venerdì 8 agosto 2008

Ma Jian


"La buona notizia è che Ma Jian è arrivato a casa mia, insieme alla sua compagna e traduttrice Flora Drew. Finché non li ho visti varcare la soglia ho avuto dei dubbi. Avendo letto la sua raccolta di racconti filo-tibetani Tira fuori la lingua (Stick Out Your Tongue: Stories) (che esce il 21 agosto da Feltrinelli) e il recentissimo Beijing Coma, il primo grande romanzo centrato sul massacro di Piazza Tienanmen, non pensavo che lo avrebbero fatto entrare durante le Olimpiadi. Ma Jian, nato nel 1953, lasciò Pechino per Hong Kong (allora colonia britannica) nel 1986. Nel '97 partì per la Germania e infine Londra, dove vive da otto anni. Nessuno dei suoi libri può circolare nella Repubblica Popolare. Lui sì, e ci torna anche due o tre volte all'anno. Ha scelto il mese dei Giochi per comprarsi qui un appartamento che sta arredando. Non che il suo ingresso sia sfuggito alle autorità. 'All'aeroporto - racconta - mi hanno ispezionato i bagagli e hanno sequestrato 64 libri e articoli, tutti miei, compresa la versione italiana di Tira fuori la lingua. Poi la polizia è venuta a casa. Mi hanno invitato a prendere un caffè all'Hotel Sheraton. Visto che pagavano loro ne ho approfittato per ordinare i pasticcini più cari. Ho spiegato che sono qui in vacanza, non darò conferenze, nessun evento pubblico. Certo sono un vigilato speciale. Riesco a entrare perché ho ancora il passaporto di Hong Kong su cui non occorre visto. Comunque il fatto che io sia qui è un segnale positivo, un'apertura, non lo nego. Tira fuori la lingua uscì per la prima volta nel 1987 e fu subito proibito, costringendola all'esilio. In quei racconti il buddismo aveva un'importanza centrale. Lei è ancora religioso? 'Il mio viaggio in Tibet che ispirò quel libro ebbe inizio come un pellegrinaggio religioso. Il Tibet simbolizzava per me la libertà spirituale. Quando ci arrivai lo trovai trasformato in una prigione da cui neppure Budda poteva liberarsi. Già in quel libro metto in discussione la fede. Tirare fuori la lingua, il gesto antico che è il saluto più tradizionale fra i tibetani, è anche quello che faccio alla visita medica perché il dottore possa capire i miei mali. Sentivo un male dentro di me che andava diagnosticato'. Le sue storie tibetane sono dure, disperate. La stessa religione vi svolge un ruolo tragico. Lei ha un amore profondo per il Tibet, ma è agli antipodi della visione romantica di quel paese in voga in Occidente. 'Quel libro si legge come una tragedia, la tragedia della perdita della fede. La scrittura consente di guardare più lucidamente dentro se stessi, non di trovare una nuova via alla salvezza. Lo scrittore è come quel pesce che nuota nell'intestino del cadavere divenuto trasparente, l'immagine dell'ultimo racconto'. E' mai tornato in Tibet da allora? 'No, per due ragioni. Anzitutto perché, dopo essere stato perseguitato dalla censura, metterei in pericolo chiunque parli con me: il conflitto tra i cinesi-han e i tibetani è troppo duro. E poi ho paura di essere deluso dagli scempi della modernizzazione'. Cos'ha pensato a marzo quando è scoppiata la rivolta di Lhasa? ' Che era prevedibile. Ribellioni ce n'erano state tante anche prima. Quella di marzo ha suscitato più attenzione all'estero grazie alle Olimpiadi. Il Tibet è una grande prigione dove l'ordine è mantenuto con le armi. Il risentimento della popolazione viene compresso ma può esplodere in qualsiasi momento. Alla frustrazione dei tibetani per l'oppressione della loro identità culturale e religiosa, si aggiunge sempre di più un'altra causa di rancore, l'emarginazione sociale ed economica. Si vedono circondati da una ricchezza nuova ma a goderne sono solo i cinesi han e una piccola minoranza di tibetani privilegiati'. Beijin Coma, il suo ultimo romanzo centrato in larga parte su Piazza Tienanmen, è stato accolto con entusiamo dalla critica americana. Ma sul sito del "New York Times" accanto alle recensioni positive sono apparse delle e-mail molto critiche di giovani lettori cinesi. L'accusano di appartenere a un'altra generazione che non può capire la Cina di oggi. Come valuta il consenso giovanile verso questo modello di capitalismo autoritario? 'Bisogna capire come emerge questa nuova generazione. Non sentono nessuna curiosità verso la storia. Hanno un vuoto di memoria storica eppur credono di poter capire il rpesente. E' difficile avere una discussione razionale. Sono stati nutriti dall'informazione dei mass media di regime, sempre 'positiva'. Ed ecco che improvvisamente, garzie ai Giochi, gli viene liberalizzato l'accesso al sito della Bbc in mandarino. La loro prima reazione non è affatto quella che si aspetta l'Occidente: sono indignati, accusano i mass media stranieri di diffamare la Cina. Non capiscono il ruolo della stampa libera che è di stimolare il cambiamento. Il nazionalismo dei giovani crea una tremenda barriera alla comprensione. L'orgoglio per lo status mondiale della Cina si proietta sulla loro autostima, la fiducia che hanno in se stessi. Criticare il Paese è come demolirgli l'immagine che hanno di sé. Sono sicuro che alla cerimonia d'inaugurazione dei Giochi ci saranno allusioni alla grandezza della Cina imperiale. C'è un parallelo implicito fra certe figure di 'buon tiranno' del passato e l'autoritarismo attuale. Finché la maggioranza sta bene, le sofferenze di tante minoranze sembrano un prezzo accettabile'. [...] Il sogno di Tienanmen è finito o lei spera che il cambiamento politico torni all'ordine del giorno? 'Questo regime, all'interno della sua logica, ha realizzato il massimo che poteva. Da qui in poi sarà indispensabile accettare delle forme di democrazia. L'anno prossimo con il ventesimo anniversario di Piazza Tienanmen sarà difficile non fare i conti con quell'evento. Non potranno sottrarsi alla necessità di rivedere il loro giudizio storico'." (da Federico Rampini, Ma Jian, "La Repubblica", 08/08/'08)

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