venerdì 12 novembre 2010

The Necessity for Ruins


"Secondo il grande storico dell´arte cinese Wu Hung (professore a Chicago), nella cultura cinese manca il senso delle rovine, e i pittori e calligrafi cinesi si astennero dal rappresentarle; le eccezioni sono dovute a influssi della cultura europea. In Europa, al contrario, la presenza delle rovine è vitale nella riflessione storica come nell´arte e nella letteratura.
Per Chateaubriand (in una celebre frase del Génie du Christianisme, 1802), «tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine», a causa di un sentimento del sublime destato dal contrasto fra la condizione umana e la caduta degli imperi, che le rovine testimoniano ed evidenziano. Secondo un saggio di Georg Simmel (1919) «il fascino della rovina sta in ultima analisi nel fatto che un´opera dell´uomo possa esser percepita come un prodotto della natura», della sua potenza distruttrice. J. B. Jackson, che il New York Times definì «il massimo scrittore sulle forze che hanno forgiato la terra occupata dalla nazione americana» scrisse nel 1980 un prezioso libretto, The Necessity for Ruins.
Secondo Jackson (americano, ma nato e morto in Francia), le città americane fanno enormi sforzi per costruirsi una memoria storica artificiale, creata a partire da oggetti visibili che vengono reinterpretati come monumenti, landmarks; ma anche creando dal nulla rovine fittizie, prêtes-à-porter di marca hollywoodiana, come i saloons "ricostruiti" in tante piccole città del Nevada. Anche le finte rovine hanno una prodigiosa efficacia sociale: presuppongono e incorporano le rovine della storia e quelle dell´immaginazione, ricreano un passato "vero" non perché dimostrabile, ma perché "tipico". Il gesto di invenzione della tradizione viene implicitamente legittimato come "ricostruzione" di una tradizione "autentica", che interpreta un´esigenza quasi religiosa di memoria collettiva. Scrive Jackson: «solo le rovine danno un incentivo efficace per la rinascita, per un ritorno alle origini. È necessario un intervallo di morte o di oblio, prima che possa davvero parlarsi di rinnovamento o di riforma».
Pensieri consolanti, in un Paese che va, moralmente e fisicamente, in rovina? È davvero necessario che Pompei e la Domus Aurea cadano a pezzi, per innescare nei cittadini una qualche voglia di riscossa? Dopo la frana di Giampilieri di un anno fa (18 morti), dobbiamo aspettare che franino l´una e l´altra sponda dello Stretto per accorgerci che non basta "dichiarare l´emergenza" come fece allora il governo, ma bisogna "curare" il dissesto idrogeologico anziché posare le prime pietre di un faraonico Ponte? Ma la riflessione sulle rovine, nella tradizione occidentale, non è consolatoria, è tragica.
Il detto famoso di Beda il Venerabile («Finché starà il Colosseo, starà Roma; e finché starà Roma, starà il mondo») non è un grido di trionfo, è un ammonimento e un allarme. Scrivendo nell´VIII secolo, Beda non si riferiva al Colosseo nel suo pieno fiorire, luogo di spettacoli che accolse per secoli decine di migliaia di spettatori, ma già (come oggi) a un gigantesco rudere che continua a morire a ogni istante, eppure vive ancora. Perciò le foto di Jack London a San Francisco dopo il terremoto del 1906 indugiano su chiese semidistrutte, ma ancora in piedi, su edifici in frammenti, ma riconoscibili. Fra la rovina (il frammento) e l´intero c´è una corrente di senso: fin quando la rovina è riconoscibile, invita il lavoro della memoria, la pietà della ricostruzione, l´intelligenza della riflessione storica. Perciò le rovine segnalano sì un´assenza, ma al tempo stesso incarnano, sono una presenza, un´intersezione fra il visibile e l´invisibile. Ciò che è invisibile (o assente) è messo in risalto dalla frammentazione delle rovine, dal loro carattere "inutile" e talvolta incomprensibile, dalla loro perdita di funzionalità (o almeno di quella originaria). Ma la loro ostinata presenza visibile testimonia, ben al di là della perdita del valore d´uso, la durata, e anzi l´eternità delle rovine, la loro vittoria sullo scorrere irreparabile del tempo.
Memoria di quel che fummo, le rovine ci dicono non tanto quel che siamo, ma quello che potremmo essere. Sono per la collettività quel che per l´individuo sono le memorie d´infanzia: alimentano la vita adulta, innescano pensieri creativi, generano ipotesi sul futuro. Così le rovine (dei monumenti, delle istituzioni, dei valori) ci ricordano col loro crollo quotidiano che non possiamo essere solo spettatori. Nel segno della morte, alzano una barriera fra i viventi, sono segno di contraddizione: di qua chi al crollo reagisce con sdegno e volontà di rimedio, di là i distruttori di mestiere, che nei crolli e nelle rovine vedono solo occasioni di far bottino, e a chi si sdegna rispondono con battute e sberleffi, e l´inevitabile, miserevole invito a "non strumentalizzare" (è successo, in alcune servili reazioni dopo il recente crollo a Pompei).
Ma nelle rovine di quel che fu Roma peschiamo almeno questa citazione (da Seneca): è capace di indignazione solo chi è capace di speranza. Guardiamo dunque attentamente le rovine che si addensano intorno a noi, ma guardiamole con occhi allarmati. Hanno molto da dirci, se sappiamo interrogarle. Se non le consideriamo "inevitabili", ma prodotto di incuria a cui porre rimedio. Lasciamo alla loro morte morale chi danza cinicamente sulle rovine. Prendiamoci la vita, la lezione etica e politica che viene dalla memoria e dalla solidarietà collettiva, dalla volontà di rinascita. L´Italia lo merita." (da Salvatore Settis, I simboli della nostra civiltà che rischiano di diventare macerie, "La Repubblica", 11/11/'10)

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