venerdì 11 settembre 2009

2006, Gomorra la sfida di Saviano


"In una serata di luglio del 2006, Roberto Saviano presenta Gomorra, uscito a maggio, in un paesino che affaccia sul mare. Cinquanta persone vengono in piazza ad ascoltarlo. In due, poi, lo invitano a mangiare il pane con i primi pomodori dell’estate. Uno è contadino, l’altro operaio in pensione del cantiere navale: «Stai attento, Roberto - gli dicono - questo libro è buono assai ma è pericoloso per te». Poco dopo, Gomorra vince il premio Viareggio come opera prima. Arrivano le recensioni, le interviste, le vendite. E accade che un libro - per la prima volta dopo il Cristo si è fermato a Eboli - mostra a un pubblico vastissimo una delle decisive condizioni del Mezzogiorno. Così - in un Paese ben più ricco, egoista e diviso di quello di Carlo Levi - la camorra diviene finalmente tema nazionale. Due giorni dopo la fine di quella prima estate, Roberto va a gridare la sua sfida da un palco eretto sulla piazza di Casal di Principe in faccia ai camorristi casalesi: «Iovine, Schiavone, Zagaria, voi non valete niente…». Un mese dopo è sotto scorta.
Nell’estate del 2007 Gomorra è già nel pieno del successo. Su una spiaggia del centro Italia una signora, presa dal caldo, si alza per andare al bar. Mentre procede tra gli ombrelloni, conta quante copie del libro di Saviano stanno sotto quel sole, tra le mani dei lettori, a fianco alle sdraio. Ne conta undici. Poi prende il cellulare e mi invia un sms: «Qui ci sono undici copie di Gomorra. Uffa!». La signora lavora da anni nei servizi sociali di una dura periferia di Napoli. Qualche volta le è capitato di conoscere qualcuno dei boss o dei sicari che Gomorra ha mostrato al mondo. Ma per lo più ha frequentato i mille volti dei loro quartieri. I visi degli uomini, urlanti, agli sportelli del collocamento, a timbrare, anno dopo anno, il libretto di lavoro, per non perdere l’anzianità di disoccupazione. Quelli delle donne che vogliono sapere la posizione nelle graduatorie per le case popolari, annunciate con sempre maggior ritardo, sei, otto, dieci anni dopo le promesse. I visi dei ragazzini che abbandonano la scuola. La signora è figlia di un operaio di fabbrica di un’altra Napoli. Una città dismessa e mai più ricostituita. Nel suo lavoro incontra ogni giorno la fine del mondo di suo padre. È un mondo che si è dissolto con l’avvento della disoccupazione di massa a cui ha corrisposto, di volta in volta, contrabbando di sigarette, eroina, lotto clandestino, cocaina, droghe sintetiche, pizzi sui negozi, racket sugli appalti edili e sulle opere pubbliche, sul lavoro nero, sulle liste dei disoccupati, sulle braccia degli immigrati, sui rifiuti. La signora lavora per lo Stato e, come tanti di noi, è immersa nella vasta zona grigia tra legalità, sopravvivenza e malaffare, dove le tante vite buone sono inestricabilmente intrecciate con quelle che non lo sono.
Un lavoro quasi impossibile in una città dove lo Stato da anni ha perso il monopolio della forza. E dove si è atteso ma non si è più avuto né vero progetto né classe dirigente né buona politica. La signora odia la camorra. Perché assiste allo sfilacciamento delle fibre stesse della convivenza che la camorra produce e alle atroci guerre nelle strade, con la conta dei morti, 3600 in venti anni. Eppure alla signora Gomorra non piace. Lo legge a salti, lo lascia, prova a riprenderlo, infine lo abbandona. Quella scrittura la affatica. «Forse - spiega - per lo sguardo che è ossessivamente concentrato sul sangue e sui grandi traffici e non sa vedere le vicende quotidiane delle persone che io conosco». E, poi, la ferisce il non sapere mai se il racconto dice il vero o, invece, inventa. Sua figlia, ricercatrice squattrinata, la corregge: «Mamma, il libro è vero come può essere vero un libro; e serve molto. È solo che ci fa fatica che ogni gesto di questo bravo ragazzo diventi un’icona intoccabile». Durante la prima estate di Gomorra, molte persone, per ragioni simili a quelle della signora, non riescono a volere bene al libro: il giovane sindaco onesto del paese del Casertano circondato da Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, il ragazzo sorridente della squadra mobile che ripete «magari fosse tutto così chiaro!», la ragazzina che fa l’educatrice in un quartiere straziato, la maestra di scuola d’infanzia che parla ogni giorno con mamme sole e disperate, il cuoco della bettola di quartiere che conosce tutte le storie.
A me, invece, il libro piace. Perché le durezze che frequentiamo a Napoli hanno davvero bisogno di costruzioni più magiche del reale per essere mostrate. E perché ho sentito gratitudine. È una vecchia maestra in pensione a rivelarmelo: «Questo Roberto, questo ragazzo ci ha fatto un dono: ha riscattato tutte le volte che abbiamo raccontato le cose di qui alle persone che qui non vivono e siamo stati accolti con incredulità e scetticismo». Anche al mio amico prete che vive a Scampia Gomorra piace: «Lascia stare i difetti. È un libro onesto. Perché disvela». Disvela. Ma si fa fatica a sentire il signore di Asti incontrato in treno citare Gomorra per poi chiederti se davvero è quello il tuo mondo, mentre tu sai che le cose sono quelle e sono anche molte altre e più complicate.
È passato più di un anno. È il giorno prima della partenza per le ferie. Ricevo l’sms della signora con il suo «Uffa!». Vado dal barbiere, uomo pacato, che è andato alle scuole elementari coi capi camorristi del quartiere. Appena entro mi dice così: «Voi siete un mio cliente ma voi mi dovete regalare un libro che si chiama Sodoma e camorra». Gli rispondo che non è così il titolo e gli regalo Gomorra prima di partire. Ci ritorno a fine estate. Mi prende da parte, serio: «Forse non dice la verità tutta precisa ma sapete che è bello; mi ha liberato il cervello dalle cose che noi qui non vogliamo dire ... perché io qui ci vivo e lo so com’è»." (da Mario Rossi Doria, 2006, Gomorra la sfida di Saviano, "La Stampa", 11/09/'09)

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