lunedì 22 novembre 2010

Frédéric Martel, Mainstrem


"È un'inchiesta che in Francia ha fatto molto discutere. Quella proposta da Frédéric Martel nelle pagine di Mainstream (Feltrinelli), un libro appassionante ricco di dati, storie e riflessioni che prova a spiegare «come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media». Grazie alle testimonianze dei protagonisti delle «industrie creative» raccolte ai quattro angoli del pianeta, lo studioso francese descrive lo scontro culturale in atto che vede alcuni paesi emergenti rimettere in discussione l'egemonia culturale degli Stati Uniti. Uno scontro che avviene innanzitutto sul piano della cultura «mainstream». Vale a dire, la cultura «che piace a tutti», la cultura di massa legata al mondo dell'immagine e della musica - e solo in misura minore al mondo della cultura scritta - nei confronti della quale l'autore di Mainstream tenta innanzitutto di smontare luoghi comuni e pregiudizi: «Nei confronti della cultura di massa c'è ancora molta diffidenza», spiega Martel, che ha creato Inaglobal, un sito internet dedicato a queste problematiche. «Le opere mainstream vengono spesso considerate con disprezzo e percepite come un divertimento superficiale estraneo all'arte. E' un pregiudizio diffuso tra gli intellettuali europei, purtroppo ancora prigionieri della condanna senza appello emessa dalla scuola di Francoforte nei confronti della cultura di massa. Invece, il mainstream va studiato seriamente, perché ha molto da insegnarci sull'evoluzione della cultura contemporanea. Oggi, avremmo bisogno di un nuovo Walter Benjamin che ci aiutasse a riflettere sull'opera d'arte all'epoca della riproducibilità digitale, per parafrasare il titolo del suo celebre saggio».
La tradizionale opposizione tra arte e entertainment va superata? «Certamente. Si tratta di un'opposizione figlia di una concezione aristocratica della cultura, per la quale il mercato corrompe inevitabilmente la purezza dell'arte. Il mercato però a priori non è buono né cattivo. Può distruggere la cultura, ma anche favorirla. Il mainstream può produrre banale divertimento ma anche opere di qualità. Inoltre, tra l'arte più elitaria e le opere più standardizzate esistono innumerevoli forme intermedie, dove arte e divertimento coesistono in dosi più o meno accentuate, contaminandosi e alimentandosi a vicenda. Insomma, il mainstream rimette in discussione le tradizionali frontiere tra cultura alta e cultura bassa».
La cultura mainstream è quindi più complessa di quanto si immagini? «Per parlare a tutti non è necessario essere superficiali e scontati. Toy Stories, Ratatouille o Avatar hanno conquistato il pubblico mondiale perché, dietro l'apparente semplicità, agivano opere sofisticate, creative e tecnologicamente complesse. Naturalmente il mainstream può anche produrre opere piatte e consolatorie, ma non sempre è così, dato che non nasce mai dalla semplice ripetizione. Al contrario, è sempre alla ricerca di formule originali per rinnovarsi. Solo così conquista il pubblico».
Secondo alcuni critici, il pubblico sarebbe succube dell'industria culturale ... «Il pubblico non subisce mai passivamente le strategie dell'industria culturale. Lo dimostrano i molti flop della storia della cultura mainstream. Il pubblico ha una propria gerarchia di valori ed è capace di distinguere un prodotto originale da uno inutilmente ripetitivo. Sa riconoscere la creatività. I prodotti culturali non sono come la Coca Cola, che replica invariabilmente la stessa formula. Devono rinnovarsi di continuo e produrre risultati originali».
In che modo? «La cultura mainstream si nutre di creatività, ricerca e libertà. Sfrutta la diversità culturale, l'innovazione tecnologica e la sperimentazione artistica. In Europa, pensiamo che la ricerca e la cultura di massa siano mondi differenti e separati, ma negli Stati Uniti vivono di scambi continui. Il problema dei cinesi nasce proprio da qui. Vorrebbero produrre una cultura mainstream, per essere presenti nel grande mercato mondiale della cultura, ma contemporaneamente uccidono la diversità, la controcultura, la libertà d'espressione. Senza tutto ciò non si fa mainstream».
Il mainstream finirà per invadere ogni spazio della cultura? «Non mi sembra un rischio reale, dato che, nonostante il successo mondiale di una cultura mainstream sempre più globalizzata, le culture nazionali godono dappertutto di buona salute. In Francia, ad esempio, il 50% del box office è prodotto dai film francesi. Tuttavia, accanto alle culture nazionali, ovunque si impone la cultura mainstream prodotta negli USA. Batman, Lady Gaga e il Codice da Vinci hanno successo dappertutto».
Negli ultimi anni però i prodotti mainstream non sono più solamente americani ... «E' vero, basti pensare al successo internazionale dei film indiani di Bollywood, delle telenovelas brasiliane, dei manga e dei videogiochi giapponesi, dei programmi informativi di Al Jazeera. Insomma, anche se non credo alla teoria del declino degli Stati Uniti, che restano il primo esportatore mondiale di prodotti culturali, è indiscutibile che il mercato mondiale della cultura sia in piena trasformazione. Emergono infatti nuovi paesi che riescono ad imporre i loro media, le loro culture e i loro valori anche al di fuori dei rispettivi mercati nazionali, creando nuovi flussi di scambi culturali. Accanto a Los Angeles e Miami, le nuove capitali della cultura mainstream sono oggi a Hong Kong, Il Cairo, Bombay o Tokyo». Quanto contano le nuove tecnologie in questi successi? «La rivoluzione digitale ha offerto un'enorme opportunità ai paesi emergenti, che considerano le nuove tecnologie uno strumento indispensabile per costruire la cultura di domani. Oltretutto, i nuovi protagonisti della cultura di massa non hanno avuto bisogno di gestire la transizione tra i prodotti culturali della tradizione e i nuovi format della cultura mainstream. Si sono lanciati immediatamente, e con successo, sul nuovo. Di conseguenza, oggi il mondo della cultura non ha più un solo centro. E ciò naturalmente è un bene per tutti».
In questo scenario l'Europa perde peso? «In effetti, anche se è pur sempre il secondo produttore mondiale di cultura. Il declino è dovuto anche alla mancanza di una vera cultura europea comune. Accanto alle rispettive tradizioni nazionali, le popolazioni europee hanno in comune solo la cultura mainstream americana. E la frammentazione culturale non aiuta certo a produrre opere per il mercato mondiale. Tuttavia possiamo ancora invertire la tendenza, ma non è alzando le barricate che si produce cultura mainstream in grado di conquistare il mercato mondiale»." (da Fabio Gambaro, La vera cultura è di massa, "La Repubblica", 22/11/'10)

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