sabato 22 maggio 2010

Diario di lettura: Bernardo Bertolucci


"L'azzurro del cielo oggi fatica ad affacciarsi dalle ampie vetrate del salotto romano con pareti arancione di Bernardo Bertolucci. In questo maggio piovoso si addensa una nuvolaglia scura. Ma anche in un'altra stanza di circa quarant'anni fa (era il 1972) il cielo non appariva: «Lui le chiede di non aprire le finestre, di tenere sbarrate le porte, di stare chiusi, senza un filo d'aria: non voleva si disperdesse l'odore dei loro corpi post coito, voleva conservare come in una teca il sentore del loro amplesso. Giro questa scena, con frasi come queste, poi ci ripenso e la taglio - ricorda il cineasta -. Mi capita di assistere alla prima di L'impero dei sensi, di quattro anni successivo al film con Marlon Brando, e di scoprire che i protagonisti usano espressioni identiche a quelle eliminate da L'ultimo tango».
Come mai? Una delle pellicole italiane di maggior successo di tutti i tempi, L'ultimo tango a Parigi, e il parto del giapponese Nagisa Oshima,
sono separate da continenti e da storie diverse. Eppure, all'origine di entrambe, come poi si sono reciprocamente chiariti Oshima e Bertolucci, c'è l'attrazione per un piccolo libro-cult dell'erotismo, per un monumento al sesso più hard e violento: L'azzurro del cielo di Georges Bataille, surrealista amato da Roland Barthes. Una pellicola, un libro, un destino: non è questa l'unica tappa dello stretto intreccio tra cinema e letteratura per il regista italiano più riverito e osannato (però nei suoi scaffali non fanno bella mostra gli Oscar conquistati da L'ultimo imperatore). Dalla cellulosa alla celluloide senza soluzione di continuità, per Bertolucci lo spettacolo si nutre di storie e racconti («cercando di non essere mai letterario, anche perché quasi tutto il cinema italiano, compresi i miei primi film, ha il punto debole nei dialoghi spesso improbabili e avulsi dalla realtà»).
Ora il cineasta di Parma, impegnato nella durissima battaglia per la riabilitazione, dopo ben quattro interventi alla colonna vertebrale, ricostruisce in La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi interventi (1962-2010), appena uscito da Garzanti, la sua autobiografia intellettuale che si legge anche come il romanzo di una vita dietro la cinepresa. Gli esordi prendono avvio, però, con una voce dissonante rispetto alle successive e ben più clamorose imprese: con una raccolta di versi (che otterrà il premio Viareggio) sulle orme di papà Attilio, gran poeta «laureato».
«In casa si ripeteva spesso questa strana parola “poeta”. La poesia per me non era legata alla scuola. Ma alla mia famiglia, al podere, il cui ricordo è stato fondamentale per la ricostruzione di Novecento, nella frazione di Baccanelli. La prima cosa che ho divorato sono state le strofe di mio padre, come queste per mia madre: “Tu sei come la rosa bianca in fondo al giardino ...". La domenica mattina si andava a Parma dove mio padre aveva fondato il cineclub e mi dilettavo con Eisenstein o con John Ford o con le battaglie tra americani e musi gialli, come si diceva allora».
Bertolucci con i compagni di scuola, che capitanava nelle scorribande nei campi, condivideva Salgari ma non certamente Emily Dickinson, Eliot e Dylan Thomas. «E nemmeno Il neo malthusianesimo pratico che avevo ripescato nel solaio della casa di campagna, pieno di fotografie scientifiche sull'accoppiamento e sul corpo umano e che, proprio per il fatto che mi era stato nascosto, trasformai in una lettura porno».
La sua università? «Sono state le cene nelle trattorie romane. Non scherzo. Pasolini, Moravia e la Morante e, dopo la sua separazione da Alberto, Dacia Maraini, con le loro chiacchiere serali. Si discuteva di tutto, anche a rischio di rimetterci la solidarietà. Pasolini, per esempio, in un suo articolo, espresse mille dubbi su La Storia di Elsa. Lei per questo troncò ogni legame con lui.
Quando la incontrai al funerale di Pier Paolo mi disse: “Sono disperata. Ma, anche Adesso, se lo rincontrassi, non potrei rivolgergli la parola”».
