martedì 14 dicembre 2010

Poesia che mi guardi


"È il 2 dicembre 1938, Milano. Una giovane donna esce di casa presto, come fa tutte le mattine, per andare a insegnare. Ma se ne va dalla scuola in anticipo, due ore prima del previsto. A casa tornerà soltanto il giorno dopo, nell'agonia dei barbiturici ingeriti, per morirvi. Ha solo ventisei anni e lascia in eredità un piccolo e nascosto patrimonio di fotografie, diari, lettere e soprattutto poesie. I genitori ne fanno stampare un'edizione privata, da distribuire agli amici in ricordo della figlia così atrocemente perduta. Qualcuno, però, di una cerchia meno ristretta, più professionale e colta, si accorge di quelle poesie orfane, persino Eugenio Montale ne scrive. Ma quando negli anni 80, dopo un'intensa archeologia femminile e femminista che fruga nei cassetti dimenticati e negli angoli in ombra della letteratura, il suo nome viene riproposto con forza, Antonia Pozzi smette di essere semplicemente una poetessa e diventa una leggenda, una santa del martirio femminile.
Nel 1965 una donna di 34 anni compie la prima di una serie di coatte emigrazioni verso un paese oscuro, l'ospedale psichiatrico Paolo Pini, in termini più schietti, il manicomio di Milano. Non è una sconosciuta: ha pubblicato dei versi che molti hanno apprezzato e lodato. Ma nella sua povera casa di Ripa di Porta Ticinese il marito non può tenerla quando, stremata dalle difficoltà e dalla miseria e dalla bizzarria del suo carattere, dà in escandescenze. Le sue figlie, due al momento, saranno affidate ad altri. Tra un ricovero e l'altro continuerà a fare figli – altre due bambine – e a scrivere, ma la sua poesia è come contagiata e costretta ai margini dalla sua stessa infelicità. Poi, d'improvviso, la riscoperta: mentre la lunga disattenzione culturale e sociale che l'ha colpita e umiliata si trasforma in una famelica attenzione, alla fine del secolo passato e all'inizio del nuovo Merini smette di essere semplicemente una poetessa per diventare un personaggio.
Inoltrandomi di seguito, per pura coincidenza di pubblicazione, nel volume di mille pagine che Mondadori ha dedicato all'opera di Alda Merini, Il suono dell'ombra, e nell'ampia raccolta che l'editore Luca Sossella ha dedicato ai versi, agli scritti e alle foto di Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, mi sono sentita trasportare in una lì per lì indecifrabile, un po' urticante medesima atmosfera. Un'atmosfera nebbiosa o decisamente tenebrosa che passa da un libro all'altro, pur nelle evidenti differenze di stile e di ispirazione letteraria delle due autrici. Quasi che la beatificazione postuma dell'una e la devozione tardiva per l'altra pescassero in una stessa fonte, in uno stesso umore o in una stessa iconografia del Novecento femminile italiano. Come del resto fa un altro piccolo e mirabile libro, da poco pubblicato, di Anna Maria Ortese, Mistero doloroso (Adelphi). Incastrandosi in una uguale costellazione, in un cortocircuito che si stabilisce tra la vita e l'opera e s'incarna nella lingua, queste tre opere sembrano indicare una figura, o addirittura metterla a nudo: la donna di dolori. Una precisa icona femminile della sofferenza: nel rifiuto, nella marginalità, nell'incomprensione.
