sabato 29 maggio 2010

Chi aveva paura del dottor Zivago


"La lunga e complicata burrasca del caso Pasternak è ormai preistoria. Dopo mezzo secolo nessuno sembra ricordarla più. Eppure imperversò con inaudita virulenza come uno scandaloso giallo letterario e politico dall’autunno 1957, anno d'uscita in Italia in sensazionale prima mondiale del Dottor Živago, al 2 giugno 1960, data delle esequie semiclandestine del poeta e romanziere russo nel cimitero di Peredelkino. Il clima ostile, che aveva circondato quegli ultimi anni tempestosi della sua vita, lo si poteva dedurre da un verso della poesia Amleto che i pochi amici, intorno al feretro, recitavano a voce altissima: «Sono solo, tutto intorno a me sprofonda nella falsità».
Perseguitato e vilipeso a Mosca, pubblicato clamorosamente a Milano dall’editore comunista Feltrinelli, premiato fra perplessità e polemiche a Stoccolma dagli accademici del Nobel, esaltato dopo la morte da un film famoso dedicato al medico suo sosia letterario, Boris Leonidovic Pasternak è stato non solo uno dei più grandi poeti russi del Novecento. E’ stato anche il contrario, col suo timbro lirico sommesso e allusivo, dell’esacerbato Esenin, dell’aggressivo Majakovskij, del provocatorio Mandelštam, suicidi di fatto i due primi, suicida d’istinto il terzo. Si diceva, prendendo troppo sul serio certi iperbolici abbandoni autobiografici, che pure Pasternak da ragazzo fosse tentato dal desiderio di sopprimersi; ma, in realtà, l’adulto Pasternak appariva tutt’altro che animato da furori autodistruttivi. Egli era piuttosto un amante della vita piena, un cultore della perfezione estetica, un erratico seduttore di donne erudite e belle.
Il che lo induceva a cercare, cautamente, più il compromesso che lo scontro con l’insidiosa realtà sovietica. Sapeva, benissimo, che c’era poco da scherzare con l’occhiuto sistema poliziesco instaurato da Lenin e portato a suprema totalità satrapica da Stalin. Non a caso Vladimir Nabokov, spregiudicato precettore di letteratura russa negli atenei americani, diffidava del poeta protetto da Stalin e, alzando il tiro, disprezzava perfino il prosatore del Dottor Živago: nel romanzo, bestseller mondiale a cavallo degli Anni Cinquanta e Sessanta, il professor Nabokov vedeva una sorta di perverso connubio fra la buona tradizione tolstoiana e la pessima pratica del «realismo socialista».
Secondo lui, Pasternak evitava di affondare il bisturi nelle viscere di una guerra civile susseguente all’invisibile «rivoluzione d’ottobre». Infieriva contro i combattenti bianchi, facendo intravedere al tempo stesso nell’estremismo rivoluzionario del comandante rosso Strelnikov, che si spostava come Trockij in treno blindato da un fronte all’altro, l’ombra di un traditore latente. Trattava poi i protagonisti principali, Živago e Lara, come due monadi acomuniste (non anticomuniste, sottolineava Nabokov) sperdute tra i flutti di una storia violenta e imprevedibile. Infine, per la loro figlia Tanja, una ex besprizòrnaja divenuta lavandaia, «rozza materia» d’ultima generazione, si preannunciava dopo la seconda guerra un futuro migliore sotto la protezione d’uno zio inatteso - il generale Evgràf Živago - fratellastro «positivo» di Jurij Živago. Il libro si chiudeva in effetti in un’atmosfera da romanzo d’appendice dai riverberi accortamente krusceviani: «Benché il sereno e la libertà attesi non fossero venuti, insieme con la vittoria, questo non aveva importanza: la libertà era nell’aria, in quegli anni, e ne costituiva l’unico contenuto storico».
Nabokov, pur esagerando, aveva colto diversi punti esteticamente e ideologicamente deboli del manoscritto trafugato, col consenso dell’autore, dalla Russia e consegnato all’editore italiano Feltrinelli. Ma, nel frastuono e nell’eco travolgente suscitata in tutto il mondo dal romanzo, dal film di David Lean, dal contestato premio Nobel, gli era sfuggito il punto forse essenziale dell’intera faccenda: il rifiuto, in epoca krusceviana, opposto dalla censura alla pubblicazione russa di un libro che s’inseriva comunque, per tanti aspetti, nel canale dei disgeli krusceviani. A Nabokov, figlio di una dinastia liberale di San Pietroburgo, dove si parlava più inglese che russo, sfuggiva l’assurda banalità di fondo delle contraddizioni sovietiche. Qui, per spiegare a me stesso l’inesplicabile, devo ricorrere a qualche indimenticabile ricordo personale.
Ero giunto a Mosca, quale corrispondente della Stampa, nel 1961, un anno dopo la morte di Pasternak. Gli strascichi dello «scandalo Živago» erano nell’aria. Rammentavano ancora l’espulsione del poeta dall’Unione degli scrittori, il divieto di recarsi a Stoccolma per il Nobel, l’impossibilità di attingere ai cospicui diritti depositati in Svizzera; citavano, in particolare, la velenosissima ingiuria lanciatagli contro da Vladimir Semiasnij, futuro capo del Kgb: «Maiale che insozza la terra dove mangia».
Un sera, in casa di amici, mi presentarono Andrej Voznesenskij, neppure trentenne, seconda figura carismatica con Evtušenko della nuova ondata poetica detta «quarta generazione». Prese a parlarmi subito, scioltamente, senza peli sulla lingua. Allorché il discorso cadde sul culto russo della poesia e quindi, inevitabilmente, sul drammatico crepuscolo di Pasternak, il giovane letterato s’incupì e disse polemico e sarcastico: «Al più grande poeta del nostro Novecento Stalin non torse neppure un capello. E’ stato l'ignorante pseudo-liberale Kruscev a condurlo alla rovina e condannarlo ad una morte prematura da crepacuore. La gratitudine di Stalin per le traduzioni russe di Pasternak dei maggiori lirici georgiani fu, a dir poco, adamantina e profonda. Eh, Stalin! In gioventù amava poetare, era un geniaccio capriccioso e per niente incolto». Oggi c’è chi rievoca una strana e improvvisa telefonata che Pasternak avrebbe ricevuto la notte del 23 maggio 1934. All’altro capo del filo la voce di Stalin. Il despota avrebbe chiesto al poeta Pasternak un’opinione sul poeta Osip Mandelštam, appena arrestato a causa di un feroce epigramma sul «montanaro del Cremlino assassino di contadini». Non s’è mai saputo davvero cosa si fossero detti i due interlocutori di quella misteriosa telefonata notturna. Di sicuro si sa che Pasternak non ha mai preso in pubblico le difese dell’amico e collega Mandelštam, morto intorno al 1938 in un gulag siberiano.
Non mi pare tuttavia semplice e corretto alzare oggi un dito accusatore contro coloro che il più lungo, il più tenebroso sistema di terrore dello scorso secolo poteva trasformare di volta in volta, o una volta sola, da vittime in famuli del carnefice. Resta però aperta la domanda: il senso di una comprensione umana, misurata, non moralistica, può bastare a dissolvere o ad assolvere l’enigma delle banalità, delle casualità, delle assurdità di quelle macchine inutili ma criminali che furono i sistemi comunisti? Può bastare a farci comprendere perché mai Kruscev, che nel 1962 concederà l’imprimatur al primo Solženicyn, lasciava che nel 1958 i cerberi del regime facessero a pezzi l’inerme e assai meno pericoloso Pasternak? Il dottor Živago, che culminava e terminava in un florilegio di liriche, era una cavalcata mesta, cauta, riflessiva e poetica attraverso una sessantina d’anni di nota storia russa; non vi si rivelava in sostanza nulla che i russi già non conoscessero. Invece, con Una giornata di Ivan Denisovic, la giornata di un contadino deportato, per la prima volta la letteratura sovietica apriva le sue porte blindate alla verità sull’arcipelago di schiavitù e d’agonia dei gulag. Insomma: non sapremo mai perché uno stesso regime poliziesco, controllato da un medesimo dittatore, aveva sbarrato l’accesso alle librerie al malinconico Živago per lasciarlo libero, dopo un paio d'anni, all’esplosivo Denisovic. Probabilmente non lo sapeva neanche Kruscev." (da Enzo Bettiza, Chi aveva paura del dottor Zivago, "TuttoLibri", "La Stampa", 29/05/'10)

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