sabato 12 giugno 2010

La tirannia dell’e-mail


"Nei minuti che dedicherete alla lettura di questo articolo viaggeranno per il mondo 300 milioni di e-mail.
Se Internet non esistesse, 2 su mille sarebbero diventate lettere di carta, 998 non sarebbero state scritte. Soffriamo di bulimia epistolare. G-mail, il servizio lanciato nel 2004 da Google, grazie a 450 mila computer disseminati negli Stati Uniti mette a disposizione di tutti una casella postale illimitata.
Inviare e-mail non costa nulla, la consegna è istantanea, con un clic si può spedire lo stesso messaggio a molti destinatari, allegare foto, documenti, fatture, libri, musica. Perché non farlo? Così quasi tutti lo fanno: 900 milioni di persone sul miliardo di utenti abituali della Rete. Nel 2009 i lavoratori dipendenti hanno passato il 40% della loro giornata a inviare e ricevere una media di 200 messaggi.
La frenesia di leggere e rispondere rende intermittente l’attenzione, il cervello e il lavoro ne soffrono.
A peggiorare le cose c’è il rumore di fondo dello spam, la posta spazzatura: su 100 e-mail 85-90 sono indesiderate. Offrono viagra, sistemi per sviluppare il pene, chirurgia estetica, vacanze, affari, giochi d’azzardo. Nel 2007 i messaggi spam sono stati 100 miliardi al giorno. Da rimanere tramortiti sotto il loro peso.
Trovate questi dati nel libro La tirannia dell’e-mail (Codice). Ma
l’autore, John Freeman, spiegando come la posta elettronica ci ha cambiato la vita, racconta anche la storia della posta tradizionale, dai messaggeri a cavallo ai piccioni viaggiatori, dalle tavolette di argilla alla carta, alla tardiva invenzione della busta: nell’Ottocento le lettere si ripiegavano ancora su se stesse. Scriversi, costava caro, pochi potevano permetterselo.
Quando nel 1837 in Inghilterra la tariffa scese a 1 penny, fu una rivoluzione nei rapporti umani. Anche i giornali e la libertà di stampa ne fruirono (non a caso qualche settimana fa un decreto del governo Berlusconi ha abolito le tariffe postali agevolate per i giornali).
La corrispondenza su carta aveva tempi di giorni o settimane. Si scriveva solo il necessario, le lettere importanti finivano in archivi a disposizione degli storici.
Oggi cestiniamo la maggior parte delle e-mail senza neppure leggerle, mentre una minoranza ingombra memorie elettroniche che nessuno sonderà, salvo forse i servizi segreti.
L’istantaneità della comunicazione irrompe nel mondo con il telegrafo, ma era per pochi. L’email ha dato a tutti questo dono, però lo ha banalizzato. La sacralità del telegramma traspariva dal primo messaggio trasmesso da Morse il 24 maggio 1844: «Così ha permesso Iddio!».
La prima e-mail fu una serie casuale di caratteri trasmessa solo per vedere se il sistema funzionava.
Fin dal titolo del libro si intuisce che John Freeman, scrittore e critico letterario del New York Times, è nostalgico del calamaio, uno che rimpiange le mezze stagioni, un «signora mia, che brutti tempi!». Nell’ultimo capitolo la cosa diventa palese perché si arriva a un manuale di autodifesa dalla posta elettronica e all’elogio di Don Knuth docente della Stanford University che ha scritto: «Sono un uomo felice dal 1° gennaio 1990, da quando non ho più un indirizzo e-mail».
La posta elettronica è nata nelle università e lì è rimasta per vent’anni. Quando Knuth ha staccato la spina noi incominciavamo a usarla. Sappiamo che ha molti difetti e ci ruba un sacco di ore. Tuttavia la domanda è: sapremmo farne a meno?
Sorprende che Freeman, uomo di lettere, non supporti la sua tesi tecnofobica una analisi delle mutazioni portate dalle e-mail nella scrittura e nel costume.
Bisogna dunque spendere qualche parola per dire ciò che nel suo libro non troverete.
La posta elettronica ha dato origine a una sorta di oralità scritta. Si scrive come si parla, non si correggono i refusi, abbondano errori di grammatica e sintassi. Però la scrittura, che sembrava condannata dalla tv e dal telefono, è risorta. A integrare la comunicazione sintetica e informale della posta elettronica sono arrivate le icone per esprimere i sentimenti: allegria, malinconia, disgusto, sorpresa. Le «faccine», o «emoticon», disegnate con parentesi, trattini e segni di interpunzione, compaiono il 12 aprile 1979 ad opera di Kewin MacKenzie, sono i geroglifici moderni. Tutto ciò ha generato una scrittura liquida e soffice. Si scrive come in assenza di gravità, il testo diventa invertebrato, trionfano la scrittura-collage, la scrittura modulare, la scrittura riciclaggio, la scrittura come montaggio di testi altrui, la scrittura flusso di coscienza, la scrittura senza scrittura.
Ma anche la scrittura come libertà di tutti, non soltanto di chi ha potere economico e culturale. Il libro ci aveva abituati a una lettura sequenziale, dalla prima all’ultima pagina, in uno spazio a una dimensione come un segmento; l’ipertesto del Web è tridimensionale. L’illimitata duplicabilità dei messaggi digitali, si tratti di testi, foto o musica, e la possibilità di diffondere tutto ciò con le e-mail ha cambiato il senso della proprietà intellettuale. C’è una vorticosa circolazione di idee che riscatta la posta elettronica dalle sue pur innegabili controindicazioni.
Basterebbe una sola e-mail sfuggita alla censura dell’Iran o della Cina per compensarne migliaia di ignobili spam." (da Piero Bianucci, Mi leggi o cancelli?, "TuttoLibri", "La Stampa", 12/06/'10))

Slow Down, Sign Off, Tune Out (Sunday Book Review)

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