sabato 20 agosto 2011

La prima vera bugia


"Luca è un bambino di nove o dieci anni sappiamo che va ancora alle elementari dal sussidiario che, con 'La settimana enigmistica', è fonte prima delle sue nozioni del mondo - e vive solo con la madre, bionda e fragile, capace di tenerezza e fugaci allegrie, immensamente triste. Il padre non c'è mai stato: è morto, o li ha abbandonati, Luca non sa e non chiede, perché nessuno ne parla. Soffre la vergogna terribile di essere orfano, dunque diverso dagli altri bambini, come portare sempre "un cappotto senza una manica". Soffre le crudeltà inconsapevoli dei compagni (soprattutto Antonella, di cui è innamorato in segreto) e le superficiali cortesie, involontariamente crudeli, dei grandi. C'è una nonna coi capelli viola, un po' svanita, comunque lontana, l'amica-gallina della mamma, papà occasionali che mugolano un po' dietro la porta della camera in fondo al corridoio e poi spariscono, un gattino chiamato Blu e nessun altro.
La prima vera bugia (et al. edizioni) comincia come una storia di ordinaria infelicità, ma si trasforma ben presto nella cronaca dell'inimmaginabile. O di "un' enorme porca merda", direbbe Luca, puntiglioso esegeta delle parolacce e di tutti i bizzarri gerghi del linguaggio adulto da cui è investito. Una mattina la mamma, a cui i sonniferi hanno rubato i sogni, non si sveglia. "Se le persone sono felici, non muoiono così, a caso" - la rabbia soccombe subito al senso di colpa - "Forse non sono stato capace di farla restare nella mia vita, di farla vivere almeno per me". L'orrore è inaffrontabile. All'incubo di essere diverso subentra il pericolo reale di finire in uno di quegli istituti visti nei film. Allora Luca sceglie la prima vera bugia: fare come se non fosse successo niente. Essere forte, d'altronde, è l'unica reazione possibile per un bambino precocemente adultizzato come lui, cresciuto nell'abbraccio di una madre depressa in cui non ci si può rifugiare né abbandonare, perché - sente Luca - è piuttosto come sostenere un peso.
Nel mondo indifferente che lo circonda, tenere in vita un simulacro di normalità non è impossibile: basta evitare i dettagli sbagliati. Capelli in ordine, unghie pulite, compiti fatti, aggiungere al cestello della spesa assorbenti o lamette da barba: si applica ai dettagli con disciplina inflessibile. Sono proprio i dettagli - crudeli, struggenti, sorprendenti a rendere affilata e potente la prosa di Marina Mander. Non emula i virtuosismi linguistici e narrativi di Safran Foer col piccolo Oskar di Molto forte e incredibilmente vicino, né replica la morbosità rarefatta de Il giardino di cemento (ma pare un implicito tributo a McEwan la copia di L'amore fatale che cade dal comodino della mamma morta).
La trama è scarna. Attraverso la voce asciutta del piccolo protagonista, le sue osservazioni lucide e involontariamente surreali, strazianti e talvolta esilaranti, senza concessioni al consolatorio né scivoloni nel patetico, l'autrice costruisce la cronistoria documentaria di un trauma, dall'interno. Come la mente di Luca cerchi di avvolgerlo, contenerlo, normalizzarlo, mimetizzarlo, contro lo tsunami della realtà che torna a perseguitarlo ogni mattina, quando sente suonare dietro la porta chiusa la sveglia della mamma cadavere. Nella narrazione tesa ed essenziale prende corpo l' impotenza disperata dei bambini ("gli adulti, se vogliono, possono andarsene, io no") e la loro capacità di mobilitare risorse inimmaginabili, il panico dietro l' apparente libertà di bestemmiare o fumare una sigaretta, lo sfuggirea una realtà insopportabile con fantasie di onnipotenza, sotto il cui peso crolleranno, "appassiti da un lato e ancora acerbi dall'altro, come un frutto esposto troppo presto al freddo del vento", come scrisse Irène Némirovsky di un' altra infanzia terribile.
Marina Mander, che si era già accostata con sensibilità originale al mondo dei bambini col racconto Anosmia della raccolta Manuale di ipocondria fantastica, riesce a raccontare con precisione e pudica tenerezza il dolore indicibile di Luca, i suoi cedimenti nella campagna militare contro i dettagli, il calvario di cui solo il gatto è muto testimone. Attraverso questa parabola estrema, dà voce ai troppi bambini a cui è negato il diritto di essere protetti e amati. Bambini a cui nessuno presta attenzione, perché chi c'è non è capace, perché ci sono problemi più grandi di loro. Perché non si lamentano? Perché non parlano? Perché non danno segni di disagio? spesso se lo chiedono anche loro, cresciuti prigionieri dell'incantesimo dell' autosufficienza, senza potersi concedere di piangere un dolore mai detto, un male mai denunciato, segretamente accusando se stessi per non aver saputo essere adulti quando erano solo bambini.
In questo romanzo breve c'è una chiave per intendere come paura e vergogna inchiavardino terribili segreti famigliari, perché un bambino possa tacere il dolore, lo sconcerto, l'orrore, nel disperato tentativo di mantenere una "normalità", l'unica che conosce. Questo libro toccherà con dita brucianti chi ha conosciuto, in qualunque forma, il dolore di Luca. La prima vera bugia si legge d'un fiato, in apnea, scossi da folate di freddo, come il protagonista che trattiene il respiro nella casa vuota con le finestre sempre aperte. Come fanno i buoni libri, da una di queste finestre vi mostrerà un mondo, e non riuscirete facilmente a chiuderla, né a dimenticarlo." (da Benedetta Tobagi, Il bimbo narratore alla Safran Foer racconta il mondo, "La Repubblica", 20/08/'11)

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