sabato 19 giugno 2010

Diario di lettura: Paolo Sorrentino


"Un uomo pauroso? Sembrerebbe. Almeno a giudicare da quello che Paolo Sorrentino considera il suo leitmotiv suggerito da Thomas Hobbes: «L'unica passione della mia vita è stata la paura». Però, a dir la verità, il timore non sembra proprio la linea guida di uno dei nostri registi più noti a livello internazionale, che ha avuto l'ardimento di portare sullo schermo con gran successo l'arduo profilo del Divo (premio della giuria a Cannes), ovvero di Giulio Andreotti, o di realizzare complicate storie di mafia come in Le conseguenze dell’amore. E non basta.
Il quarantenne cineasta napoletano, che incontriamo nel suo studio romano in stile arte povera Anni Settanta, con librerie spartane e cd da tutte le parti, ha ora aggiunto al suo nutrito curriculum anche un romanzo, Hanno tutti ragione (Feltrinelli), con cui è entrato nella cinquina dello Strega.
E dove il protagonista del libro, Tony Pagoda, cantante dalle mille vite che emigra in Brasile e poi ritorna in Italia, non è per nulla fifone bensì avventuroso e sfrontato. Con minuscolo orecchino, basettoni e sigaro in bocca per tener lontana la pericolosa tentazione delle bionde (intese come sigarette), Sorrentino combina l'ironia alla maniera del concittadino Eduardo (ha girato per la tivù Sabato domenica e lunedì di De Filippo) con il distacco sarcastico del filosofo più amato, Friedrich Nietzsche.
Allora, come la mettiamo con questa epigrafe di Hobbes? «Io sono veramente pauroso. Non posso dire “Tony c'est moi” come Flaubert. Mi piacerebbe, eccome! Vorrei veramente possedere quella dose di menefreghismo e di audacia che ha Pagoda. Sono timoroso, intanto, dal punto di vista fisico, ma non solo. Un esempio? Pur vivendo in una città di mare non ho mai saputo fare i tuffi, tanto meno quelli come Raffaele La Capria che si buttava direttamente da Palazzo Donn’Anna nel mare di Posillipo (e
che ha sempre teorizzato che l'arte del tuffo è come quella del racconto)».
La paura e i film ... «Anche la scelta dei miei primi film, da spettatore intendo,
è stata dettata dalla paura. Evitavo Dario Argento, che mi strizzava lo stomaco e mi rendeva insonne. Per Shining, film indubbiamente terrificante, ho fatto dei sacrifici perché era travolgente dal punto di vista tecnico. Però il senso del mistero, tutto quello che viene nascosto o celato, mi attrae pazzescamente. E' come andare in seggiovia, mi procura le vertigini però ... mi piace immensamente. Un personaggio che oggi continua a stimolarmi con la sua “intelligenza del male” è il mafioso Riina: suscita tanti interrogativi irrisolti. Mi affascina».
A scuola dai padri salesiani: la tenevano sotto torchio, le proibivano le letture?
«Macché. Anzi, per la maturità ho fatto una tesina su Marx e ho il sospetto che mi abbia fruttato quel 40, voto bassissimo. Ma i religiosi avevano una caratteristica: sollecitavano la curiosità per tutto ciò che era inaccessibile, inviolabile. C'erano luoghi assolutamente proibiti, come l'ultimo piano della scuola con gli alloggi privati dei sacerdoti, o certe ali dell’edificio dove andavamo a fare il ritiro spirituale e dove c'erano le sorelle che vivevano in clausura. Peraltro noi allievi coltivavamo fantasie, mai verificate, sui preti che frequentavano - e che secondo le nostre illazioni corteggiavano - le suore del Sacro Cuore che avevano il loro istituto lì vicino. Insomma era tutto uno spiare ed essere a nostra volta spiati. Come adolescente ero più attratto dal calcio e da queste esperienze di vita: a 17 anni, però, faccio il gran passo e scopro, in contemporanea, il cinema e la filosofia».
