martedì 15 giugno 2010

Il continente interiore


"Esistono parole che nel tempo diventano opache o per consumo o per eccesso di significati e la vaghezza semantica le rende inutilizzabili. Tra queste, almeno per me, le parole «spiritualità», «interiorità» e altre analoghe che tendo a relegare in una sfera un po’ morbida e indefinita. L'uomo è sempre fuori di sé, presso il mondo e presso gli altri, mentre interiorità mi rimanda piuttosto a «interiora» o
a biancheria intima.
Anche per un credente la famosa immagine divina dentro di lui rischia di restare come la Bella Addormentata se non è risvegliata dal bacio del Principe, cioè dalla Rivelazione (la similitudine è del teologo riformato André Gounelle). Nella tradizione cattolica, poi, troppo spesso si è abusato della spiritualità per legittimare, nel migliore dei casi platonicamente e nel peggiore opportunisticamente, un distacco dal mondo che non solo tradisce lo spirito vetero testamentario e l'incarnazione, ma legittima anche la sottomissione dei più deboli, quelli che più il Nazareno ha amato.
Eppure sono parole importanti, e nella nostra cultura hanno una storia che precede la nascita del cristianesimo e di Agostino e della mistica. Distinguono la dignitas hominis. E ancor oggi possono recuperare freschezza di contenuti purché si riesca a balzare oltre il narcisismo imperante. Risalendo alla cosa significata, infatti, l'interiorità non è solo il luogo in cui sfrucugliare per cercare il proprio più autentico «io» («Che cosa succede se cerchi il tuo vero io e scopri che è uno stronzo?» Antonio Albanese dixit) o da raggiungere sfogliando se stessi come una cipolla. Può essere piuttosto quello spazio virtuale in cui dare forma e fine, facendola diventare cosmo, alla dissipata molteplicità delle nostre esperienze, se ancora riusciamo a farne in un mondo«ipertrofico di gesti e povero di realtà».
Uno spazio in cui riflettere facendo germogliare le intuizioni suscitate dalla luminosa superficie del reale e percepire con gli occhi della mente il volto nascosto delle cose: uno spazio dove contano più le ragioni del cuore che quelle della ragione. Per chi crede, uno spazio in cui far risuonare quella «voce di silenzio sottile» che nella vicenda di Elia è la voce di Dio. Sempre ricordando che, come diceva J. - P. Vernant, «Perché ci sia veramente un “dentro”, bisogna che possa aprirsi su un “fuori”, per accoglierlo in sé».
Vernant, come molti altri in un caleidoscopio di rimandi che ai più vecchi può ricordare la fantasmagoria combinatoria dell’ingiustamente dimenticato Mario Apollonio, è citato da Carlo Ossola ne Il continente interiore (Marsilio), che raccoglie, riorganizzandole in una struttura improntataa quel gusto barocco che l'autore tanto ben conosce, 52 stazioni sapienziali pubblicate nel supplemento domenicale dell’Avvenire. Significativa già la copertina, dove l'abbazia a cielo aperto di San Galgano traduce in immagine le parole di Vernant: la spiritualità non è chiusura ma apertura al cielo e al mondo, l'interiorità può definirsi solo in rapporto all'esteriorità, così come l'identità si definisce solo in rapporto all'alterità (e che altro significa
la dottrina della Trinità se non porre l'alterità in Dio stesso?).
Occorre dire che ci vuole coraggio intellettuale a scrivere un libro così contropelo allo spirito del tempo, anche per l'alto livello della scrittura, limpida e profonda come il suo oggetto (gli ignari librai della Feltrinelli in cui l'ho acquistato avevano inconsapevolmente visto giusto, collocandolo nel settore di narrativa ...).
Per contestualizzare la lettura di pagine così storiograficamente stratificate e ricche di partecipazione affettiva e di intelligenza religiosa e letteraria, propongo un esperimento: accompagnarla con la visione di Videocracy di Erik Gandini (Fandango). Lo stridore del contrasto tra ciò che siamo diventati e ciò che potremmo essere apre una falla di sgomento simile a quella che deve essersi aperta nel cuore di Adamo ed Eva al momento della cacciata dall’Eden.
Non per Ossola, uomo di fede autentica e di sguardo fermo, che contempla «l'indignitas hominis» sapendo «prendere su di sé - senza rigettarlo su altri - il male che ci attraversa». E, da cattolico avvertito, sa che non c'è visione interiore senza apocalisse, cioè senza unavisione ultima (e cita in proposito
la splendida pagina calviniana: «Anche l'ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l'ora, l'attimo in cui in ogni città c’è la Città»).
Prendendo spunto di volta in volta da libri e da personaggi di libri, da luoghi e autori, mistici e poeti, credenti e atei, Ossola coglie sempre un’eccedenza di senso in tutto ciò che vede perché lo guarda alla luce del senza tempo che tange il cerchio del tempo. L'interiorità è allora un modo di guardare?
Se per Baudrillard la versione contemporanea della volontà di potenza è la suprema volontà di insignificanza, per Ossola, come per Benjamin ma anche per la Woolf, contano invece i varchi attraverso cui passano le epifanie, si accendono i momenti d'essere.
E traduce questi attimi di consapevolezza in sostanza «conviviale» e «ospitale», come, per vie diverse, Illich e Theobald qualificano lo stile cristiano. E l'interiorità si proietta nell’esteriorità, diventa un modo di abitare il mondo.
Con gli allievi di una delle scuole più periferiche e cosmopolite di Parigi Ossola va per una settimana di studio nello spartano convento di Sainte-Marie de la Tourette, progettato e costruito da Le Corbusier e da Xenakis. E scopre che quelle celle di «sobrietà poverissima (...) per ragazzi abituati ad abitare in alveari con spazi di continuo spartiti, intersecati da altri orari e persone, quello fu un dono di dignità che poneva di fronte alla preziosa singolarità di ciascuno». E conclude: «Il luogo dell’anima è questo»." (da Gianandrea Piccioli, Ascolto il tuo silenzio, "Tuttolibri", "La Stampa", 12/06/'10)

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