mercoledì 2 settembre 2009

Aharon Appelfeld: "Shoah, dopo l'ultimo testimone"


"Sono passati sessantaquattro anni dalla fine della seconda guerra mondiale e mi sembra che stiamo entrando in un periodo nuovo nel nostro rapporto con la Shoah. La novità si fa sempre più visibile perché i sopravvissuti stanno lasciando questo mondo. I sopravvissuti erano e rimangono il terrore di chiunque – storico o narratore – scriva della Shoah. Hanno montato la guardia affinché gli eventi fossero narrati nell´ordine giusto, luoghi e nomi non venissero omessi e i particolari non fossero distorti. Per loro era indispensabile che la Shoah fosse raccontata nei suoi esatti dettagli. Sono stato rimproverato più di una volta da sopravvissuti per essere stato inesatto o per aver descritto ciò che avvenne durante o dopo la Shoah con toni critici nei confronti delle vittime.
Per il sopravvissuto, la memoria cronologica era un´àncora cui sia aggrappava con tutte le sue forze. La scrittura d´immaginazione sul tema della Shoah è stata considerata – e lo è tuttora – un atto sproporzionato rispetto alla gravità del tema. Spesso si sente affermare: sulla Shoah non si gioca con le parole né con la forma letteraria, ma si raccontano le cose com´erano, il più precisamente possibile. E´ vietato l´accesso a questo tema da parte di qualsiasi elemento creativo che non sia la memoria. Non è un caso che gran parte delle opere scritte sulla Shoah siano di natura storica: quelle psicologiche o teologiche sono una minima parte e quelle di fantasia sono pochissime. E´ ben vero che sull´argomento è stata prodotta un´abbondante letteratura sensazionalistica, ma le opere letterarie contenenti una verità profonda sono talmente rare che potrebbe contarle un bambino.
Memoria e commemorazione erano l´energia che alimentava i sopravvissuti: essi non dimenticavano mai il solenne impegno di raccontare tutto, di non trascurare neanche un angolino, di accerchiare l´orrore da ogni parte. Ma ormai siamo giunti sulla soglia di una nuova fase in cui la storia della Shoah dovrà andare avanti senza più sopravvissuti. Finché loro sono vissuti fra noi, la Shoah è stata una presenza estremamente tangibile: aveva un nome, un cognome, una città e un villaggio. Con la sua presenza, con i suoi silenzi, il sopravvissuto dava voce all´orrore. Lo incontravi per strada, a casa sua, alle cerimonie commemorative, insomma ovunque.
La costante presenza del sopravvissuto fra noi ha sottratto la Shoah alla sfera dell´incredibile e l´ha introdotta in quella del visibile. Se mai qualcuno dubitava del male che l´uomo può fare all´altro uomo, degli abissi di barbarie cui può giungere, arrivava il sopravvissuto e glielo spiegava.
Adesso che i sopravvissuti ci lasciano a uno a uno, si avverte un timore: come proseguirà la storia della Shoah senza di loro? In altre parole, come faremo a preservare l´individualità e l´intimità che il sopravvissuto conferiva a quell´esperienza atroce?
Ebbene, oggi sta venendo in primo piano una figura diversa di sopravvissuto. Penso a tutti coloro che allo scoppio della guerra erano bambini: la loro memoria è una memoria diversa, e diverso è il loro modo di esprimere gli eventi. Per tanti anni, i bambini non sono stati annoverati fra i sopravvissuti e il loro ricordo non è stato considerato ricordo. Ora, per comprendere il carattere della memoria del bambino, è importante capire la diversa natura della testimonianza del superstite adulto.
Sulla Shoah è disponibile un corpus imponente di testimonianze scritte, ma chi le studia a fondo non tarda ad accorgersi che esse mancano di introspezione: in effetti, per la maggior parte non sono che cronache. Tutto ciò che si è palesato all´ebreo in quegli anni era al di là della sua ragione e della sua anima. L´ebreo si è trovato nel punto esatto in cui è avvenuto l´orrore, e una volta libero ha desiderato poterlo considerare un incubo, uno strappo nella vita che andava rimarginato il prima possibile: un orrore che non meritava una considerazione spirituale, ma soltanto una maledizione. Nel momento stesso in cui racconta e rivela, il sopravvissuto adulto nasconde. Perché non può non dire, ma non può neanche ammettere che l´accaduto non lo ha cambiato. E´ rimasto la stessa persona, legata agli stessi, vecchi concetti di civiltà.