Pensatori preferiti? «Hobbes e Nietzsche che forse era alla base della diffidenza nei confronti della politica. Della resistenza a concedere totalmente la fiducia, a credere intensamente e passionalmente in qualcosa che accomuna tutta la mia generazione. E poi c'erano gli scrittori: Kafka, ineguagliabile maestro di atmosfere rarefatte, e successivamente il grande Perec e Pynchon, dalla vita così poco scandagliabile. Ottiero Ottieri, Arbasino autore delle Piccole vacanze, Céline di Viaggio al termine della notte, Sartre, Camus, gli esistenzialisti, Stanley Elkin, bravissimo ma sconosciuto al grande pubblico. Lui stesso lo sapeva e commentava: “credo di conoscere tutti i miei lettori personalmente”».
L'interesse per il cinema? «Matura negli anni dell’università. Il conformista di Bernardo Bertolucci, C'era una volta in America di Sergio Leone, Martin Scorsese ... I primi approcci con il grande schermo avvengono alle 5 della sera, in totale solitudine, non tolleravo nessuna compagnia, al cineforum del Vomero. Alimentavano i sensi di colpa per le lezioni trascurate. Oggi, invece, quando mi organizzo per andare a vedere un film mi capita quello che succedeva a Fellini: “ogni volta che sto per andare al cinema”, diceva, “per strada trovo sempre qualcosa di meglio da fare”. Ma per me, studente di economia e commercio e aspirante regista, allora era vero il contrario. All'epoca la mia facoltà era a via Caracciolo, affacciava direttamente sul mare. Credo che proprio questa inesistente linea di demarcazione tra la vacanza e lo studio mi facesse entrare in stato confusionale. L'incontro con Toni Servillo e anche con la new wave dei registi napoletani, quell’onda che cominciava a montare con Mario Martone e Antonio Capuano con cui collaboro alla scrittura della Polvere di Napoli, mi getta definitivamente nelle braccia del cinema».
Piste di cocaina, dipendenza, vite alternative appartengono tanto a Tony Pagoda quanto al protagonista del suo film in Un uomo in più, anch’esso cantante fallito. Le droghe come nume o demone ispiratore: è stato uno dei cultori della beat generation? «Non in particolar modo. Personalmente, poi, ogni volta che mi sono avvicinato a uno spinello o a qualche altra esperienza di questo tipo, a far da catalizzatore è stata, anche in questo caso, la paura. Non mi convincevano, credo di essere proprio refrattario. Meglio, poi, di Kerouac o Ginsberg o Burroughs, il Lamento di Portnoy del trasgressivo Philip Roth che ho divorato da ragazzino. Come capita a quell’età, le descrizioni che accendevano la fantasia erano quelle erotiche: divertenti, paradossali quelle del piacere solitario di Alex Portnoy che, da adolescente, in un mondo di fazzoletti sgualciti, di kleenex appallottolati e pigiama macchiati, si divertiva a violentare bottiglie di latte, una fetta di fegato appena comprata dal macellaio o una mela scavata e privata del torso».
E quando gira un film? «Divoro saggi sull’argomento di cui intendo occuparmi: può essere l'onorata società, la criminalità, gli anni di piombo, il traffico di droga o di armi. Poi quando comincio a girare abbandono tutto. E' talmente faticoso stare in scena che la sera crollo senza aver toccato pagina, cosa che raramente mi capita. Unica eccezione in tanti anni? Ancora e sempre Roth e il suo L’animale morente, me lo portavo dietro anche sul set».
Pure a Cannes? «Niente tomi, alla kermesse non è possibile far altro che avere incontri e lavorare. Io poi non leggo nemmeno in treno o in aereo, mi guardo intorno, sono attirato dalle persone».
E adesso che è in attesa di partire per l'America per incontrare Sean Penn e cominciare le riprese del nuovo film This Must Be the Place? «Ho visto uno strepitoso Daniele Luchetti, La nostra vita. E poi leggo i napoletani Giuseppe Montesano e Giuseppe Ferrandino, autore di Pericle il nero, piccolo malvivente che sodomizza i suoi debitori. Ma dal momento che nella pellicola che sto per iniziare a girare si intrecciano le storie di un ex divo del rock e di un ex criminale nazista, sono in un mare di libri con svastiche e aquile imperiali. In cui non ho timore di tuffarmi. Per una volta»." (da Mirella Serri, 'Non posso dire come Flaubert Tony c’est moi', "TuttoLibri", "La Stampa", 19/06/'10)

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