sabato 18 dicembre 2010

Mosche d'inverno


"Nella più enigmatica delle Operette morali, una notte Federico Ruysch - nel Seicento passato alla storia per aver preservato i cadaveri dalla putrefazione
- riceve la visita delle sue mummie. È allora che nella penombra dello studiolo si ode intonare questa «canzoncina»: «Che fummo? / Che fu quel punto acerbo / Che di vita ebbe nome? / Cosa arcana e stupenda / Oggi è la vita al pensier nostro, e tale / Qual de’ vivi al pensiero / L’ignota morte appar». Nella modernità (o
piuttosto postmodernità) letteraria - ha spiegato un maestro come Luigi Baldacci - esiste, diremo così, una «funzione Ruysch»: una linea segreta di autori che, proprio come le ilarotragiche mummie leopardiane, guardano «la vita dal punto di vista della morte».
È casuale ma proprio per questo curiosa (e forse sintomatica, giunti come siamo al capolinea degli Anni Zero) la recrudescenza editoriale di libri ascrivibili a questa Stimmung: i quali tutti sintetizzano nel breve spazio della morte, nel punto acerbo che segna il passaggio da un mondo all’altro, il senso sfuggente, appunto enigmatico, delle nostre vite - così brevi e svanenti.
Tanto Il libro dei filosofi morti dell’arguto poligrafo inglese Simon Critchley, tradotto l’anno scorso da Garzanti, che le mirabili Morti favolose degli antichi di un giovane filologo di Prato, Dino Baldi (da poco uscite nella «Compagnia extra» Quodlibet, che continua a non sbagliare un colpo), hanno alle spalle una genealogia che, partendo dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio e passando per le Vite brevi di uomini eminenti di un contemporaneo inglese di Ruysch, John Aubrey (libro delizioso, negli Anni Settanta tradotto da J. Rodolfo Wilcock per Adelphi), ha un punto di snodo nelle magnifiche Vite immaginarie del poligrafo fin de siècle Marcel Schwob. Una linea fatta di erudizione compiaciuta e, insieme, gusto dell’equivoco affettivo: dove la brevitas icastica, che livella figure impari per rango biografico e complessità di pensiero, ci regala l'ombra di un sorriso nelle pieghe di una commozione autentica.
Nulla so di Eugenio Baroncelli, se non che è nato a Ravenna nel 1944: ma due anni fa il suo Libro di candele (Sellerio) è stato la migliore rilettura, nella nostra lingua, di questa tradizione. Ora gli tiene dietro Mosche d’inverno (Sellerio), già dal titolo emblematico di questa cultura raffinata ma pacata: la brevità peritosa, la ventosa provvisorietà della vita trova un paragone che, per l'icasticità e insieme l'allusività culturale, fa venire in mente l’Ungaretti dei soldati che stanno «come d’autunno / sugli alberi / le foglie».
Le 271 morti sono trascelte nella storia di tutte le discipline e tutte le culture, e vanno dalle più celebri e proverbiali (da Giovanna d’Arco a Mishima Yukio, da Évariste Galois a Ippolito Nievo, da Walter Benjamin a Primo Levi) a quelle più oscure e leggendarie: che all'autore consentono gli accostamenti, le «rime» più sorprendenti (Attila come Jimi Hendrix, Poppea come Michael Jackson, Basilio I il Macedone come Manolete) ma anche di accludere al suo repertorio delle figure di ignoti - conterranei e, s'intuisce, amici e parenti - ai quali sono lasciate le parole, forse, più personali (di una certa Scilla si dice per esempio: «Vivi gli uomini non le piacciono. Aspetta che siano morti, e allora sì se ne innamora perdutamente. Come va il cuore, chiede? Già. Per fare breccia nel suo bisognerebbe che si fermasse il mio»).
Del campano Franco Arminio, di Baroncelli sedici anni più giovane, so invece forse più del necessario. Anche lui è un poligrafo, certo; e spero che non gli spiaccia se dico che le 128 prose brevi e brevissime, ora raccolte in Cartoline dai morti (Nottetempo), sono il suo capolavoro.
Se tutti i morti di Baroncelli hanno un nome e cognome, qui sono tutti anonimi: ma a loro stessi - proprio come in Leopardi - viene data la parola. Facile pensare all’Antologia di Spoon River, ma il tono di Arminio è tutto un altro.
Insieme ai nomi viene bandita ogni aneddotica: dalla loro vita, di cui poco o nulla sappiamo, ma anche dalla loro morte sempre insignificante.
Di tutti si potrebbe dire quello che dice uno di loro: «Io sono morto di vecchiaia, anche se non ero tanto vecchio, avevo cinquantanove anni». La morte - anziché restituire una verità, un qualche senso all'esistenza - non fa altro che sancire, siglandolo, quel che, pure, materialmente interrompe: «Quel vago fastidio che era sempre stato il mondo, quel vago fastidio di essere al mondo è finito all'improvviso».
Perché quel che viene infine ribadito è che - come dice Baroncelli - «i morti siamo noi». Siamo noi, la nostra vita acerba, a essere evocati da queste evocazioni, queste voci senza corpo: «Però ch’esser beato / Nega ai mortali e nega a’ morti il fato»." (da Andrea Cortellessa, I morti siamo noi, da Attila a Jimi Hendrix, "TuttoLibri", "La stampa", 18/12/'10)

Nessun commento: