lunedì 8 novembre 2010

Speak, Memory

La versione di Parla, ricordo che leggiamo, nella traduzione e per la cura eccellenti di Anna Raffetto, in libreria dopodomani per Adelphi, è inedita in Italia. La prima stesura di Speak, Memory, uscita negli Stati Uniti nel 1951 e tradotta da Bruno Oddero per Mondadori nel 1962, fu infatti riaperta e ampiamente rimaneggiata dall'autore. Fu tradotta in russo dall'inglese con l'aiuto della moglie Véra durante l'estate del '53, trascorsa tra la caccia alle farfalle e la scrittura di Lolita - «un parto doloroso, una bimba difficile» - tra l'Arizona e il West e il Midwest degli Stati Uniti. Poiché del ricordo di 37 anni vissuti in russo si trattava, ripercorrerli nella madrelingua permise a Nabokov di colmare lacune, aggiustare incongruenze, rivedere le sviste di Mnemosyne. Tornato in Europa dopo 20 anni di assenza, poi, confrontatosi con i ritrovati parenti, apportò allo scritto ulteriori «modifiche sostanziali, e copiose aggiunte», informava nel '66. Infine ne ritradusse la versione definitiva in inglese, pensando che quella «ri-anglicizzazione di una ri-versione russa di ciò che fu ri-narrazione inglese di ricordi russi» fosse sì «un compito infernale»: una fatica «mai tentata da esseri umani». Una di quelle «metamorfosi multiple», però, «ben nota alle farfalle»: delle quali miracolosamente dispiega sulla carta l'intrattenibile bellezza.


"«Amare con tutta l'anima e lasciare il resto al fato». A questa semplice regola si atteneva sua madre. Non ebbe neppure bisogno di insegnargliela perché anche il figlio, osservando l'esempio di lei, ne facesse la propria regola di vita. E la legge che regolò l'appassionato racconto della sua vita.
La madre si chiamava Elena Ivanovna Rukavishnikova, e aveva 23 anni quando, a San Pietroburgo, il 23 aprile 1899 diede alla luce il primo dei suoi cinque figli: Vladimir Nabokov. Ripensando a lei, dipingendone il ritratto, è l'invito materno che lo scrittore rievoca nel capitolo più toccante della propria «Autobiografia rivisitata»: Parla, ricordo, pubblicata per la prima volta in America negli anni 50, tradotta in italiano nel '62, a lungo rimaneggiata dall'autore fino al 1966, e in uscita dopodomani da Adelphi nella versione definitiva rimasta finora inedita in Italia.
«Ricordatene! (Vot zapomni)»: gli diceva la madre mentre a Vyra, la tenuta estiva nella campagna pietroburghese, gli indicava i poveri tesori che andava immagazzinando nella sua anima: il volo di un'allodola, un cielo color latte rappreso velato di primavera, la tavolozza autunnale delle foglie d'acero cadute sulla sabbia, le tracce cuneiformi degli uccellini lasciate sulla neve ... Ciascuno dei segni che il tempo disseminava in quel diletto paesaggio veniva registrato e poeticamente trasfigurato. Con cura amorosa, il presagio che, «nell'arco di qualche anno, la parte tangibile del suo mondo sarebbe perita». Ma, se si amava con tutta l'anima, ci si poteva esporre serenamente ai colpi del fato.
Dall'agosto 1903 cui datano i suoi primi ricordi, al 1917 in cui «il gran deus ex machina della Rivoluzione» avrebbe rovesciato il destino suo e della sua famiglia, Nabokov avrebbe raccolto con lo stesso sguardo innamorato della madre le cose «care e sacre» che andavano improntando la sua giovane anima. Con la stessa devozione di lei le avrebbe serbate attraverso gli anni d'esilio in Inghilterra, Francia e Germania: vissuti tra il 1919 della fuga dal paese natio e il 1940 dell'approdo al paese di adozione in un'«orgogliosa indigenza da émigré», dopo che la strabiliante ricchezza in cui crebbe era svanita nel nulla. Con la più autentica espressione di Amor fati le avrebbe riordinate nella scrittura, ricomposte sulla pagina, ritrovate intatte come le vestigia di quel «Passato perfetto» che avrebbe idealmente intitolato il primo capitolo di questo che è uno dei suoi libri più belli.
Per scriverlo - Parla, ricordo - non aveva che da ascoltare e trascrivere le parole di quella dea, Mnemosyne, tanto fervidamente venerata in famiglia. Mnemosyne però «è una ragazza molto sbadata», notava ironico Nabokov nella prefazione all'edizione definitiva - del 1966 - di quel suo autobiografico testo. Si lascia distrarre da dicerie familiari, fuorviare da sviste e anacronismi, confondere dalle emozioni, sedurre da predilezioni, idiosincrasie, affetti. Non è perciò una storia familiare, né un diario personale quello che, ascoltando il dettato di lei - e i dettami della madre: «Ricordatene!» - l'autore obbediente redigeva. È la composizione del «disegno irripetibile» la cui «intricata filigrana», osservava Nabokov in una delle sue più esplicite dichiarazioni di poetica, «si rivela quando la luce dell'arte si accende sulla carta della vita».
Al di là infatti delle esperienze vissute, delle condizioni ambientali, proseguiva lo scrittore - antidarwiniano nella sua idea della formazione individuale e della natura, quanto era antimarxista nella concezione della letteratura - «lo strumento esatto che mi ha modellato», «l'anonimo rullo» che ha segnato la mia esistenza si era formato attraverso le impressioni fortissime ricevute nell'infanzia e favolosamente illuminate in retrospettiva, accese di lunghi raggi obliqui, avvolte nel riverbero meraviglioso della scrittura adulta.
«Sumerki», si chiamavano i crepuscoli estivi della Russia, quando «il giorno impiegava ore a svanire» e tutto fluttuava «nell'infinita sospensione vespertina». L'aura struggente di quelle sere perdura su tutte le visioni proiettate da Nabokov nei ricordi. Sul grande divano di cretonne dietro cui, a quattro anni, giocava a nascondersi godendo «il piacere fantastico dei ragazzini che rovistano negli angoli polverosi». Sulla collina di Vyra, sul tiglio della sua altura più ripida, dove «conveniva prendere la bici per le corna», come consigliava suo padre che lassù aveva chiesto a Elena Ivanovna di sposarlo. Sulle ali delle farfalle, da cui precocemente, a sette anni, attinse da vicino alla fonte della bellezza. Sulla bellezza femminile, scoperta con timida costernazione: «Esigo un silenzio assoluto, prego», chiede al lettore prima di compiere il doppio salto mortale della rievocazione dei primi stimoli sessuali. Sulle fattezze di Tamara - come per delicatissimo pudore è ribattezzata nei capitoli finali la moglie Véra - ciascuna delle quali «mi ammaliava fino all'estasi».
A lei, unica dedicataria del libro, si rivolge con il tu nelle ultime pagine, porgendole come un tesoro i ricordi di un'«infanzia azzurro neve» rimasti intatti attraverso i crolli politici, il disastro finanziario, la fine violenta e prematura del padre ucciso a Berlino, la solitudine e la povertà dell'esilio cui una mossa vincente, calcolata come la soluzione di un problema scacchistico (una bustarella consegnata alla persona giusta), pose fine con l'ottenimento di un visto per gli Stati Uniti. Fu un colpo di fortuna, un gioco del destino di cui, chi ama, può fidarsi. La madre glielo aveva insegnato e Nabokov non se n'era dimenticato. Evocando l'ultima immagine di lei, la rivede vedova, sola, ridotta in povertà, «mentre studia serena le carte scoperte di un solitario», seduta nella sua stanza di Praga. Un riverbero delle perdute ricchezze, un estremo raggio di sumerki, brilla sulla sua mano: «Il duplice luccichio sull'anulare sinistro viene da due fedi - la sua e quella di mio padre che, troppo larga, è legata all'altra da un lembo di filo nero»." (da Alessabdra Iadicicco, Come si diventa Nabokov, "La Stampa", 08/11/'10)

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