sabato 5 settembre 2009

Pietra di pazienza di Atiq Rahimi


"C'è una donna che veglia un uomo a mezza strada fra la vita e la morte. Meno che uomo: un corpo inerte che si rifiuta di ascoltare. La donna gli conta i respiri con le mani e con la bocca, li scandisce lungo un rosario di parole, ripetendo ogni giorno all'infinito uno dei novantanove nomi di Allah. La donna si muove, riempie di una rudimentale soluzione fisiologica la fleboclisi, sposta il tubicino che finisce nella bocca immobile di lui. Va e viene dalla stanza: a volte è presente, a volte no. L'uomo non reagisce, è distante mille universi di lì. Ma forse lo è sempre stato, ancora prima di finire in quella specie di coma per colpa di una rissa banale e sboccata. Non in battaglia in nome di Allah, come sarebbe stato più logico. Perché ancor prima di diventare un corpo inerte, quella pietra di pazienza - come a un certo punto lei lo «battezza» -, quell'uomo che pure è suo marito quasi non si mostrava, viveva avvolto dal mistero, compariva per poco e spariva per molto. Lei lo aveva sposato a distanza, e solo tre anni dopo le nozze lo aveva visto per la prima volta. Ci sono anche due bambine in questa storia. Ma sono fantasmi, assenti. Come tutto il resto, d'altro canto. Anche l'esterno della scena è impalpabile, quasi astratto. In Pietra di pazienza, il nuovo romanzo di Atiq Rahimi in uscita da Einaudi nella traduzione dal francese di Yasmina Melaouah, non c'è praticamente nulla, se non una donna senza nome accanto al corpo di un marito anch'esso senza nome, che nel presente della storia è soltanto un corpo che non vede, non sente, non pensa più nulla. Certo, Rahimi è nato a Kabul, vive a Parigi da anni perché vi ha chiesto asilo politico, e questo è il primo romanzo da lui scritto direttamente in francese. Pertanto, è lecito pensare che fuori da quella spoglia stanza dove tutto il romanzo si svolge, ci sia l'Afghanistan devastato dalla guerra e ancor più dalle lotte meschine di piccole fazioni che si odiano ma non sanno il perché. Che non fanno notizia ma sangue sì, e tanto. Ma Pietra di pazienza potrebbe essere ambientato ovunque ci sia una donna che veglia un uomo. Ovunque, là fuori, abitino la paura e una violenza stupida, più assurda che mai. Non c'è quasi trama, in questo romanzo che forse tale nemmeno è. Si tratta infatti di un lungo, sfiancante soliloquio, dove una donna che non ha mai parlato a suo marito lo fa ora che lui sta lì, corpo inerte a cavallo fra la vita e la morte. La donna all'inizio prega, o meglio ripete sino allo sfinimento i nomi di Allah senza osare chiedergli nulla. Poi a poco a poco comincia a raccontare, e finisce con lo svelare dei segreti inconfessabili. Un finale improbabile capovolge tutto. Ma al di là delle vicende che appena trapelano attraverso il velo delle parole che la donna affida al silenzio, al buio della stanza, al passato che non verrà più, la sostanza del libro sta tutta in una immagine: una donna che tiene la mano sul petto di un uomo, o meglio quel che è rimasto di lui, gli conta i respiri e parla, dicendo cose che mai avrebbe detto, né a lui da sveglio né a chiunque altro al mondo. Per questo il lettore si sente un intruso, capitato per sbaglio in quell'intimità scabrosa, colma di tragedia, di sofferenza tutta al femminile, di frustrazioni tremende, di una crudeltà insensata. E' un lungo, drammatico soliloquio, questo romanzo. Fatto di parole forti e pesanti, le uniche capaci di abitare in un mondo così. La «pietra di pazienza», quell'uomo ridotto a un corpo ottuso, assorbe tutte queste parole e le rimanda indietro, come una minaccia ripetuta all'infinito". (Elena Loewenthal, Una veglia per capire l'Afghanistan, "TuttoLibri", "La Stampa", 05/09/'09)

1 commento:

FRANCA ha detto...

Sconcertante il finale ma in effetti la cosa più ovvia pensando alla cultura afgana oggi. Non puù esserci comprensione, nè ravvedimento, solo vendetta e come dice la metafora la pietra assorbe con pazienza ma poi quando si spacca lo fa con violenza e violenta .Franca