sabato 5 giugno 2010

Potresti anche dirmi grazie


"Leggendo il libro di Paolo Di Stefano Potresti anche dirmi grazie (Rizzoli) mi è venuto spontaneo ripensare ai miei circa quarant’anni di rapporti vari con le case editrici. E ai mutamenti, notevoli, che sono intervenuti. Nella realtà, e di conseguenza nell'editoria.
Non so quanto in meglio e quanto in peggio, in effetti. La prima osservazione, ormai quasi un luogo comune, è comunque immediata: fino a vent’anni fa o giù di lì il primo approccio editoriale a un libro riguardava la sua qualità letteraria, mentre oggi è quasi esclusivamente rivolto all'ambito della sua possibile diffusione.
Anche i personaggi che lavorano nelle case editrici hanno personalità, natura e facce ben diverse, rispetto a quelli che frequentavo un tempo, che non è poi così remoto. Ricordo di aver conosciuto, negli Anni Settanta, Giovanni Raboni in Garzanti, Antonio Porta in Bompiani, Vittorio Sereni in Mondadori.
Girare nelle stanze e nei corridoi di quelle case editrici, per un giovane che voleva scrivere, era qualcosa di euforizzante. Ci si sentiva parte di un mondoin cui il libro era la sede ideale del pensiero e dell’ingegno, l'alternativa netta alla banalità e all'effimero.
Il libro di Paolo Di Stefano mette insieme una serie di interviste, in parte uscite in questi anni sul Corriere della Sera, (da Andreose a Tropea, da Calasso a
Ferrero e Gelli, da Mauri a Laterza e Sellerio) proponendo un percorso vastissimo, molto vario di testimonianze e informazioni, intercalate da una serie di questioni di fondo sull’editoria emerse dalla parola degli intervistati e dalle domande dell’autore.
Il quale realizza una sorta di piccola enciclopedia, sotto forma narrativa a molte voci, del mondo editoriale, completata dall'ampia e utile sezione finale in cui Margherita Marvulli propone una vasta serie di schede sugli editori.
Ma il libro offre anche la possibilità di godersi aneddoti sugli scrittori, nei loro rapporti con vari funzionari o manager editoriali, e dunque di vedere più da vicino figure che hanno fatto la letteratura di questi decenni. Luigi Brioschi, per fortuna, ci dice che «scegliere e pubblicare libri è ancora, in gran parte, una faccenda legata al gusto, all'intuizione, alla curiosità per il nuovo, all'iniziativa personale. Accodarsi al mercato, in questo può essere un rischio».
Ferruccio Parazzoli, uno dei nostri migliori romanzieri, che «vive» in Mondadori da sempre, osserva che i più giovani, attrezzati per affrontare le nuove richieste del lettore globale e del mercato, «hanno meno dubbi rispetto a quelli della mia generazione. Non so se sia una virtù, ma non si fanno scrupoli. Una volta capito che le cose stanno in un certo modo, non se ne preoccupano oltre. Forse hanno a che fare con un mondo che di scrupoli non può averne».
Passando a cose più amene, molto bello è il racconto di Severino Cesari e Paolo Repetti (Einaudi Stile Libero) sulla presenza di Edward Bunker al Festival Letterature di Massenzio a Roma nel 2002. Lo scrittore ex detenuto campeggia nel suo
fisico imponente e nelle sue eleganti bizzarrie: «Un omone vestito di lino bianco, con un panama in testa e con una mappa di cicatrici come geroglifici in faccia», che arrivò sul palco in ritardo, dopo che l'attore ebbe finito di leggere i suoi testi, non disse una parola, si prese l'ovazione del pubblico, fece un inchino, e se ne andò senza aprir bocca. Altro singolare «ceffo» quello del pittoresco Charles Bukowski, che Inge Feltrinelli incontrò a San Pedro, essendone colpita dalla grande bruttezza, poiché «era tale che trasformò immediatamente in uno strano fascino. Aveva una faccia straordinaria. Tutto era eccessivo in lui: anche la timidezza. Lo trovai in shorts, camicia aperta, scalzo, mi portò subito a raccogliere le albicocche nel suo giardinetto».
Ben diverso il caso di Susan Sontag alla Buchmesse del 2003 nel racconto di Gian Arturo Ferrari: «Rievocò un episodio davvero emozionante della sua infanzia di bambina ebrea. [...] In genere Susan era tutto tranne che commovente, anzi era irosa e impulsiva, complicata. [...] Partiva sempre dal concetto che l'editore voleva metterle i piedi in testa. Ma l'ultima volta, a Francoforte, vedendola così malata pronunciare quel discorso, mi misi a piangere».
Ma tutto il libro (il cui titolo è una frase che Pavese scrisse dall’Einaudi al suo autore e amico Norberto Bobbio), è ricco di storie interessanti, che acquistano risalto anche perché possiedono ormai il fascino del passato e della storia. Ma anche dell’autenticità, e spesso della grandezza, dei loro protagonisti." (da Maurizio Cucchi, Ma che ceffi sulla carovana degli editori, "TuttoLibri", "La Stampa", 05/06/'10)

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