venerdì 15 febbraio 2008

Nodi di Nuruddin Farah


"'Una guerra civile, che ci piaccia o no, ci riguarda tutti'. Nonostante la voce pacata, Nuruddin Farah, lo scrittore somalo più volte candidato al Nobel per la letteratura è lapidario. La guerra civile di cui parla è quella che tormenta il suo Paese e che è protagonista del suo nuovo romanzo, secondo episodio di una trilogia, iniziata con Legami (Frassinelli, 2005), e intitolato Nodi (Frassinelli, in libreria dal 18 febbraio) perché 'la guerra ti annoda, ti tira, e divora'. Un conflitto, quello vissuto da Farah, che oggi vede contrapporsi le truppe del governo di transizione - appoggiato dai signori delal guerra e dall'Etiopia - alle milizie dell'Unione delel Corti islamiche. Ma che dal 1991, anno della caduta del dittatore Siad Barre, ha visto clan rivali scontrarsi sanguinosamente provocando mezzo milione di morti e un milione di rifugiati, repentini cambi di alleanza, 'sfortunati' interventi occidentali (la famosa operazione 'Restore Hope' e scandali che hanno coinvolto anche l'Italia: dal traffico d'armi (su cui indagava la giornalista Ilaria Alpi) a quelli di cooperazione. Uno scenario complesso da descrivere in un romanzo: 'Difficile, è vero, soprattutto perché voglio evitare di fare sociologia' spiega Farah 'non voglio scrivere trattati, ma storie che facciano scattare qualcosa. Cerco di raccontare l'anima di un Paese che non esiste più, senza perdere la speranza'.

Per lo scrittore, costretto all'esilio da una condanna a morte pronunciata a causa del suo primo romanzo Naked Needle del 1976, troppo critico verso la dittatura, la speranza oggi ha le sembianze di Cambara, protagonista del suo ultimo libro: una somala cresciuta in Canada, che torna in patria per riscattare una tragedia personale. In una Mogadiscio definita da Farah 'città violenta perché violentata', la donna incontra un gruppo di attiviste che cercano di riportare la pace nel paese devastato da uomini accecati da droga e sete di potere. E il suo primo successo è redimere i ragazzini armati assoldati per farle da scorta nelle strade: conquistandoli con le armi del buonsenso, dell'amore materno e della normalità. 'Non si può più sperare negli uomini' afferma lo scrittore 'nella nostra società hanno fallito: non sono rimaste che le donne a cercare soluzioni concrete per uscire dal conflitto. Pensano alla famiglia e riflettono prima di agire, chiedendosi come evitare che il figlio, il marito siano uccisi. Gli uomini invece non si fermano, prendono le cose come una sfida personale, cercano vendetta, provocando solo distruzione'. Mogadiscio - città in preda all'anarchia ma dove pure, lo dice Cia World Factbook, la pubblicazione annuale dell'Intelligence americana, resistono i servizi, al mercato sono reperibili prodotti d'ogni tipo, da quelli alimentari a quelli elettronici e gli hotel continuano a restare aperti - 'un tempo era bella e pacifica: la gente usciva la sera, andava al cinema, alle feste. Oggi quella città non esiste più. La sporcizia dei politici ha interferito con la vita delle persone ordinarie'. Farah che, dopo aver vissuto in Italia, Inghilterra, India e Nigeria, oggi vive a Città del Capo ('ho scelto di restare in Africa'), è uno dei mediatori accreditati a far dialogare le fazioni rivali e recentemente è tornato più volte in quella che un tempo era la sua città, proprio come la protagonista del libro: 'Il racconto non è autobiografico, ma sotto certi aspetti contiene mie esperienze personali' riflette 'anch'io quando torno mi sento perso, ma amo farlo perché ritrovo cose che la memoria ha riscritto a modo suo'. Già, l'esilio. Insieme alle donne e all'identità, uno dei temi cari allo scrittore. 'E' stato il motore della mia immaginazione. Dopo aver lasciato la Somalia, mi svegliavo chiedendomi: cosa fare se non scrivere? L'esilio mi ha permesso di concentrarmi sulla scrittura. Se fossi tornato non avrei potuto farlo, almneo non il tipo di racconti che ho scritto. La mia famiglia, i miei amici, tutti mi avrebbero detto stai attento, pensa al rischio che corri. Mi avrebbero schiacciato. Invece sono sfuggito a quella pressione. E ho avuto l'opportunità di guardare le cose da quella giusta distanza che ti permette di cogliere i particolari; perché la distanza purifica la visione'. Fautore del dialogo, Farah crede che la soluzione del conflitto, i somali dovranno trovarla da soli, senza ingerenze: 'da noi si dice che se hai un bambino, devi lasciare che impari a camminare da solo, non puoi farlo al suo posto. Lo stesso vale per la democrazia, è un'esperienza a cui arrivare da soli. Dobbiamo attraversare l'inferno per goderci il paradiso. Ora stiamo assaporando l'inferno'. E l'Italia che con la Somalia ha legami storici ma è anche simbolo di tanti drammi, può fare qualcosa? 'L'Italia ha fatto cose sbagliate e terribili in Somalia, ma fa profondamente parte della nostra cultura, della nostra vita, della nostra psicologia. Dobbiamo continuare quel legame perché certo l'Italia potrà fare molto per la Somalia. Ad esempio, quando si parlerà di ricostruzione, aiutandoci a risecolarizzare la scuola. Chi, come i somali, ha perso fede in se stesso deve sapersi perdonare. E perdonare gli altri, restaurando il dialogo." (da Anna Lombardi, Gli uomini hanno fallito. In Somalia la speranza è donna, "Il Venerdì di Repubblica", 15/02/'08)
"Blood in the sand" (da GuardianUnlimitedBooks)
"Somalia's Farah: Humanizing a Broken Place" (da Npr.org)
"Nuruddin Farah: Long road to freedom" (da independent.co.uk)

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