martedì 8 giugno 2010

37° 2 al mattino


"Philippe Djian ha ascoltato, adolescente, Kerouac. Un amico gli aveva prestato il nastro; il "poeta jazz" leggeva Mexico City Blues, un pianoforte di sottofondo – Djian fu affascinato da quella letteratura trasformata in mantra. Ancora oggi, si considera un erede della Beat Generation; in giacca di cuoio, ha praticato forti amicizie, molti viaggi e qualche eccesso da "Generazione perduta" – fumo, alcol, notti bianche, ragazze, sognando l´America; e continua a traslocare, ormai con moglie e figli, da Biarritz a un´isola, da Boston a Firenze, da Losanna a Parigi, dove è nato giusto sessant´anni fa; ora è a Bordeaux. E è così che i suoi romanzi magnifici sembrano romanzi americani.
Sono storie che filano a velocità siderale; ogni frase un mondo di sentimenti rovesciato in una formula inaudita e corta, tutta azione e oggetti, e lanciata con naturalezza verso accadimenti atroci («quel pugno se l´è portato alla bocca, come a dargli un bacio, e l´attimo dopo l´ha fatto passare attraverso il vetro della finestra»). Quando la rivelazione per il lettore è troppo crudele, Djian lascia uno spazio bianco, come il salto di un battito; subito il corso rock degli affetti riparte, senza il tempo di cicatrizzare. Ma "la tenerezza è una roba impossibile da smerciare"; così sono storie noir all´apparenza.
Dal 1986, Djian è in testa alle classifiche: è stata Béatrice Dalle, smagliante faccia della giovinezza e della follia, la Betty Blue del film di Jean-Jacques Beineix, a far conoscere 37°2 al mattino, che esce ora in Italia da Voland, dove sempre Daniele Petruccioli ha già tradotto Gli imperdonabili, splendido testo sul lutto impossibile.
Philippe Djian è a Roma, per Massenzio Letterature, stasera. Lei è l´unico scrittore francese a scrivere romanzi americani, gli dico. «Non so se è un complimento» – ride Djian – «il problema è essere contemporaneo alla propria lingua. Non so come va in Italia, ma in Francia il 95% degli scrittori scrive come se si fosse ancora nel XIX secolo. Il francese è una lingua bellissima, ma bisogna aggiornarla, se no muore, proprio perché è una cosa vivente. Occorre un nuovo modo di guardare le cose. Il regista giapponese Ozu ha preso la camera e la ha messa a livello del suolo; di colpo le cose che filmava hanno preso un´aria diversa. Erano cose semplici, una coppia, persone sedute a tavola – ma cambiando l´asse cambiava la rappresentazione del mondo. Le storie non sono importanti; certo non bisogna tradire un certo misto di grottesco, orrori e bellezza che è il moderno. Però Céline diceva: se volete delle storie, basta aprire un giornale. Mentre lo scrittore assomiglia al cineasta che si chiede: cosa inquadro? E con quali luci?».
Il ritmo dei romanzi di Djian è un prestissimo. La musica per lui deve essere molto importante. «Appartengo a una generazione che ha conosciuto tutto attraverso la musica», conferma. «Anche l´embrione di coscienza politica che si poteva avere all´epoca era Bob Dylan che cantava It´s a hard rain´s a-gonna fall, erano poeti e cantanti che ci conducevano alla scoperta della bellezza e forse della storia. Era chiaro per me, la letteratura come la musica è un´onda, qualcosa che si sente col corpo più che con lo spirito. Sono un musicista mancato» – aggiunge – «e solo perché sono sordo da un orecchio». Quale musica sente di preferenza? «In questo momento molte cose sperimentali italiane degli anni Settanta. E anche del field recording, registrato nella strada o nella natura. E il milanese Giuseppe Ielasi, con la sua musica minimale. Per le canzoni ho passato l´età. Ma amo gli Animal Collective, The Residents».
Djian ha fatto musica con Stephan Eicher; ha rapporti con la pittura (il recente La fin du monde, quasi un rap trascritto sulla tela da Horst Haack), col cinema e perfino con la tv. Gli domando se pensa che la serialità abbia qualcosa da insegnare a un romanziere. «Serie come Six Feet Under propongono un format interessantissimo. Non c´è più un centro, ci sono molti centri, nelle storie. Non si deve più descrivere ogni personaggio; si entra in azione subito. Nella competizione tra segno e immagine, mi sono divertito a fare una serie, Doggy Bag, finita in tv ... Ma resto legato al segno, alla lingua».
La fiducia di Djian nel ruolo della letteratura oggi è piuttosto straordinaria. «Una volta ho detto: quando non mi sentivo bene non andavo dal medico, andavo dal libraio. La frase è piaciuta tantissimo, ne hanno fatto una affiche. Ma era vero, semplicemente. Quando ero a disagio andavo a comperarmi magari Cendrars, il poeta, e poi cercavo come lui di imbarcarmi in un cargo verso la Colombia; l´ho fatto. Ho bisogno di una letteratura che mi sia utile. C´è un´espressione in Francia – Proust non mi aiuta a attraversare la strada. Carver e compagni erano capaci di prendere il mondo in cui vivevano e metterlo in una frase; era una frase-mondo. Diceva Hemingway che il vero scrittore, quando descrive la punta emersa di un iceberg, fa sentire la massa enorme che c´è sotto».
André Téchiné, il regista della Deneuve, sta finendo Terminus des anges, tratto da Gli Imperdonabili. C´è Carole Bouquet, e un´imbronciata Mélanie Thierry; l´adolescente difficile è Lorenzo Balducci. E´ contento del film?, – chiedo a Djian. «Ah, certo. I fratelli Larrieu hanno comperato il mio ultimo lavoro, Incidences. Ma in questo momento sono preso dalla sceneggiatura di un altro mio romanzo, Impuretés. Lo dirigerà Julie Granier, quasi sconosciuta. Ma bisogna andare a cercare i Godard di domani, e cercarli oggi»." (da Daria Galateria, Djian: 'La mia Betty Blue finalmente in Italia', "La Repubblica", 08/06/'10)

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