mercoledì 23 settembre 2009

Pahor: "Il mio secolo fra Trieste e il mondo"


"Come se si fosse rotta una diga. Libri, libri e ancora libri. A 96 anni Boris Pahor, triestino di lingua slovena, assiste con stupore e soddisfazione allo "scongelamento" di un quarantennio di opere sue che, dopo il successo un anno fa di Necropoli, vengono tradotte finalmente in italiano. Premiato e tradotto in mezza Europa ma sconosciuto fino a ieri nel suo stesso Paese, ora il patriarca col vizio della memoria, registra un bel tandem, con l´inedito autobiografico Tre volte no (Rizzoli) e il romanzo del 1967 Una primavera difficile (Zandonai).
Il vecchio è felice nella sua casetta a picco sull´Adriatico. La "riabilitazione" letteraria ha avuto effetti a cascata persino in Slovenia, dove pure è arcinoto: in un anno rilanciati cinque dei suoi libri. È richiestissimo, il telefono suona a ripetizione, e lui risponde a tutti, anche ora che Radoslava, la compagna della vita, lo ha lasciato. Al tramonto scendiamo nel suo bunker, oltre un orticello di pomodori. Si cala per ripide scalette con passo elastico, in tuta e mocassini. Oltre una porticina, montagne di libri, una Remington vecchia di quarant´anni, un lettino con un testo di Spinoza. «Qui - dice - ho vissuto la mia vita parallela. Riemergo solo per mangiare e dormire».
Primavera difficile è la storia di un suo amore francese, dopo la liberazione dal Lager. «Madeleine si chiamava. Per me che ero un naufrago dell´orrore fu la riscoperta della vita. Era la mia infermiera nel sanatorio di Villiers sur Marne dove guarii dalla tbc. "Mon petit" mi chiamava. Fu un regalo magnifico». Fino ad allora lei era stato in mezzo alla morte. «Per un anno e mezzo avevo vissuto fra corpi distrutti. Cataste, montagne, treni interi di corpi distrutti e bruciati come foglie secche. È stato allora che ho capito l´importanza e la benedizione di quella cosa che il secolo ventesimo degradava a un non-valore».
Che cosa? «Il corpo appunto. Il più bel dono che abbiamo. Io ho amato tanto il corpo femminile, ma è il corpo umano in generale che va amato e rispettato. Per uno come me che è tornato dall´abominio l´unica consolazione era pensare che l´umanità aveva in sé la possibilità di creare corpi nuovi e diversi, generazioni migliori».
Cosa fu per lei la Francia? «Era il 1946 e non avevo nessuna voglia di tornare a Trieste. A casa mia erano offesi che rimanessi lontano così a lungo, anche dopo la guarigione. Il problema è che a Trieste c´era il marasma. Manifestazioni continue. La città era passata senza interruzione dalla guerra alla guerra fredda».
Non è stufo di questa complessità di frontiera? «A volte vorrei avere vissuto in un luogo meno complicato di Trieste, ma a che serve essere stufi? Ormai ci siamo dentro e dobbiamo macinare ... Davvero non vedo alternative». Sente ancora così ostico questo suo luogo? «C´è chi rema contro ma qualcosa cambia. Ieri sono andato a Prosecco per un documento d´identità, e quando sono entrato l´impiegata, riconoscendomi, mi ha salutato con un "dober dan", il buongiorno in sloveno. Mi ha reso felice». E sul piano della cultura? «Qualche giorno fa ho affrontato una sala strapiena con Claudio Magris e ho detto che quando il poeta sloveno Kosovel potrà entrare nei programmi di studio delle scuole italiane, allora Trieste sarà un piccolo paradiso. Ho avuto un applauso di straordinario calore. Sì, le cose cambiano».
Professore, qual è il suo segreto?
«Aggrapparmi al presente. Nel campo di concentramento ho imparato a fare sempre qualcosa, senza pensare al passato e al futuro». Eppure lei al passato ci pensa eccome. Secondo alcuni anche troppo. «Me lo dicono in tanti. Gli sloveni post-comunisti mi accusano di rivangare cose morte e sepolte. Ma io non mollo, fino a quando il ventennio fascista resterà nell´ombra in cui si trova. Non si parla degli orrori che comportò. Il nazismo era peggio, mi contesta alcuno. E allora? Non è un buon motivo per archiviare tutto». Pensa che la memoria italiana sia a senso unico?
«Dico: sacrosanto che si sappia delle foibe. Ma altrettanto sacrosanto che si sappia del fascismo e soprattutto della sua aggressione alla comunità slovena. Bastonature, incendi, condanne a morte, cognomi e nomi cancellati, una lingua negata. E molti dimenticano che questo accadeva già vent´anni prima della guerra».
Pensa ci sia una rimozione? «Guardi cosa c´è scritto sulla targa bilingue che ricorda l´incendio alla casa di cultura slovena di Trieste. Si parla di "esagitati", non di fascisti. C´è un´ostinazione tenace e non ammettere l´innegabile».
Come visse da sloveno la proclamazione a Trieste delle leggi razziste contro gli ebrei? «Pensai: ecco, ora anche loro sono nella nostra condizione di perseguitati ed esclusi. Anche quelli di loro che avevano abbracciato il fascismo e magari erano stati antisloveni. Ovviamente non immaginavo l´orrore che si sarebbe scatenato di lì a poco col nazismo». Nel lager lei capì il destino degli ebrei? «Non fino in fondo. Non c´erano ebrei nei miei campi. Ma la gente passava egualmente per il camino. Bisogna stare attenti a ricordare che i forni crematori hanno incenerito anche tanti oppositori del regime e tanti prigionieri politici». La soppressione della lingua fu la sua prima ferita. «Fu uno choc tremendo. Ne parlo diffusamente in quest´ultimo libro-intervista dal titolo Tre volte no. Ero bambino e improvvisamente persi la mia identità. Un giorno fui umiliato in classe perché avevo sbagliato un verbo e il mondo mi crollò. Non ebbi nemmeno il coraggio di andare da mio padre».
Poi ha avuto le sue rivincite. «Durante la guerra, con ritardo, presi la maturità durante una pausa sul fronte libico. Passammo in quattro su quarantasei, fui il migliore in greco ... io che ero sloveno ... Le lingue mi salvarono ... Grazie al francese fui aiutato da un medico francese che mi face fare l´infermiere. Ma sapevo anche il tedesco, e con le SS che mi avevano imprigionato fu un vantaggio. Le lingue slave, poi, mi aiutarono con i prigionieri jugoslavi, russi, cechi, polacchi».
Qual è il suo primo ricordo? «Io e le mie due sorelline nel lettone dei miei con quaranta di febbre per l´epidemia di spagnola. Era il 1917. Una sorella morì. Deliravamo. E nessuno ci aiutava come famiglia». Lei invece è arrivato a 96 anni. Pensa di essere un uomo fortunato? «Mah. Più volte in situazioni difficili ho trovato persone che mi hanno aiutato. Ma che cos´è: fortuna o spirito di iniziativa?». Che pensa di Dio? «Mi sento panteista, come Spinoza, ebreo che gli ebrei maledissero. Credo che ci sia un disegno straordinario nel mondo. Ma non penso proprio che Dio si occupi di noi, che sia un padre affettuoso». E poi c´è il mare. «Io al mare ci parlo, non potrei vivere senza ... Il mare grande e ventoso di casa mia. È il mio amico migliore»." (Paolo Rumiz, Una vita difficile. Pahor: 'Il mio secolo fra Trieste e il mondo', "La Repubblica", 23/09/'09)

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