giovedì 10 settembre 2009

La somiglianza per contatto di Georges Didi-Huberman


"Gli indigeni dell'Australia del Sud, racconta James G. Frazer, credono di poter azzoppare un uomo se mettono sulla sua orma pezzi di vetro; nell'Africa del Nord, invece, se una donna desidera legare a sé il marito, o l'amante, prende un po' di terra dall'impronta del suo piede destro. L'impronta è un oggetto strano e misterioso. Possiede infatti la prerogativa di essere qualcosa che si forma - sul terreno, sulla sabbia, su un pavimento -, e quindi di cui ci si può appropriare, e insieme è qualcosa che indica una distanza. Traccia, resto e orma, manifestazione di presenza in assenza, l'impronta è un oggetto antropologico e anche religioso, come dimostrano la Sacra Sindone di Torino o la Veronica romana: tracce su un tessuto. L'impronta è meno di un'immagine, perché è un campo di tracce indescrivibili, ed è più di un'immagine perché manifesta qualcosa di assente in quanto reale presenza. Sia che si tratti del lenzuolo con le impronte del Cristo, che di una mano dipinta o impressa su una parete di caverna, l'impronta possiede quella che Walter Benjamin definiva come aura: «Apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina». Nel 1997 Georges Didi-Huberman e Dedier Semin allestirono al Centre Pompidou di Parigi una memorabile mostra dedicata a L'Empreinte, con opere contemporanee da Vito Acconci a Gilberto Zorio. Il catalogo, che comprendeva un lungo saggio di Didi-Huberman, si esaurì in poco tempo. Ora a dodici anni di distanza il lungo scritto dello storico dell'arte e filosofo francese viene tradotto in italiano: La somiglianza per contatto (Bollati Boringhieri). L'idea di fondo è che l'impronta è un'opera senza tempo, un oggetto inattuale, che permette di far incontrare una «situazione attuale» - l'impronta prodotta da un artista - con qualcosa che è fuori dal tempo. Un esempio perfetto di quello che Didi-Huberman chiama «l'anacronismo»: ciò che lega il passato con il presente; meglio, che ritrova il presente nel passato senza schiacciare l'uno sull'altro, ma rendendoli reciprocamente dialettici. La sua è la posizione di chi cerca di trovare culturalmente uno spazio tra l'antimodernismo di autori come Jean Clair e il postmodernismo del gruppo di October, la rivista americana d'arte diretta da Rosalind Krauss. Una posizione originale e importante nel paesaggio attuale, che sembra trovare un corrispettivo proprio nell'arte italiana, cui l'autore, non a caso, ha dedicato in passato studi appassionati ed eruditi: star sospesa tra tradizione e innovazione, tra passato e futuro, tra Rinascimento e postmoderno. La posizione di Didi-Huberman non è affatto scontata, e neppure agevole, come mostra questo inconsueto libro che spazia dall'arte del Quattrocento a Duchamp, cui dedica un considerevole numero di pagine nella parte finale. L'impronta appare, sin da Donatello, per arrivare a Rodin, artista che rende l'impronta un metodo, la possibilità di mettere in dubbio l'idea umanistica dell'imitazione, ma anche della creazione: l'artista stesso come creatore. L'impronta dà vita a quella che Didi-Huberman definisce «un nuovo cristallo del tempo», che non è né ante né post, bensì anacronistico, appunto. Il saggio mette bene in mostra il legame che l'impronta intrattiene con la morte - le maschere mortuarie - e con il desiderio - i calchi di parti del corpo umano -, ma anche con l'impresa artistica stessa, che è poi il vero oggetto di questo studio. Duchamp ha forse liquidato per sempre l'idea dell'opera d'arte come abilità, come «saper fare»? Usando il calco e l'impronta, l'autore mostra l'originalità assoluta dell'artista francese, il suo modo di porsi all'interno dell'arte contemporanea inaugurando una forma di «sottrazione» che ha nell'impronta il suo culmine. Duchamp rappresenta a suo dire lo scandalo «del valore non commerciale dell'arte». Come ebbe a dire il suo amico, lo scrittore Henri-Pierre Roché, «la sua opera più bella è il modo in cui impiega il tempo». Cosa c'entra tutto questo con l'impronta? L'impronta è nelle opere di Duchamp - si pensi al suo calco più famoso e misterioso, Foglia di vite-femmina del 1950 - è uno «scarto», ovvero un'operazione dialettica attraverso cui si produce il simile ma nella forma del dissimile da sé. Duchamp mette in scacco l'idea dell'arte come identità e dell'opera come unicità. Si tratta del problema della «riproduzione», lo stesso analizzato da Benjamin. Con un esempio spiritoso e calzante, Didi-Huberman afferma che anche i bambini si moltiplicano, sono creature fatte in serie, proprio come i celebri ready-made: escono dalla stessa matrice e portano la stessa «impronta», lo stesso cognome. Eppure sono tutti diversi, simili e insieme dissimili. Costituiscono appunto degli «scarti» dalla matrice. Ecco dunque agitarsi il fantasma dell'erotismo tecnico degli esperimenti duchampiani. L'impronta è in definitiva «uno scarto che s'imprime», che reca la memoria del contatto. Non a caso i bambini giocano con le impronte, se ne serve la magia, e la religione le tiene in così grande considerazione. Non tutte, ma molte, e sante, sì." (da Marco Belpoliti, Ogni impronta è un messaggio, "TuttoLibri", "La Stampa", 05/09/'09)

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