lunedì 10 gennaio 2011

Niente che mi riguardi


"Janice Galloway ha un talento per il più scivoloso degli artifici narrativi, quello su cui spesso gli scrittori inciampano: la similitudine. Il lettore ne trae piacere solo se è inconsueta e tuttavia possiede la forza dell'evidenza; altrimenti, alla prima similitudine scontata – o, se è un lettore paziente, alla seconda - abbandona il libro per sopraggiunto fastidio. La Galloway mette sul piatto una quantità abnorme e spericolata di similitudini, e non ne sbaglia una. È senza dubbio dotata di un estro da fuoriclasse per gli accostamenti e la selezione dei dettagli: le riescono privi di posa, naturali, fantasiosi.
Niente che mi riguardi (Gaffi) è il racconto di un'infanzia scozzese, quella della scrittrice. Dalla nascita ai dodici anni, tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, a Saltcoats, cittadina di mare nei pressi di Glasgow. Il memoir, scritto ben dopo la morte degli altri protagonisti (padre, madre e sorella della Galloway), ha tutti i canoni di certa lettura lacrimevole che solitamente evitiamo: partendo da una mamma che scambia Janice per la menopausa, e negli anni non manca di farle notare la sciagura in cui nascendo l'ha fatta precipitare («Vorrei non averti mai avuta»), alla bambina toccano in sorte un papà alcolista, fallito e violento, una sorella maggiore sgualdrineggiante e rabbiosa, paesaggi umidi, freddi, tempestosi, dove mai nulla si asciuga. Il talento della Galloway trasforma questi luoghi comuni della letteratura più stucchevole col tocco di una memoria né rancorosa né piagnucolante, tramite lo sguardo attonito di una bambina introversa e, sin da piccola, suprema osservatrice di particolari gustosi, specifici eppure universali. Lo sguardo di chi fa l'apprendistato da scrittrice.
Leggiamo le sue pagine e ci sentiamo come se tutti avessimo vissuto con una mamma dalle nocche arrossate perché non fa che lavare panni in gelidi lavatoi, tra puzza di alghe, anemoni di mare imputriditi sulla spiaggia, macchie di minestrina sul maglione spinoso, assenza di nonni maschi perché «morti giù in miniera o uccisi dalla polvere di carbone, dal bere o annegati in mare». Niente che mi riguardi racconta un mondo di casette di legno, paesaggi marini e dolori domestici. Un mondo di caramelle e denti cariati, prati in fiore e ragazze dai sogni falliti («Davano l'idea che la Scozia fosse il posto in cui quelle cose finivano male»), sabbia sollevata dal vento e donne adulte che raccomandano alle bambine: «Non sposarti e non fare figli. Ti lega. Ti rovina la vita». Descrive un universo in cui gli uomini non sanno fare altro che bere, procurare lividi, ammalarsi di qualcosa e morire lasciando case piene di donne, bambini, delusioni.
La vita di Janice è descritta con il tono straniato e a tratti brioso che ci ha tanto fatto amare Le ceneri di Angela di Frank McCourt. Con l'aggiunta di un lirismo che fiorisce spontaneo dal fraseggio secco, veloce, scattante, e che mostra, tramite l'adesione allo sguardo elementare dei bambini, come si possa leggere in forma di gioco e avventura mozzafiato una realtà che a noi pare negativa o addirittura straziante. Avvince il senso di mistero con cui la bambina (e l'adulta che narra la bambina) osserva la vita, compiendo un'indagine sul mondo dei grandi. Mezze frasi, smorfie, grida improvvise: tutto è oscuro e fonte di equivoci. Magistrale la descrizione di quando Janice (e noi con lei), a dieci anni, tramite i commenti a un suo disegno, scopre che la madre non è la bellezza che lei crede. «È tua nonna?», le chiede la maestra. «Sua mamma è decrepita. Io l'ho vista», infierisce una compagna. Eppure Janice avrebbe avuto tutte le informazioni necessarie per saperlo già sola: capelli bianchi, rughe, mani ruvide con «un disegno di ferite cicatrizzate simile alla scia di una chiocciola».
Ottimo il lavoro del traduttore nella resa di un libro molto ricco di nomi, riferimenti, canzoni, conchiglie, insetti, dolciumi ..." (da Camilla Baresani, Infanzia scozzese di scrittrice introversa, "Il Sole 24 Ore Domenica", 09/01/'11)

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