lunedì 28 settembre 2009

Fofi: "Pasolini & c.: come ci manca il Super Io civile"


"Per Goffredo Fofi l’inizio di tutto è stato il cinema. Non i libri ma i film. Tutto è nato, quand’era ancora bambino, con la passione per il grande schermo, in particolare quello italiano popolare, di Totò e di Matarazzo. E’ lui a spiegarlo, nella prefazione alla nuova edizione a cura della Cineteca di Bologna dell’Avventurosa storia del cinema italiano, scritta con Franca Faldini, l’attrice compagna di Totò. Originale collezione di testimonianze di cineasti d’ogni tipo apparsa alla fine degli Anni Settanta, l’opera torna aggiornata e integrata: il primo volume è andato in libreria quest’estate, altri tre usciranno entro il prossimo anno. «Il cinema fu per me la scoperta del mondo - scrive Fofi - e dal cinema arrivò tutto il resto, i libri, le riviste, e alcune scelte di vita».
Al tempo stesso si ristampa da Aragno il saggio L’immigrazione meridionale a Torino (1964) che rappresenta l’altro binario degli interessi e della produzione di Fofi, quello di carattere sociologico e politico. Non basta: l’editore Laterza pubblica La vocazione minoritaria, intervista sulle minoranze a cura del giornalista Oreste Pivetta, in pratica una biografia intellettuale di Fofi. Così questo navigatore anarchico delle patrie lettere, 72 anni, protagonista di esperienze educative, critico cinematografico e letterario, fondatore di riviste (da Quaderni piacentini a Ombre rosse a Linea d’ombra), autore di almeno duecento prefazioni o postfazioni per libri altrui, appare prepotente personaggio d’attualità: è l’occasione giusta per intervistarlo sul suo rapporto coi libri.
Lei racconta di essere cresciuto in una numerosissima famiglia della mezzadria umbra: come nacque in quell’ambiente la passione per il cinema? Andare al cinema era la regola oppure un’eccezione? «Era la regola. Come in tutte le famiglie semiproletarie anche nella nostra il cinema era un grande e frequentatissimo divertimento popolare. Al mio paese c’erano due sale cinematografiche, una dei preti e l’altra dei comunisti. In realtà facevano le stesse cose: potevi vedere Santa Bernadette dai comunisti e Sangue e arena dai preti. L’unica differenza era che dai preti c’erano più tagli delle scene un po’ spinte. Mi poteva capitare di andare al cinema tutte le sere, anche perché avevo uno zio che strappava i biglietti e mi faceva entrare gratis».
Come è avvenuto il passaggio ai libri e alle letture? Come è diventato un vorace lettore? «Che le devo dire? Perché ero curioso. I libri rappresentavano un normale allargamento dei miei interessi. Magari perché erano legati a film come Anna Karenina o Via col vento. A dieci anni, dopo la promozione in prima media, mia madre mi regalò i due volumi Garzanti che contenevano tutto il teatro di Ibsen. Il libraio doveva averla convinta di come Ibsen fosse imprescindibile per la mia formazione. Più grandicello, leggevo contemporaneamente l’Avanti! di mio padre e Grand Hotel di mia madre. Più avanti, in una stessa estate, lessi saltando dall’uno all’altro Delitto e castigo, Via col vento, Tom Sawyer e Grandi speranze. Passai dai giornalini ai Libri della Bur e ai Libri del Pavone, in un processo di alfabetizzazione che mi portò al libro che mi ha cambiato la vita: il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, tappa decisiva per uno intriso di meridionalismo come già io ero e diplomato maestro». Meridionalismo nel suo caso volle dire Danilo Dolci, quando lei partecipò all’esperienza sociale e educativa che Dolci aveva avviato a Partinico. «L’occasione era stato un fotodocumentario di Enzo Sellerio su Danilo Dolci. Ne ero stato talmente colpito da scrivere alla rivista Cinema Nuovo. Lui rispose invitandomi a Partinico e io partii per la Sicilia, accompagnato da mio padre. Con Dolci e con Capitini venni coinvolto negli scioperi alla rovescia, in cui gli operai lavoravano gratuitamente per la manutenzione di strade. Ma per la polizia era occupazione indebita di suolo pubblico, per cui la Celere ci arrestò tutti. Al processo c’erano Carlo Levi, Norberto Bobbio, Gigliola Venturi e l’arringa difensiva venne tenuta da Piero Calamandrei. Partinico e Dolci rappresentano per me un passaggio fondamentale: mi mettono in rapporto diretto con il cosiddetto mondo della cultura».
