martedì 29 giugno 2010

Mario Trevi: 'Da Jung a Fellini amo le zone d’ombra'


"Sulla grande scrivania, dietro la quale Mario Trevi siede, non ci sono oggetti né libri, né ricordi. E´ una superficie libera come una pianura, come un foglio di carta. Sulla quale si notano le grandi mani che ogni tanto vi vengono poggiate. Trevi ha da qualche mese compiuto 87 anni, è uno dei grandi psicoanalisti italiani. Le cronache lo definiscono di scuola junghiana. Ma credo che nel suo metodo, nella sua analisi ci sia qualcosa di più e di diverso. Mentre parla con voce lievemente bassa, penso che quest´uomo sia soprattutto abituato ad ascoltare. Ha un tono affabile, perfino mite. Le parole non sovrastano i concetti e le storie che egli racconta. E´ schivo e ordinato, acuto ed essenziale.
Ha una moglie e una figlia - due psichiatre - e un figlio, Emanuele, che è un noto e bravo scrittore. Anni fa, padre e figlio diedero vita a una bellissima conversazione, che poi divenne un libro (Invasioni controllate, Castelvecchi). Mi colpiva di quell´incontro la disponibilità reciproca, l´apertura massima, l´intesa al limite della complicità. «Ho avuto Emanuele a 42 anni e lui, quando è diventato adulto mi ha spesso vissuto come il vecchio padre da proteggere. Lo trovo bello. Ma immagino che dovrò parlare soprattutto di me», dice con tranquillità.
Dottor Trevi, ci dica qualcosa delle sue origini. «Sono nato ad Ancona, mia madre era una langarola. Ricordo la casa della nonna materna, un palazzotto che ereditammo, non so come, dal quale si vedevano tutte le Alpi. Mio padre era ingegnere. Aveva lavorato in Africa e fu fatto prigioniero dagli inglesi durante la guerra. Morì poco dopo il suo ritorno ad Ancona. La vita per noi, si complicò. Diventammo poveri, anche in seguito alle leggi razziali. Studiavo e mi mantenevo con i lavori più umili. Mi laureai a Bologna, in filosofia con una tesi su Berdjaev. Ricordo che i miei amici mi prendevano in giro dicendomi: come fai ad occuparti di Berdjaev e insieme ad essere iscritto al partito comunista?».
Berdjaev era un intellettuale russo che Lenin cacciò via dopo la rivoluzione. In effetti il Pci l´avrebbe potuta accusare di connivenza con il pensiero borghese e reazionario. Come affrontò la questione? «Semplicemente uscendo dal partito nel 1948. Cominciava a infastidirmi la versione edulcorata dell´educazione marxista su come si dovevano leggere i libri. Erano le direttive di Zdanov».
Ma secondo lei che cosa accadde nella testa di molti intellettuali che accettarono quel tipo di imposizione ideologica? «Semplicemente ribadivano il bisogno di fede e di una verità incontrovertibile».
Una fede religiosa, al punto che un partito, come quello comunista, poteva essere considerato una chiesa? «Sì, qualsiasi fede ha un fondo nascosto, inconscio, di tipo religioso. Fede implica abbandono del bisogno del giudizio critico, rispetto alla parte cui si è aderito».
Uscito dal Pci, cosa fece? «Continuavo a lavorare e a studiare. Ebbi la fortuna a un certo punto di essere trasferito a Roma in un ufficio di carattere finanziario. Ricordo che stabilii un patto con il direttore: avrei prodotto lo stesso lavoro degli altri colleghi in un tempo più breve, dedicando il resto della giornata lavorativa a quello che volevo. Fu un accordo segreto e intelligente. Poi, mi pare nel 1964-'65, ci fu un concorso per insegnare nei licei e lo vinsi. Girai in varie scuole d´Italia, l´ultima fu a Formia. Facevo tutti i giorni avanti e indietro con Roma».
Ma quando nacque il suo interesse per la psicoanalisi? «Nei primi anni romani frequentavo un gruppo di amici, tutti più o meno contagiati da Freud e Jung. E col tempo mi accorsi di patire nei loro riguardi una sorta di nevrosi di adattamento. Sentii parlare di uno psicologo ebreo tedesco, un certo Ernst Bernhard, che era riuscito a sfuggire a Hitler e si era rifugiato in Italia. Dove in seguito fu rinchiuso in un campo di concentramento. Quando finì la guerra Bernhard si stabilì definitivamente nel nostro Paese. La sua storia mi incuriosiva».
Accennava al suo primo incontro con lui. «Sì, andai a trovarlo. Abitava in una casa meravigliosa dalle parti di San Luigi dei Francesi. E fin dal primo momento sentii in lui una personalità paterna. Stetti in analisi per tre anni. Poi, grazie anche al consiglio di un´amica, gli chiesi se accettava di prendermi per un´analisi didattica e fu così che intrapresi la professione di psicoanalista».
C´è differenza tra fare l´analisi a un paziente e farla didatticamente a un allievo?
«Differenze tecniche non ce ne sono. Ma di clima sì. Nell´analisi didattica ci si sente più vicini e questo consente forse un approfondimento maggiore. Dico forse perché sul momento non ci si accorge di nulla. Solo a posteriori si capisce che la didattica ha portato qualcosa di nuovo».
Bernhard era molto legato a Jung? «Non in modo così evidente come si è cercato di mostrare. Tra loro non ci fu un grande contatto. Nel suo travagliato passaggio da Berlino a Roma, Bernhard si fermò a Zurigo, ma non credo che egli fece una vera analisi con Jung. Era già un medico specializzato in pediatria e proveniva da un lavoro serio svolto con un freudiano di Berlino. Insomma, credo fosse dotato di un certo eclettismo».
So che leggeva anche la mano. Come giudica quella sua inclinazione? «Diciamo che l´accettai, perché sentivo che la ragione e la coscienza critica avevano in lui un peso che poteva compensare sia il ricorso all´astrologia che alla chiromanzia. Naturalmente mi chiese di fare l´oroscopo. Gli risposi che non conoscevo esattamente la mia data di nascita. Perché, sebbene ufficialmente fossi nato il 3 aprile, mio padre temo avesse sbagliato giorno».
Ma Bernhard era o no uno junghiano? Gli aspetti insoliti che lei mette in luce indurrebbero al sì. «Si dichiarava junghiano, ma era un meraviglioso interprete dell´immaginazione, soprattutto onirica. In ogni caso con me non esagerava gli aspetti misticheggianti che pure in Jung sono presenti».
Con Bernhard fecero analisi molti artisti e letterati, tra cui Manganelli e Fellini. C´è un motivo particolare per cui si rivolgevano a lui? «Bernhard era dotato di un´intuizione formidabile. Credo che questo affascinasse le persone dotate di talento artistico. Io divenni amico di Fellini negli ultimi anni della sua vita. Un giorno mi cercò e al momento non ne compresi la ragione. Scherzando mi capitò più volte di chiederglielo. Su questo punto evitava di rispondermi. Poi, ho capito che mi aveva cercato perché ero il più vecchio allievo di Bernhard e lui voleva, attraverso me, assorbire gli ultimi sprazzi di quel mondo e di quella intelligenza».
L´intelligenza di Fellini era maliziosa e innocente. Non trova? «Con lui la verità sembrava inglobata in una sfera ironica. Sapeva essere molto piacevole e divertente. I nostri rapporti non andarono però mai al di là del lei. Ogni tanto proponeva di darci del tu. Ma la mia timidezza, e anche la sua in fondo, non consentivano un passaggio dal rispettoso lei al confidenziale tu».
Negli ultimi anni della sua vita Fellini lavorò poco e credo che ne soffrì molto. Lasciava intuire qualcosa del suo stato d´animo? «Avvertivo il disagio e ascoltavo le sue lamentele. Credo provasse una forte delusione per il modo in cui il cinema lo stava abbandonando. La malattia aggravò il quadro. E la sua morte fu un grande dolore per me e mia moglie che lo aveva conosciuto».
