", 29/02/'08)

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