martedì 4 gennaio 2011

L'immagine insepolta


"Aby Warburgdedicò gli ultimi anni di vita - tra il 1925 e il 1929 - a un sogno: ordinare un monumentale atlante in cui le immagini - dall’antichità al Novecento - potessero liberamente dialogare tra loro, suggerendo inattese collisioni figurali. Da quel desiderio nacque Mnemosyne (Aragno), un progetto destinato a rimanere incompiuto: un arsenale nel quale le icone si contagiano a vicenda. Corpi e gesti transitano dalla classicità alla contemporaneità, cancellando ogni antitesi tra le epoche. Si infrangono gerarchie; si spezza la logica dello sviluppo cronologico lineare. Grazie a un montaggio pre-cinematografico, momenti del passato e del presente vengono tessuti insieme. Archeologia e arte del Rinascimento convivono all’interno delle tavole warburghiane. Episodi eterogenei sono disposti orizzontalmente, in una fitta rete di rimandi. Imponente edificio, Mnemosyne si dà come «storia di fantasmi per adulti». Costellazione, arena: campo dove si rendono manifesti attriti, conflitti. Vasto repertorio accademico pensato come un’opera aperta, il cui inventore, per dirla con Karl Kraus, sa rendere enigmatica ogni dottrina.
Da questa straordinaria avventura intellettuale muove Georges Didi- Huberman in una mostra di notevole rilievo critico-teorico, intitolata appunto Atlas, ora al Reina Sofia di Madrid (fino al 28 marzo). Una cartografia eccentrica: quasi un’esposizione-saggio, forse difficile da seguire nelle sue tante suggestioni, a tratti piuttosto criptica, eppure estremamente seduttiva nello svelare scorci inesplorati.
Sulle orme di Warburg - cui ha dedicato una monografia (L’immagine insepolta, Bollati Boringhieri) -, Didi-Huberman disegna una complessa topologia della modernità in cui accosta eventi spesso poco congruenti. Si attraversano le sale del Reina Sofia, e ci si chiede cosa abbiano in comune un busto romano di Atlante e un assemblage di Warburg, le incisioni di Goya e i ritratti di August Sander, gli schizzi di Jacob Burckhardt e il taccuino occupato da dettagli di statue gotiche di Rosemarie Trockel, gli album del Bauhaus e i collage di El Lissitzky, i pedinamenti di Dziga Vertov e quelli di Guy Debord, le cronache di Robert Rauschenberg e il «planetario» di Oyvind Fahlström, le riprese naturalistiche di Karl Blossfeldt e quelle di Paul Klee, i meteoriti di Sigmar Polke e le esplosioni solari di Charles Ross, le rovine di John Heartfield e le foto belliche di Warburg. All’apparenza, poco.
E, tuttavia, esistono assonanze invisibili, corrispondenze celate: possibili confronti segreti. Da archeologo del sapere attento soprattutto alle discontinuità e agli intervalli, Didi-Huberman propone un atlante che, analogamente all’enciclopedia di cui ha parlato Italo Calvino in una delle Lezioni americane, non riconduce la conoscenza del mondo in un sistema fermo, ma indica sentieri provvisori: cattura schegge di un’unità frantumata. Assembla un archivio nel quale compie una «presentazione sinottica». Abile nel portarsi al di là dei consueti recinti disciplinari, sceglie non solo dipinti e sculture, ma anche fotografie, film, giornali, annotazioni, lettere. Sperimentando una metodologia basata sull’intreccio tra linguaggi, elabora un catalogo che rivela un atteggiamento tassonomico, sommatorio. Inoltre, situa sul medesimo piano temporalità lontane: ricordo e attualità. Non segue una narrazione progressiva. Delinea una geografia di dissonanze, fondata non sulle similitudini, ma sulle connessioni tra le forme: ritiene che solo lo sfioramento tra icone intimamente vicine (anche se di epoche lontane) possa far sorgere imprevisti significati. Assistiamo alla migrazione di motivi, di ipotesi, di composizioni da un artista a un altro, a un altro
ancora. Dinanzi a noi, ecco i segmenti di una «memoria ansiosa trasformata in conoscenza». Un percorso fatto di opere in cui si ridefiniscono radicalmente «l’ordine delle cose», «l’ordine dei luoghi», «l’ordine del tempo». Ci imbattiamo in oggetti dissezionati, in spazialità destrutturate, in temporalità decostruite. Ad accomunare le creazioni in mostra è il bisogno di frantumare ogni omogeneità rappresentativa: si disarticola il mosaico del visibile in tanti fotogrammi. Si violano i punti di vista unici; si incrinano le prospettive uniche; si sgretola il mito nietzschiano del «grande stile». Si celebra la perdita del centro: la molteplicità, la varietà. Si impone una ossessiva serialità: il gusto per la ripetizione delle medesime figure. Le scene sono replicate a oltranza. Alcuni esempi: gli esercizi di anatomia di Max Ernst e le torri industriali di Berndt & Hilla Becher; le confessioni di Henri Michaux, di Walter Benjamin e di Dieter Roth; le cartoline di Warburg e di Sol LeWitt, di Gordon Matta-Clark e di Erwin Blumenfeld, di Hans Haacke e di Matt Mullican. Un impero dei segni governato dalla tecnica del montaggio, inteso come artificio per avvicinare più inquadrature, in modo da determinare esiti difficili da calcolare.
Recuperando la lezione di Warburg - una sorta di Freud della storia dell’arte -, Didi-Huberman collega tracce, fa intuire parentele: svela l’inconscio delle immagini. Si comporta come lo straccivendolo amato da Benjamin. Che, con lenta sapienza, raccoglie minuzie e reliquie, conferendo spessore a tante rimozioni. Per lui, il tempo non si srotola come un filo: è una corda sfilacciata in «matasse che pendono come trecce sciolte»." (da Vincenzo Trione, Mappe per la memoria, "Corriere della Sera", 03/01/'11)

Nessun commento: