lunedì 24 maggio 2010

Un'altra vita di Per Olov Enquist


"Lungo e sottile come un fuso, con quella strana ritrosia nel sorriso tipica dei timidi, Per Olov Enquist scandisce e soppesa le parole lentamente, quasi parlando con se stesso, un retaggio forse di quando, in gioventù, è stato un atleta di salto in alto. L'oggetto dell'incontro è l'uscita della sua autobiografia, Un'altra vita (Iperborea), una storia «che parla di resurrezione» e che si legge come un romanzo di formazione in tre atti: dall'infanzia tra i boschi nel nord della Svezia allevato da una madre severa e devota, fino alla lunga dipendenza dall'alcol dalla quale uscirà scrivendo romanzi come Il medico di corte o Il libro di Blanche e Marie. Nel mezzo una vita molto intensa, segnata da rapporti d' amicizia mai banali (Bergman, Olof Palme), dal successo giunto prima dei trent'anni o dall'esperienza nella socialdemocrazia svedese. «Non ho parlato dei miei figli né dei miei fallimenti matrimoniali - avverte Enquist -. Avevo la sensazione che qualcosa fosse finito il 6 febbraio del '90, quando smisi di bere e ripresi a scrivere. Passati diciassette anni dalla mia resurrezione, mi accorsi che potevo guardare indietro anche con un po' di curiosità e non più solo con vergogna».
Come mai ha raccontato di sé in terza persona? «Le prime quaranta pagine le ho scritte partendo dalla parola "Io". Mi sono accorto che era molto scivolosa. Mi sentivo un codardo, non arrivavo alla verità. Allora ho ricominciato, frapponendo una distanza formale con cui riuscivo a guardare l'uomo Enquist con più acutezza, a trasformarlo, quasi, nel personaggio di un romanzo. Se andavo contro di lui era più facile essere onesti».
Ha utilizzato lo stesso metodo con cui costruisce i romanzi? «Sì. Dovevo cambiare casa e luogo di lavoro. Tornavo a Copenhagen, dopo aver trascorso un periodo a Parigi - ho avuto tre matrimoni e i traslochi sono stati frequenti nella mia vita. Trovai in un angolo della casa una serie di appunti su alcuni diari e diversi pacchi di lettere che mi erano state indirizzate fino al '78. Rileggere questo materialeè stato come aprire delle porte».
Racconta di essersi trovato nei crocevia della storia. Ha la sensazione di aver avuto una esistenza privilegiata? «Venendo dal piccolo villaggio di Hjoggböle ho trascorso la giovinezza pensando che gli altri avessero avuto delle esperienze più interessanti delle mie. Sentivo di essere partito da una posizione di svantaggio. Ormai ho settantacinque anni e mi sono reso conto d'essere stato al centro della storia quando cambiava direzione: a Berlino, durante il processo alla banda Baader-Meinhof; come giornalistaa Monaco nel '72, che fu l'inizio di una nuova forma di guerra; nel novembre dell'89 a Praga, anche se ero preda dell'alcol. È come con le finestrelle del calendario dell'avvento, vedi tante immagini e solo a poco a poco sai metterle assieme».
Sua madre voleva che diventasse un prete. «Ho passato l'infanzia in un contesto fortemente religioso, con l'ossessione del peccato e del perdono. Sono cresciuto solo con mia madre e la sua fede. In un ambiente così oppressivo le domande erano meravigliose ma le risposte rivoltanti. Forse è per questo che non sono finito nel fondamentalismo degli anni Sessanta, quella impostazione l'avevo già conosciuta e rifiutata. Comunque, il mio senso di colpa è oggi orientato verso gli uomini più che verso Dio».
Per alcuni la scrittura ha un potere salvifico. Per lei è così? «Il mio inferno nell'alcol è durato tredici anni e in questo arco di tempo ho composto solo un romanzo breve, L'angelo caduto. Se fosse stato grazie alla scrittura avrei dovuto salvarmi molto prima. Per farlo ho dovuto invece risolvere il significato dell'assenza di mio padre, che morì quando avevo sei mesi. Finii per inventarmelo, portandolo con me e parlandoci continuamente, una sorta di benefattore presente ma invisibile. La chiave è stata Il capitano Nemo».
Parla di resurrezione: che valore dà a questa parola? «Per la prima volta mi accade di essere fermato da lettori che confessano di avere provato sensazioni molto profonde con Un'altra vita. C'è stato un tempo in cui sono stato molto vicino a suicidarmi e non ho ancora ben capito come mai non l'ho fatto. Chi passa attraverso questa dipendenza ha però una propria storia e soluzioni differenti. L' unica cosa che mi sento di dire è di rialzarsi con le proprie gambe perché nessuno vi salverà».
Cercare di capire il momento in cui è iniziata la modernità appare come un punto cruciale del suo lavoro di scrittore. Da dove nasce questa ricerca? «La modernità è interessante, ma mette anche paura. Si dice che la Svezia abbia i suoi due millenni di storia. In realtà è nata un centinaio di anni fa, a cavallo fra il XIX e il XX secolo: da che era uno dei paesi più poveri al mondo è diventato uno dei più ricchi. Per quanti come me provengono dagli sperduti villaggi del nord, e che adesso vivono in una società opulenta e moderna, la domanda che poniamo a noi stessi è se non siamo per caso nel posto sbagliato. Forse è là che dovremmo ritornare»." (da Sebastiano Triulzi, Per Olov Enquist, "La Repubblica", 22/05/'10)

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