«Il mio disordine. È in questo: che ogni cosa per me è una ferita», scrive nel suo diario Antonia Pozzi, e più avanti: «Tortura è stata la mia maternità immaginaria». La sua poesia registra «i sogni sepolti / del mondo, l'oppressa / nostalgia della luce»; e in una lettera al grande amore proibito della sua breve vita, Antonio Maria Cervi, il professore conosciuto sui banchi del liceo, stringe precocemente i suoi nodi: «È terribile essere una donna, ed avere diciassette anni». Anche nell'onda diluviale di parole che costituisce il corpus poetico di Alda Merini, l'espressione del dolore di essere nati, o piuttosto nate, è costante: striscia sotto il trasporto amoroso, si annida nel piacere della carne, s'inerpica per la passione e lo stupore del mondo, sottende la relazione con Dio. In un bellissimo verso giovanile lo chiama così: «il linciaggio delle ore». A guardare nella loro vita, quella dalla quieta apparenza della benestante Antonia e quella di tumulti e pene materiali di Alda, ragioni di dolore ci sono e molto concrete. In casa Pozzi è la protettività perbenista e autoritaria che un padre dal dominio feudale, e del tutto affine alla protervia maschile del regime fascista in cui è perfettamente inserito, esercita su una ragazzina troppo sensibile, non solo con divieti ma con minacce e allusioni di ritorsioni verso l'uomo di cui è innamorata; ma anche una certa diffidenza verso il suo talento della cerchia di intellettuali colti di cui fa parte e del suo maestro, il filosofo Antonio Banfi. Il suo talento, le dicono, fa bene a tenerlo a freno, a non fidarsene. Era, come la ricordò Eugenio Montale, una «anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non poté reggere al peso della vita» o piuttosto una donna, una delle tante, maltrattata dal suo tempo e dalle sue circostanze e poco disponibile alla rassegnazione?
Quanto alla vita di Alda Merini basta la tremenda sequenza dei suoi ricoveri coatti e quello che lei ne ha scritto in L'altra verità per levare al suo dolore qualsiasi profumo metafisico, e soprattutto qualsiasi legame con un'essenza femminile. Si trattava piuttosto di una condizione, la condizione molto concreta di tante, tantissime donne italiane non privilegiate e non sottomesse nel corso della prima metà del Novecento, una condizione che Anna Maria Ortese riassunse nella protagonista dell'Iguana, la misera creatura «mezzo bestia e mezzo umana» attorno alla quale costruisce la sua fiaba nera. Ma credo che se all'inizio fu una condizione poi tracimò nell'enfasi e, nel culto dei fedeli, divenne una retorica. E se si vuole trovarne un simbolo, c'è una terribile foto dell'album dei ricordi letterari italiani, una fotografia di Alda Merini in cui il suo corpo di vecchia e malata veniva offerto a torso nudo agli occhi di tutti, come se solo l'esibizionismo della sofferenza fosse un esercizio di libertà e di valore e non potesse esserlo, invece, il pudore.
Lasciando sprezzantemente alla letteratura rosa la consolazione degli happy end e un filo di speranza, questa nomenclatura del dolore ha segnato buona parte del Novecento femminile, dalla Aleramo alla De Cespedes o alla grande Morante. Difficile trovarvi non solo l'arguzia della prosa di Dorothy Parker o le geometrie decantate della poesia di Marianne Moore o, più tardi, l'humour noir di Muriel Spark. Ma non è detto che dovesse andare proprio così, basta pensare a due piccoli capolavori della fine secolo ottocentesca, La virtù di Checchina di Matilde Serao e soprattutto Un matrimonio in provincia della Marchesa Colombi, cioè Maria Antonietta Torriani, prima maestra e poi giornalista, tutt'altro che insensibile ai problemi della dolente condizione delle donne italiane: due romanzi in cui una quieta ironia spodesta il lamento e smaschera con grazia inesorabile il complicato e contraddittorio chiaroscuro della realtà. L'ottimismo tardo-ottocentesco di queste due energiche emancipate affonderà invece nel ventesimo secolo in un nuovo mistero doloroso femminile e l'autorappresentazione prenderà soprattutto gli aspetti di una irrimediabile via crucis, complice la dura realtà della giovane modernità italiana quanto un'antica radicata italica tradizione donnesca del compianto." (da Elisabetta Rasy, Sofferenti muse della poesia, "Il Sole 24 Ore", 12/12/'10)

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