sabato 5 settembre 2009

Némirovsky, mia madre. Così le ho ridato la parola


"«Quando si impara che si possono avere i genitori alle 8 e alle 8 e cinque averli persi per sempre, si guarda la vita in modo diverso. Un giorno mia figlia mi ha detto che se qualcosa le avevo insegnato era a vivere nel presente, perché
tutto può ribaltarsi da un momento all’altro». Denise Epstein oggi ha 80 anni, tre figli e cinque nipoti. Di anni ne aveva 13, e sua sorella Elisabeth 5, quel giorno di luglio del 1942 in cui maman, cioè Irène Némirovsky, venne arrestata. Da Auschwitz non avrebbe fatto ritorno, sarebbe morta di lì a due mesi di tifo. Andando via, aveva lasciato alle bambine una grossa valigia piena, da cui loro non si separarono più: era l’unico legame fisico con la madre. Un peso da trascinarsi dietro nella fuga, certo, ma anche un pegno, una promessa. Per quella valigia è passata l’elaborazione del trauma della perdita, un lavoro duro al limite dell’impossibile, che Denise Epstein ha svolto mettendoci tutta se stessa. In procinto di partire per Mantova - dove presenterà l’importante biografia della madre scritta da Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt in uscita da Adelphi, con documenti inediti tra cui il diario di Irène - mi riceve nel suo luminoso appartamento tolosano con un calore raro. Racconta, con generosità. La voce è quella di una forte fumatrice («Perché privarmi alla mia età di quello che mi piace?»), il discorso si snoda con garbo e coraggio insieme. Non mancano i momenti di emozione, superati con naturalezza, gentilmente. Parecchi anni fa avevo conosciuto sua sorella Elisabeth, che la malattia ha poi portato via nel 1996. Da allora molto è successo, per via della pubblicazione della Suite francese che all’epoca di quell’intervista non era ancora stata neanche ipotizzata. «Abbiamo reagito in maniera molto diversa lei e io. Ogni sofferenza è individuale. Elisabeth aveva rifiutato il passato, che per lei era cemento armato. Non ne parlava mai. Io ho rispettato quel suo rifiuto. Non è credibile però che non avesse ricordi del tutto, aveva comunque cinque anni, aveva ricevuto gesti di tenerezza. Ma non riusciva a ritrovarli. C’è voluto molto tempo, poi una sera a casa sua è stato suo figlio a chiedere. E allora lei ha accettato che le raccontassi i nostri genitori. Abbiamo bevuto molta vodka quella sera, e pianto insieme. Ne è nato Le Mirador, bellissimo libro di Elisabeth su nostra madre. Quando si è ammalata ha voluto solo me ad assisterla, non abbiamo più smesso di parlare. Mi dispiace molto che non abbia fatto in tempo a vedere la Suite francese pubblicata. Conosceva il libro, ma non pensavamo di farne alcunché, lo consideravamo incompleto benché mamma avesse messo la parola fine alla fine di Dolce, il secondo dei cinque romanzi di cui avrebbe dovuto essere composto l’insieme». Il manoscritto era venuto fuori dalla famosa valigia nera? «Marrone, la valigia è marrone. All’esposizione del Museum of Jewish Heritage di New York, straordinaria, che finisce ora ed è durata sei mesi più del previsto, l’hanno messa sotto vetro. Mi ha fatto sorridere vederla così. Siamo al feticismo. È sicuramente una valigia che ha avuto una lunga storia. Era di mio nonno, ci sono le sue iniziali incise. Lui viaggiava molto, l’aveva comprata a Londra, è foderata di tessuto verde ed è trapuntata all’interno. Credo fosse una specie di cappelliera, è quadrata. Ma se penso ai calci che le ho dato nel trascinarmela dietro per tanti posti sinistri, ritrovarla sotto vetro mi fa un curioso effetto». Conteneva tra l’altro il quaderno rilegato in cuoio. Quando lo avete aperto? «Era l’oggetto che avevo visto di più in mano a mamma. Avevo bisogno di accarezzarlo, tenerlo. Ho deciso