Fascinoso, ambiguo, arruffato secondo i dettami della moda del tempo, tormentato dall'ipoteca paterna che lo rende viaggiatore instancabile nel perimetro della psicoanalisi alla Woody Allen, Bertolucci si trasferisce a Parigi. Qui i suoi primi film ottengono notevoli riconoscimenti. «Per un periodo mi sono sentito più francese che italiano. A Parigi ho traslocato con sottobraccio lo “scandaloso” Henry Miller e pure con Jean Cocteau, autore di Les enfants terribles, da cui molti anni dopo trarrò The Dreamers. Ma ecco i nomi dei protagonisti di Prima della rivoluzione, che mette in scena il disagio di un ventenne borghese, Fabrizio, Gina interpretata da Adriana Asti e Clelia. Chi le ricordano?».
Sono gli stessi nomi dei personaggi di La Certosa di Parma. «Non potevo fare a meno di rendere omaggio a uno dei miei autori preferiti, Stendhal. Come non potevo rinunciare negli anni Sessanta-Settanta a rivolgere nei miei film un hommage a un altro idolo, Godard. Con Romolo Valli che, spiritoso, mi prendeva in giro: “Contieniti. Un hommage va bene ma due hommages sono un plage”. Ero così influenzato da Godard che, quando a Londra lo incontro per la prima volta, accade l'impensabile: per l'emozione gli vomito addosso. Così ci siamo ritrovati insieme alla toilette a liberarci entrambi dei miei residui organici e siamo diventati molto amici. Non senza frizioni. Nel '68 a tavola con lui commento alcuni slogan studenteschi: “la cultura è serva del sistema”, “gli scrittori sono al soldo del padrone”. Il mio giudizio è netto: “sono dei fascisti”. Lui si alza e mi abbandona indignato. Quando esco dal locale lo scorgo seminascosto dietro un taxi: “Avresti potuto corrermi dietro prima”, mi dice conciliante».
Altri rapporti con gli scrittori? «Splendidi con Moravia dal cui romanzo ho tratto l'omonimo film il Conformista. Quando gli confesso contrito “Ti ho tradito” lui commenta “Dovevi farlo”. Ho passato invece circa un mese a Sabaudia d'inverno con Ian McEwan per scrivere un soggetto da 1934 di Moravia. Pensavamo a un film sulla dittatura con un intellettuale che si innamora di due gemelle. Ma la sinergia non darà buoni frutti. Capita. Però non perdo il gusto per la letteratura trasposta sullo schermo: da L'Assedio, tratto da un racconto di James Lasdun, a Il tè nel deserto che mi ha dato la possibilità di incontrare non solo Paul Bowles che nemmeno a Tangeri dimenticava di essere un vero dandy ma anche tutta la band dei beatnik, da Ginsberg a Kerouac a Orlowsky».
Insomma dei libri lei parla in termini di attrazioni spesso fatali: sedotto e ammaliato proprio come dai suoi stessi attori. Tra questi ultimi, a chi la palma del maggiore appeal? «A Marlon Brando, fin dalla prima volta che l'ho incontrato nel 1971, al Raphael a Parigi. Mentre gli propongo il film e gli racconto la trama lui è distratto, non mi fissa e gira altrove lo sguardo. “Perché non mi guardi negli occhi?”, lo sollecito. “Volevo vedere quando smetti di battere nervosamente con il piede”, mi risponde. Era imprevedibile. Per evitare la sensazione di artificio nella sua recitazione era pronto a qualsiasi cosa: non imparava mai a memoria i dialoghi ma se li faceva trascrivere su un gobbo. Memorizzava una parola e da quella ricostruiva le battute».
Ultimi film e ultimi libri? Baarìa di Tornatore, così di frequente avvicinato al suo Novecento? «Non l'ho ancora visto. Lo farò. Ho apprezzato Il divo di Sorrentino e Gomorra di Garrone e anche L'uomo che verrà di Giorgio Diritti, dedicato alla strage di Marzabotto. In generale oggi ho molte riserve sul nostro cinema, penso che stia perdendo colpi in termini di ambizioni, di desiderio di essere il luogo delle proiezioni più impossibili. Quanto alle letture sono tornato, di recente, al primo amore. Oggi sul comodino ci sono le poesie di Patrizia Cavalli»." (da Mirella Serri, 'La mia laurea? In trattoria con Moravia, "TuttoLibri", "la Stampa", 22/05/'10))

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