A proposito del dolore, che cosa pensa dell´indicazione junghiana che lo psicoanalista deve entrare in empatia con la sofferenza del paziente? «Non esagererei questo aspetto della terapia junghiana. La sopportazione del dolore del paziente è un problema per tutti gli psicoterapeuti. E quando c´è un coinvolgimento empatico il problema si aggrava. Direi che è l´esperienza che deve guidare l´analista».
Come trattano Freud e Jung l´inconscio? «Per Freud l´inconscio è il luogo della rimozione. L´uomo non sopporta determinati pensieri, immagini, pulsioni e li rimuove. Jung oltre a questo vede un inconscio collettivo. Ma aggiungerei che partendo da qui si rischia di non capire nulla delle loro differenze. Il primo problema, sul quale Jung si scontra con il maestro, è nel riconoscimento che la personalità dello psicologo, come costruttore di teorie psicologiche, entra inevitabilmente nelle teorie stesse. L´idea junghiana anticipa in qualche modo l´ermeneutica».
Certamente Freud era più distaccato, anche nel modo di interpretare i sogni. «Diversamente da Freud, Jung era giunto alla conclusione che i sogni non possono essere ridotti alla soddisfazione fantasmatica di un desiderio rimosso legato alle pulsioni. Glielo dice un uomo che ha 87 anni, che continua a sognare e proprio in questa età, quando è difficile trovare soddisfazione ai desideri pulsionali, fa i sogni più belli».
Lei trascrive i suoi sogni? «L´ho fatto per molti anni, con precisione e pazienza, al tempo dell´analisi didattica. Ma occorrerebbe farlo sempre, perché se non lo si appunta immediatamente, il sogno inevitabilmente scompare».
Non ritiene che nell´interpretazione di un sogno ci sia un certo grado di arbitrarietà? «Diciamo pure di tradimento. Che fare? Consiglio di accettarlo come si accetta un amico che a volte ci ruba qualche oggetto. Pazienza».
Lei ha lavorato sul concetto di ombra, si tratta del lato oscuro della persona?
«Sì, ma detto così non si capisce il suo valore nell´ambito della psicoterapia. L´ombra comprende non solo le pulsioni rimosse ma ogni lato oscuro dell´esistenza. Anche la parte di scacco che noi dobbiamo ogni giorno sopportare».
E queste ombre come si manifestano? «Nel sogno, ad esempio, attraverso la personificazione. Nessuno di noi può liberarsi del tutto da pulsioni innominabili. Però la maturità ci aiuta a riconoscerle. Non possiamo isolare da noi quest´ombra. Possiamo stabilire dei patti, non di alleanza ma di accettazione».
Dobbiamo imparare a convivere con la parte meno evidente di noi. Lei ha scritto che un uomo senza ombra è un uomo senza spessore. «Bisogna diffidare degli uomini completamente trasparenti o luminosi».
La letteratura ha molto scritto sull´ombra e il doppio. Pensi a quel prototipo creato da Stevenson con Dottor Jeckyll e Mister Hyde. «Stevenson era un vittoriano legato a una morale solida e pregevole. Una volta avanzai un´ipotesi scherzosa: immaginai un dottor Jeckyll coerente che si concilia con mister Hyde. Ne conclusi che entrambi avevano la loro funzione nella vita».
Com´è una sua giornata? «Mi alzo presto e vengo nel mio studio che ancora mi trasmette molta serenità. Quando non faccio le cose serie, come occuparmi degli altri, c´è la lettura. Sono un lettore onnivoro, disordinato. Avendo fatto un paio di anni di matematica ho conservato il gusto per i libri scientifici. Raramente guardo la televisione, e sempre solo la sera, a volte con mia moglie facciamo qualche commento. E´ raro trovare programmi che ci piacciano».
Televisione volgare, italiani volgari? «La volgarità – sotto le forme più diverse: il denaro facile, il sesso postribolare, la corruzione – è l´ombra del nostro Paese. Ma non esagererei nel demonizzarla. Nei momenti di vera crisi gli italiani sono sempre risultati al di sopra del giudizio espresso su di loro»." (da Antonio Gnoli, Mario Trevi: 'Da Jung a Fellini amo le zone d’ombra', "La Republica", 29/06/'10)

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