di trascriverlo quando la lavatrice mi ha allagato l’appartamento. L’acqua è arrivata vicino alla biblioteca. Con Elisabeth abbiamo pensato che era assolutamente necessario mettere al sicuro quel tesoro e abbiamo deciso di dare tutto all’Imec - Institut Mémoires de l’Edition Contemporaine. Ma non avrei potuto darlo via senza prima ricopiarlo. Così mi ci sono messa. Ci ho impiegato due anni e mezzo, mi sono comprata una lente luminosa per decifrare la grafia che è molto minuta. È stato un lavoro duro a doppio titolo, ma ne sono fiera. Con quello che è successo poi, la pubblicazione, il Prix Renaudot, la traduzione in 38 Paesi, posso dire che è stata una bella vittoria. Non mi piace la parola rivincita, preferisco vittoria. Ovunque sia mamma, deve aver riso di cuore quando ha saputo del premio». Benché scrittrice famosa e di successo, il Goncourt le era stato negato perché non francese. In che senso dice che è stato un lavoro doppiamente faticoso? «Intanto dal punto di vista fisico, basta guardare la fotocopia del manoscritto per rendersene conto. Ho rispettato scrupolosamente quello che mamma aveva scritto. Ci sono anche alcuni errori ma ho voluto conservarli. Mamma li avrebbe tolti se ne avesse avuto il tempo? Non possiamo saperlo. E poi è stato un lavoro doloroso perché conoscevo tutti i personaggi del libro, trascrivere a mano parola per parola ha significato rivivere ogni cosa. Non potrei rifarlo, ma non rimpiango la fatica. Credo di aver fatto tutto quello che potevo, contro l’oblio di ciò che è accaduto. È la stessa ragione per cui da tanti anni vado nei licei a parlare ai ragazzi. Per la memoria». La domanda è delicata, ma sarebbe ipocrita non farla. Sembra inverosimile, eppure sono fioccate nei confronti di Irène Némirovsky convinte accuse di antisemitismo. «Non me ne parli! Mamma scrive di un milieu sociale che ha conosciuto bene, ma è altrettanto crudele quando parla della borghesia francese o di una madre. Non c’è in lei niente di antisemita. Le accuse vengono da gente che ha letto male i suoi libri. Adesso la mia risposta è facilitata. Dico: guardate lo scandalo del finanziere Madoff, ecco di che cosa parla Irène Némirovsky. Allora tacciono». Anche la scelta che ha fatto sua madre di battezzare le sue due bambine è stata giudicata severamente. «Sono stata molto attaccata dagli ebrei americani. Adesso che li conosco meglio capisco di più: non hanno nessuna idea di che cosa sia successo qui. Non conoscono la parola Shoah. Chi si è reso conto per tempo è andato via. Ogni vita salva è sacra, ma non possono, loro che non hanno perso i familiari in quel modo, dimenticare i morti. Tre settimane fa qualcuno mi ha detto: è storia passata. È pazzesco». Nel suo libro autobiografico Survivre et vivre lei parla della riappropriazione della figura di sua madre attraverso la trascrizione della Suite francese, ma anche del rinnovato senso di perdita provato nel consegnare quel libro al mondo. «È un libro che ho scritto per riprendere contatto con i miei figli, per spiegare loro che madre avevano avuto, dar ragione di certe mie scelte. Ad esempio lo stesso riflesso che aveva avuto mia madre: anche io ho fatto battezzare i miei figli. Era passato troppo poco tempo dalla fine della guerra, volevo proteggerli. Mi sentivo in colpa, ma avevo bisogno di documenti timbrati. Almeno sono stata leale, ho detto al prete perché volevo quei timbri. Quanto a mamma, mi sono molto interrogata. Dandola alla gente, che cosa mi sarebbe rimasto di lei, di solo mio? I piccoli nomi che usava per chiamarci. Quelli li ho serbati per me»." (da Gabriella Bosco, Némirovsky, mia madre. Così le ho ridato la parola, "TuttoLibri", "La Stampa", 05/09/'09)

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