sabato 15 maggio 2010

Consumati. Da cittadini a clienti


"Provate a immaginare quali enormi profitti potrete realizzare se riuscirete «a condizionare un milione o dieci milioni di bambini, i quali diventeranno adulti addestrati a comprare il vostro prodotto, così come i soldati sono addestrati a mettersi in marcia non appena sentono l’ordine avanti march!». Lo scriveva - cinquant’anni fa! - un americano esperto di marketing di nome Clyde Miller,
citato da Vance Packard nel suo famoso I persuasori occulti.
Da allora, un crescendo di strategie (pedagogie?) per portare i bambini nel mondo del consumismo: affinché l'effetto di consenso/addestramento sia intenso e soprattutto duraturo.
Per farci restare però piccoli anche da adulti. Infantilizzandoci, ovvero inducendo «comportamenti puerili in soggetti adulti», scrive Benjamin Barber
(americano, docente di Civil society) in un saggio tra psicologia e sociologia, Peter Pan e Wendy, lovemarks e desiderio di comunità, apparenza di libertà e web come nuovo mercato, infotainment, edutainment, co-branding e narcisismo degli interessi.
Titolo: Consumati. Da cittadini a clienti (Einaudi). Analisi di come il mercato «corrompe i bambini, infantilizza gli adulti e mortifica il cittadino». Adulti, ma infantili («rimbambiniti»). Questo siamo diventati, e sarebbe da rileggere il Kant di Cos’è l’illuminismo dove è scritto: «Minorità è l’incapacità dell’uomo di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro», restando per sempre nel «girello da bambini». Infantili nel consumo, ma non solo - e l'Italia di oggi, viene da dire, sembra la triste dimostrazione di come l’infantilizzazione sia passata dalla televisione di consumo alla politica, dando un consenso empatico agli stessi produttori di infantilismo. Sì, perché l'idea di infantilizzazione si basa su opposizioni forti ma facili, che fanno prevalere, ad esempio, il dogmatismo al dubbio, le immagini alle idee, l'egoismo all'altruismo, l'ignoranza alla conoscenza.
Molti dualismi che Barber riassume tra «facile-difficile, semplice-complesso e veloce-lento». E le nostre società oggi premiano appunto il facile, il semplice e il veloce (profitti facili, sesso veloce, copia e incolla, divertimento volgare). Ne viene fuori un totalitario «totalismo consumistico» fatto di «puerilità indotta» ma necessaria al capitalismo per riprodursi. Anche se «il problema non è il capitalismo di per sé». Però, se una religione pretende di dettare legge, è una teocrazia; se è la politica a colonizzare la vita, è tirannia; perché invece «quando è il mercato a colonizzare ogni ambito della vita» lo chiamiamo «libertà»?
Già, perché? Il capitalismo «dovrà moderare il proprio trionfo e i cittadini dovranno rinnovare la loro vocazione», sostituendo «all’ethos infantilistico un ethos democratico». Basterà, o abbiamo perso la voglia di diventare «maggiorenni»? Basterà, se il liberismo ha conquistato l'egemonia anche a sinistra e se sembra continuare ad avere consenso?
Emilio Carnevali e Pierfranco Pellizzetti provano a smascherare - in Liberista sarà lei! (Codice), tra saggio e pamphlet - l'imbroglio del liberismo (anche) di sinistra.
In tanti, in troppi hanno creduto (di nuovo!) a questa favola del mercato autoregolato, tendente all'economia-casinò. Ecco allora una rilettura del liberismo, partendo da Adam Smith, passando per Friedman e Hayek e arrivando a polemizzare con chi - come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi o i «riformisti» da sinistra che invocano un «ossimoro chiamato flexsecurity» - ha preteso di realizzare il paradosso del liberismo di sinistra. Che fare? «Noi auspichiamo un ritorno del Politico (dal suo lato sinistro), come indispensabile antemurale contro i nuovi domini dell’interesse economico svincolato da ogni controllo in questa fase di turbocapitalismo (forse calante) e di endemiche insorgenze razziste e/o fondamentaliste».
Cambiamento è anche l'auspicio dell’economista Raj Patel ne Il valore delle cose (Feltrinelli). Partendo da Oscar Wilde - «Al giorno d'oggi la gente sa il “prezzo” di tutto, ma non conosce il “valore” di niente» - inizia la critica a un mercato guidato non dai bisogni ma dal profitto, dove le regole, quando ci sono, «sono stabilite dai potenti». La «cura» non può però venire solo dai governi, «bisogna cambiare la società di mercato dall’interno», con più uguaglianza, responsabilità e politica dal basso - bilancio partecipativo, rimozione dello «squallido fardello del consumismo» e difesa dei beni comuni.
Ma come siamo giunti a questo punto? Utilissimo, ecco Il lauto scambio, dello storico William Bernstein (Tropea). Per capire come il commercio, lo scambio, hanno rivoluzionato il mondo conquistando appunto l'egemonia: dalla Mesopotamia all'economia finanziaria di oggi, tra mercanti e spirito di avventura.
Un libro liberista? «I dilemmi del liberismo - scrive Bernstein - richiamano alla memoria il famoso giudizio di Churchill sulla democrazia: la peggiore forma di governo eccezion fatta per tutte quelle altre forme di governo che si sono sperimentate finora». E però, visti gli effetti negativi prodotti - disuguaglianze,
crisi ambientale, infantilizzazione - che superano di molto quelli positivi, è forse arrivato il momento di pensare davvero a qualcosa di meglio." (da Lelio Demichelis, Rimbambiniti, "TuttoLibri", "La Stampa", 15/05/'10)

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