venerdì 4 giugno 2010

Fare scene


"La cinefilia è una sindrome. Un disturbo, una perversione, una patologia. Quando qualcuno si autodefinisce cinéphile - in francese, addirittura - significa che è all'ultimo stadio. Ma anche prima di arrivare lì, quando si sente parlare di grande passione per il cinema, le probabilità di essere davanti a un malato sono molto alte. Solo che lui non lo sa, noi non lo sappiamo, non lo sa nessuno. Se, contagiati, trasmettiamo il morbo ai nostri figli, ne siamo fieri e crediamo di educarli; se a un certo punto della nostra vita il cinema comincia a non piacerci più pensiamo che abbia perso valore, oppure che ci siamo inariditi noi: invece molto probabilmente siamo guariti senza nemmeno aver saputo di essere malati - può succedere. Capire questo, nel mondo, vuol dire essere già un bel pezzo avanti. Uno che l'ha capito, e che può aiutare molte persone a capirlo, è Domenico Starnone - malato conclamato e inguaribile. Perché Starnone è da anni uno dei migliori scrittori che ci siano in giro, e come tale ha scritto un libro, bellissimo, pubblicato da Minimum fax e intitolato Fare scene, che illustra in maniera struggente il duro destino dei contagiati e le afflizioni cui vanno incontro. È bene chiarire subito che si tratta di un libro maggiore di Starnone, cioè di una prova narrativa alta, completa e matura, e che la chiave patologica in cui lo sto presentando è farina del mio sacco: l'autore, cioè, non ha alcun intento clinico o terapeutico ma si limita a raccontare una storia di cinema, come recita il sottotitolo. Tuttavia, o proprio per questo, il morbo l'attanaglia fin dalla struttura: Primo Tempo, Intervallo, Secondo Tempo. Cioè, per i non malati, tre capitoli - il primo e l' ultimo cospicui, quello centrale di alleggerimento. Nel primo (tempo, capitolo, fate voi), Starnone torna sull'ardente materiale autobiografico di Via Gemito per raccontarci come, bambino, abbia contratto la malattia. Semplicemente, poiché sia mamma sia papà lavoravano a casa, i tre marmocchi venivano mandati al cinema insieme alla nonna perché non rompessero le scatole. Ed è sintomatico, qui, in un succedersi di memorabili scene familiari (ma come fa, Starnone, a essere così caldo e così asciutto insieme?), constatare che lui, il maggiore, viene contagiato e il fratello Geppe no, si salva; così, mentre lui sviluppa le prime perversioni, e durante gli intervalli comincia a chiudere gli occhi per continuare a proiettarsi sullo schermo delle palpebre il cinema temporaneamente sospeso, Geppe scorrazza per la sala cinematografica, disturba gli altri spettatori o si avventa sul caramellaro - e la differenza tra la sua sanità e la malattia del fratello sta tutta qui. Ma soprattutto, in questa magistrale auto-anamnesi cinematografica, Starnone ci regala un ritratto struggente (e due, ma davvero, credetemi, l'aggettivo è questo) di suo padre, il vero malato, il vero untore, colui che esporrà l'intera famiglia alle complicanze del proiettoree poi addirittura della cinepresa, il marito capace di litigare con la moglie solo perché in Anna Silvana Mangano disonora Raf Vallone. E qui, proprio per far capire come il fuoco del racconto, pur così intimo, sia già puntato sulla malattia che lo accomuna al padre, Starnone scrive questo: «Non poteva tollerare nemmeno l'idea che mia madre gli facesse, in un futuro prossimo (o gli avesse già fatto, senza che lui se ne fosse accorto, in un passato recente), ciò che Silvana Mangano aveva fatto a Raf Vallone, mettendolo così nella condizione di dover per forza ammazzare un uomo di merda come Gassman. Infatti - lo sentivo nel letto, e non riuscivo a prendere sonno - strillava in cucina, per il corridoio, nel cesso: io nel caso ammazzo prima te e poi a chillo strùnz. Ma quale stronzo?».
Siamo a John Fante, direi - ma forse, con quella domanda finale, siamo anche più in là. E proprio Fante, e Chandler, e Faulkner, e Fitzgerald, vengono in mente nel secondo tempo, dopo il contrappunto dell'intervallo. È passato mezzo secolo, quel bambino traumatizzato è ora un sessantenne che - ovviamente - replica il trauma subito a danno degli altri: fa lo sceneggiatore e si sforza di produrre «la ripetizione dei terremoti emotivi che avevamo vissuto al cinema o davanti alla TV fin dall'infanzia, trepidando, divertendoci, soffrendo, godendo; il nostro ancora di bambini mai veramente cresciuti». Proprio come i maestri sopra citati nelle loro esperienze hollywoodiane è già profondamente frustrato dai compromessi che deve accettare nei suoi lavori ordinari quando viene catturato dalla trappola micidiale del film d'arte. Ecco, le cento pagine di questa storia sono un completo, esilarante repertorio delle umiliazioni, delle assurdità e delle viltà nelle quali l'intellettuale deve sguazzare quando per una volta osa un gesto da cinefilo all' interno del mondo del cinema. È la catastrofe: catartica? Palingenetica? Macché.È vero, di vergogna in vergogna, a poche pagine dalla fine Starnone sembrerebbe, nello stordimento della disfatta, guarire: a notte tarda, nella stanza d'albergo a tre stelle dove il produttore lo ha spedito perché metta un freno al delirio d' onnipotenza del regista che sta girando il film da lui scritto, vede alla televisione la fine di Là dove scende il fiume e si rende conto di non assomigliare proprio per niente a James Stewart, come ha creduto per tutta la vita. Potrebbe essere la salvezza, l'uscita dal tunnel, ma Starnone è incurabile e risprofonda subito nell'abisso, beve il calice dell'umiliazione fino in fondo, ruzzola con tutta la storia verso un finale perfetto e definitivamente disonorevole e mentre lo fa - come il tossicomane, come il tabagista, come l'alcolizzato - giura eterno amore al proprio male con questa struggente (e tre) considerazione terminale: «E poi, mi dissi, che ci posso fare? Il cinema per me, tutto il cinema, è una necessità della testa e del sangue». Che il buon Dio abbia misericordia di lui, grande scrittore." (da Sandro Veronesi, Scrivere cinema. Il senso di Starnone per i film, "La Repubblica", 02/06/'10)

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