"Leggere il racconto di Eraldo Affinati, La città dei ragazzi, è un'esperienza di vita.
Più del piacere della narrazione, della conoscenza delle persone (vere, vive) che incontri, più del cammino a ritroso nella memoria alla ricerca delle proprie e delle altrui origini, resta addosso, a libro chiuso, la sensazione fisica di esserci stati in un posto, di averlo vissuto e di averci passato gli anni, di aver fatto un viaggio in un luogo sottocasa, sconosciuto, di averci lasciato qualcosa e di essere tornati a casa più ricchi, anche, con un piccolo tesoro di cimeli in valigia. Affinati racconta le sue lezioni e gli incontri, a scuola nella Città dei Ragazzi, la storica comunità alle porte di Roma, fondata nel dopoguerra dal sacerdote irlandese Carroll-Abbing. Allora raccoglieva gli orfani di guerra e gli sciuscià. Oggi anche, solo che si chiamano Lazar, Khuda, Karmal, Said e sono arrivati nascosti sotto i camion nelle stive dei traghetti dalle loro remote macerie. 'Specialisti della lontananza. Tecnici del distacco. Esperti dell'assenza. Conoscitori del lutto'. Questi sono i suoi studenti. 'Mi toccavo le labbra e scrivevo bocca, mi toccavo la faccia e scrivevo fronte, mento, naso. Consegnavo il libro degli esercizi a Shumon e lui, bengalese, mi sorrideva in modo meraviglioso come se io fossi il capitano dei romanzi di Conrad'. Ragazzi senza padre. E' da qui che comincia il cammino del maestro alla ricerca della sua propria storia: anche suo padre, figlio illegittimo mai riconosciuto, era rimasto solo al mondo a dodici anni. Una storia opaca, mai davvero raccontata e sommersa nella seconda parte della vita (dal matrimonio, dalla nascita dei figli) da un'apparenza di normalità domestica. 'Riconosco al primo colpo d'occhio senza ragionarci su l'angustia sottile di Karim, lo sguardo stupefatto di Rauf, la gentilezza di Aziz, l'ombra scura che si addensa su Fazil. Solo oggi che mio padre è morto posso dire che era uguale a voi ma lo aveva nascosto, a se stesso in primo luogo. Aveva sepolto la sua orfanità. Io da ragazzo elaboravo il lutto dell'abbandono al posto suo, quella era la matrice della mia tristezza'. Ecco: è questo l'intreccio e l'incanto del racconto. La ricerca del proprio padre nello sguardo di cento ragazzi senza padre. Il bisogno di dare, unico modo per trovare. 'Se mio padre fosse nato oggi sarebbe entrato nella Città dei Ragazzi'. 'Insegnare agli orfani per me significa eseguire il compito che omise di svolgere. Deve essere per questo che non ho avuto figli. Se ne avessi generato anche soltanto uno non avrei avuto le mani libere per riparare il danno'. Il viaggio alla ricerca della propria storia si nutre di cento altre storie diverse, tutte irripetibili e distinte eppure uguali: la violenza, la morte, l'assenza, il lutto in origine. Siccome siamo a scuola sono i temi a spiegare le storie: il libro comincia con il racconto di Hafiz, afghano, finisce con quello di Khaliq, africano. Nel loro italiano sbrecciato e prodigioso spiegano in una pagina le loro vite. 'Un giuono mi tornato scola visto che tutto casa strutto mama papa morto'. Non importa se sei moldavo o nigeriano, se ti chiami Ivan o Giggetto, Manuele. Se vieni da Capo Verde 'dove i bambini di cui nessuno sa chi sia il padre stanno tutti insieme a giocare sulla spiaggia'. Anche di suo padre Affinati non sa chi fosse il padre: ne conserva forse il lembo di una giacca in una foto tagliata. Va a cercarlo in Marocco riportando Omar e Faris, due studenti della Città, alle loro famiglie. Lo trova nelle loro case costruite in cima a colline brulle, sterpi e nulla attorno per chilometri. Un viaggio vero per risalire alle origini di ogni congedo. 'Le persone a cui siamo legati cominciano a dirci addio quando sono ancora in vita: noi ce ne accorgiamo ma non possiamo farci niente'." (da Concita De Gregorio, Trovare un padre tra gli orfani, "Almanacco dei libri", "La Repubblica", 23/02/'08)
"Squarci di verità: intervista a Eraldo Affinati" (da Rai Libro)
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