Le testimonianze della Shoah vanno quindi lette con attenzione, se non si vuol vedere soltanto ciò che contengono ma anche – ed essenzialmente – ciò che ne manca. La testimonianza del sopravvissuto è innanzitutto la ricerca di un sollievo: ho fatto ciò che dovevo fare. Ma che cosa è veramente intercorso fra lui e l´orrore, durante i suoi anni di sofferenza? Che cosa è cambiato dentro di lui, e come sarà la sua vita d´ora in avanti? Le risposte a queste domande, mi sembra, non si troveranno mai. Aggiungo subito, per evitare malintesi, che la letteratura di testimonianza è indiscutibilmente l´autentica letteratura della Shoah. E´ un colossale serbatoio di cronologia ebraica.
Oggi però ci accostiamo a quanti erano bambini durante la Shoah, e la loro è una testimonianza diversa. I bambini non hanno assorbito l´orrore nella sua pienezza, ma soltanto per quella porzione che un bambino era in grado di assimilare. I bambini non hanno il senso della cronologia, del raffronto con il passato. Se il sopravvissuto adulto parlava di ciò che era stato prima della guerra, per i bambini la Shoah era il presente, era la loro infanzia e la loro giovinezza: non conoscevano altra infanzia, né conoscevano la felicità. Erano cresciuti nel terrore. Non conoscevano altra vita. Mentre gli adulti fuggivano da se stessi e dai loro ricordi, rimuovendoli e costruendosi una vita nuova al posto di quella di prima, i bambini non avevano una vita precedente oppure, se l´avevano, era ormai stata cancellata. La Shoah è il latte nero – come dice il poeta – che essi bevevano al mattino, a mezzogiorno e la sera.
Questo aspetto psicologico si carica anche di un significato ideologico. La Shoah è molto spesso concepita, anche dalle sue vittime, come una follia, un´eclissi, un episodio che non appartiene al normale flusso del tempo, un´eruzione vulcanica da cui ci si deve guardare, ma che non fornisce alcuna indicazione sul resto della vita. Le vittime hanno cioè respinto ogni possibilità di considerare la Shoah come vita, come vita nella sua forma più spaventosamente concentrata, sul piano sia esistenziale che sociale. I numerosi libri di testimonianza che sono stati scritti sulla Shoah sono, se vogliamo, un disperato tentativo di ricacciare la Shoah in un angolo remoto di follia, di tagliarla fuori dalla vita, o in altri casi di circondarla di una specie di aura mistica, inattingibile, parlandone come di un´esperienza che non si può esprimere a parole, ma semmai con un prolungato silenzio. Invece nel caso dei bambini cresciuti all´epoca dello sterminio, la vita durante la Shoah è qualcosa che potevano capire, perché l´avevano assorbita attraverso il sangue. Quei bambini hanno conosciuto l´uomo come bestia da preda: non in senso metaforico, bensì come una realtà fisica, in tutta la sua statura, con i suoi panni indosso, col suo modo di stare in piedi o seduto, col suo modo di accarezzare il proprio figlio e picchiare il bambino ebreo.
I bambini stavano seduti per ore a osservare. Fame, sete e debolezza li dotavano di grande acume percettivo. Ma anziché gli assassini, essi osservavano i propri padri e fratelli maggiori, nella loro debolezza e nel loro eroismo. E quelle immagini sono rimaste impresse su di loro, così come l´infanzia si stampa sulla matrice della carne di ognuno." (da Aharon Appelfeld, Quando la Shoah non avrà più testimoni, "La Repubblica", 02/09/'09)

Appelfeld nel catalogo Guanda

Aharon Appelfeld è uno dei protagonisti della sesta edizione del Festival della mente, in programma a Sarzana dal 4 al 6 settembre.

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