Come si manifestava questo rapporto? «Il primo libro con dedica che ricevetti fu di Franco Venturi. Paolo Milano, critico dell’Espresso, che allora si dava da fare per raccogliere consensi attorno a Danilo Dolci, mi presentava ai grandi scrittori stranieri. Da lì si svilupparono i meccanismi che mi portarono prima a Roma e poi a Torino, dove lavoravo al Centro Gobetti e correggevo bozze o rivedevo testi per la casa editrice di Giulio Einaudi. Raniero Panzieri mi affidò le pagine di Mafia e politica di Michele Pantaleone, un libro che provocò molti processi. Io italianizzai quella scrittura troppo sicula. Poi sono venute le riviste, ma il libro è sempre rimasto il mio punto fondamentale di lavoro e di conoscenza».
Ricorda gli autori, gli editori e i titoli prediletti? «Tolstoj moltissimo, più di Dostoevskij. Ma la mia passione era soprattutto per la letteratura italiana. Infatti la casa editrice che prediligevo non era Einaudi bensì Vallecchi, dove lessi un libro fondamentale: Novelle del Ducato in fiamme di Carlo Emilio Gadda, di cui possiedo la prima edizione. Importanti per me anche le olivettiane Edizioni di Comunità, per i tipi delle quali scopersi Lewis Mumford: un libro come La città nella storia letto a 20-25 anni ti segna per l’intera vita. Ti segna molto più dei vari Quaderni rossi, alle cui sedute di gruppo partecipavo, salvo scappare via di filata all’ennesimo incontro dedicato al Capitale. Inoltre intrattenevo un intenso rapporto con la letteratura francese perché i miei a un certo punto emigrarono in Francia e io andavo e venivo: ho conosciuto Foucault, ho ascoltato Barthes, andavo a sentire le lezioni sullo strutturalismo di Lévi-Strauss, manon ci capivo un’acca».
Lei era geloso dei suoi libri? «Quando stavo con Dolci e Capitini la proprietà privata mi faceva orrore, perciò la mia regola era che se qualcuno guardava un mio libro con occhio avido io glielo regalavo. Ho regalato il novanta per cento dei miei libri di cinema alla biblioteca della cineteca di Città del Messico, che aveva visto il suo patrimonio distrutto da un incendio. Così la mia biblioteca si è dispersa ai quattro venti, anche per i continui cambi di casa». Nella prefazione all’Avventurosa storia lei afferma che gli anni ’43-’63 sono stati i più vitali per la società italiana e che questa vitalità si è rispecchiata nel cinema. Il discorso vale anche per la letteratura? «Certo. Con il Gruppo ’63 si chiude un’epoca d’oro della letteratura italiana. Non c’erano solo Pavese e Calvino, Pasolini e Sciascia, ma anche Morante, Fenoglio, Brancati e Bilenchi, Volponi e Gadda e tutti gli altri. Se vai a vedere resti sbalordito: dopo la fase ottocentesca rinasce il romanzo italiano. Ogni anno un nuovo scrittore, un nuovo capolavoro, un nuovo caso. Ricordo una presentazione torinese di Una nuvola d’ira di Giovanni Arpino, con uno scontro fra Panzieri e un sindacalista comunista, forse Pugno, che non accettava gli operai raccontati nel romanzo, aveva in mente l’operaio massa, l’operaio di classe, mentre Panzieri, più raffinato, obiettava che gli operai sono anch’essi uomini in carne e ossa, con le loro debolezze e le loro ansie».
Nell’intervista con Pivetta, lei, invece, definisce gli Anni Ottanta «tra i più stupidi della nostra storia». Perché? «Perché segnano la fine delle utopie, la fine delle speranze, sono gli anni della new age, del culto del corpo, dello spiritualismo indiano, tutte quelle cose lì. Oggi mi sembra che la mercificazione dell’industria editoriale sia arrivata a limiti estremi: conta la merce, non la qualità. Nessuno si preoccupa della sedimentazione di valori. Oggi i libri servono per non pensare. Magari parlano dei temi d’attualità ma in una chiave facilona, consolatoria, sentimentale, in un continuo avvicendamento di mode e generi. Si sente il bisogno di un Super-Io civile: la letteratura italiana l’ha avuto in passato, mentre non ce l’ha più oggi. Pasolini, Sciascia, Calvino, Volponi, Giulio Bollati o Franco Fortini erano persone con cui potevi discutere con accanimento e magari litigare. Ne valeva la pena. Oggi con chi litighi?»." (da Alberto Papuzzi, Pasolini & c.: come ci manca il Super Io civile, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/09/'09)

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